Cesare Pavese IL MESTIERE DI VIVERE I 1935 – 1937 e II 1938 – 1950

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Cesare Pavese
IL MESTIERE DI VIVERE I
1935 – 1937

“Il Mestiere di Vivere” è il diario che Cesare Pavese iniziò a scrivere dopo il suo arrivo a Brancaleone Calabro nell’agosto del 1935. La prima data del diario è il giorno 6 ott. ’35’.
La stesura dell’intero diario, “Il Mestiere di Vivere”, termina qualche giorno prima del suicidio dell’autore, avvenuto il 27 agosto del 1950. L’ultima data del diario è il giorno 18 ago. ’50’ dove il poeta scrive le ultime celebri parole che anticipano e preannunciano il suo suicidio.
Sicuramente il diario di Pavese ha alcune analogie con lo Zibaldone di Leopardi. Infatti, il Mestiere di Vivere, contiene, come lo Zibaldone:
1. Riflessioni intime del poeta su sé stesso;
2. Descrizione dei luoghi frequentati ed abitati;
3. Riflessioni filosofiche e teologiche;
4. Considerazioni etimologiche;
5. Meditazione sulle opere letterarie che scriveva;
6. Citazioni di titoli e versi di alcune sue poesie;
7. Citazioni di molte opere straniere dalle quali prendeva spunto per i suoi lavori;
8. Citazioni e riflessioni su autori classici come Omero e altri;
9. Riflessioni su poeti stranieri, francesi, inglesi e americani;
10. Scrittura “work in progress”.
Io, Biagio Carrubba, penso che la vita di Cesare Pavese abbia qualcosa in comune con quella di Giacomo Leopardi. Infatti entrambi avevano due problemi che praticamente li accomunava: entrambi vissero la vita da soli alla ricerca di un amore corrisposto che non trovarono mai ed entrambi soffrivano di un problema sessuale.
Infatti entrambi vissero alla ricerca perenne di una donna da amare e che li amasse ed entrambi ebbero una disfunzione sessuale per la quale soffrirono molto e in silenzio.
Entrambi i poeti si professarono atei anche se meditarono molto sull’ipotesi di Dio ed entrambi scrissero molte pagine su Dio anche se rimasero sostanzialmente atei fino alla fine.
Inoltre i due grandi poeti ebbero una vita breve e morirono quasi alla stessa età: Leopardi morì a 39 anni nel 1837 mentre Pavese morì nel 1950 quando aveva 42 anni. Appena tre anni in più che sono una inezia in una vita umana.
Entrambi soffrirono perché non riuscirono a trovare l’amore di una donna e ciò fu un momento fondamentale per la loro poesia e per la loro poetica.
Prendendo spunto dalla filosofia di Heidegger, si può dire che la vita di entrambi i poeti fu “un vivere per la morte”. Infatti sia Leopardi che Pavese non fecero altro, per tutta la vita, che invocare, chiamare ed evocare la morte e darle grande peso tanto che alla fine entrambi morirono giovani: Pavese si suicidò; anche Leopardi, tutto sommato, morendo solo e malato in una stanza affittata a Napoli, si può dire che fu costretto ad attuare una sorta di eutanasia dolce che somiglia molto a un suicidio.
Ma entrambi i poeti hanno lottato contro le sventure e la sfortuna della vita utilizzando al massimo la loro intelligenza, la loro poesia e cercando di godere e di apprezzare la vita quando era possibile. Infatti la loro produzione poetica e letteraria è un inno alla bellezza della vita e della natura. Entrambi i poeti amarono profondamente la letteratura e la poesia come antidoto alle sfortune della vita che era amara e dolorosa. Infatti una celebre frase di Pavese, del 10 novembre del 1938, dice: “La letteratura è una difesa contro le offese della vita”.
Ovviamente sia Lo Zibaldone di Leopardi che Il Mestiere di Vivere hanno tante riflessioni diverse tra di loro sia per situazioni politiche, per situazioni personali e per differenza di periodo storico.
Ma non c’è dubbio che i due grandi poeti raggiunsero ottimi risultati letterari, poetici, culturali e filosofici.
Io, Biagio Carrubba, estrapolo da “Il Mestiere di Vivere” pensieri, riflessioni e spunti letterari che mi sembrano davvero eccezionali, significativi e belli e che reputo siano quelli che diano un segno particolare, peculiare a tutto il diario dandogli una concretezza letteraria molto importante nel panorama delle letterature italiana.
Alcuni dei grandi temi del diario sono: la riflessione su Dio, il concetto di maturazione e la voglia inconscia al suicidio che portò effettivamente Pavese a realizzarlo nel 1950.
La prima parte del diario è dedicata soprattutto alla poesia e alle poesie che Pavese stava scrivendo per Lavorare stanca che dovette interrompere per il confino in Calabria.
Inizio a riportare dei lacerti, tutti tratti dall’opera “Cesare Pavese – Il mestiere di Vivere – Diario 1935 – 1950 a cura di M.G. e L.N – Einaudi ed.”, seguendo l’ordine cronologico del diario, secondo i temi e gli argomenti che mi piacciono di più e che io reputo tra i più interessanti, belli ed intensi di tutta l’opera.
Riporto parte dell’incipit del diario che riguarda appunto la sua riflessione sulle poesie di Lavorare Stanca.

6 ott. ’35’ Incipit del diario
“Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie. …..”
Pavese si riferisce in questo incipit al fatto che lui si trova a Brancaleone Calabro dove continua a scrivere poesie per Lavorare Stanca ma lo fa con sempre maggiore indifferenza perché ormai non si trova nel suo luogo naturale, cioè Torino, ma in un luogo a lui estraneo dove gli è indifferente vivere anche se non ha perso la sua fertilità e facondia poetica che gli permettono di scrivere poesie in qualsiasi situazione politica e personale e in qualsiasi luogo del mondo si trovi.
Questa facondia poetica accomuna Pavese a Leopardi perché entrambi scrissero poesie in qualsiasi luogo si trovassero e in tutte le condizioni psicologiche che vissero.

Riporto parte di un secondo lacerto che si riferisce alla poesia:
9 ott. ’35’
“Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilità, ma alla novità della scoperta che contiene. Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce”.
Pavese in questo lacerto continua il discorso sulle sue poesie e sulla poetica e spiega che l’importanza della poesia non sta solo nella abilità metrica ma sta soprattutto nel portare fuori un nuovo contenuto. Inoltre la bellezza della poesia non si trova solo nella prontezza dell’ingegno o nell’abilità tecnica ma si trova soprattutto nella realtà nuova portata in luce dalla sua anima.
Condivido questa riflessione sulla poesia e anche queste considerazioni accomunano Pavese a Leopardi perché anche lui scrisse poesie trasformando le riflessioni interiori in espressioni poetiche e dando nuova luce ai contenuti interiori, essendo entrambi abilissimi nella metrica.

Un tema fondamentale di tutto il diario è la visione che aveva Pavese dell’uomo. L’uomo valido, secondo Pavese, è quello che raggiunge una maturità e una responsabilità di sé stesso e che si fa da sé (self – made). Questo è anche il tema centrale di molti romanzi e racconti di Cesare Pavese. La prima configurazione di questo tema Pavese la esprime nella poesia “I mari del sud” del 1930. Ma c’è un lacerto nel diario in cui chiarisce perfettamente il concetto del giovane che si autorealizza facendosi da sé. Riporto un pezzo del lacerto in cui Pavese esprime questo concetto:

10 nov. ’35’
“Se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere duna donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare: i Mari del sud insomma”.

Sempre nel 1935 Pavese scrive la prima riflessione su Dio e tutti i suoi dubbi sull’ipotesi religiosa. L’atteggiamento è critico e di perplessità e lo manterrà per tutta la vita anche se il lacerto che riporto di seguito è interessante e irriverente verso la religione.
Riporto l’intero lacerto in cui Pavese parla di Dio e della sua religiosità:

06 dic. ’35’
“Bestemmiare, per quei tipi all’antica che non sono perfettamente convinti che Dio non esista, ma, pure infischiandosene, se lo sentono ogni tanto tra carne e pelle, è una bella attività. Viene un accesso d’asma e l’uomo comincia a bestemmiare con rabbia e tenacia: con la precisa intenzione di offendere questo Dio eventuale. Pensa che dopotutto, se c’è, ogni bestemmia è un colpo di martello sui chiodi della croce e un dispiacere fatto a colui. Poi Dio si vendicherà – è il suo sistema – farà il diavolo a quattro, manderà altre disgrazie, metterà all’inferno, ma capovolga anche il mondo, nessuno gli toglierà il dispiacere provato, la martellata sofferta. Nessuno! È una bella consolazione. E certo ciò rivela che dopotutto questo Dio non ha pensato a tutto. Pensate: è il padrone assoluto, il tiranno, il tutto; l’uomo è una merda, un nulla, e pure l’uomo ha questa possibilità di farlo irritare e scontentarlo e mandargli a male un attimo della sua beata esistenza.”

Un’altra bella riflessione di Pavese è del febbraio del 1936 quando scrive che cosa non deve fare un poeta, che non deve rigettare ciò che è stato e cioè non deve fare come fanno i serpenti che si spogliano di una pelle per indossarne una nuova e diversa. Ecco il pezzo finale del lacerto del 17 febbraio 1936:

17 feb. ’36’
“Ma soprattutto non fare mai il serpente, non rigettare mai la pelle: poiché, che cosa ha l’uomo di proprio, di vissuto, se non ciò ch’è appunto già vissuto? Ma tenersi in equilibrio, perché che cosa ha l’uomo da vivere, se non appunto ciò che ancora non vive?”

Dopo il rientro a Torino, dopo il confino a Brancaleone Calabro, Pavese continua la scrittura del diario ma continua a perseverare anche nella sua idea fissa sul suicidio. Il primo brano in cui parla di suicidio è quello che riporto di seguito:

10 apr. ’36’
“Soltanto così si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. E’ questo che mi atterrisce: il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità”.
Un altro lacerto famoso del brano è certamente quello in cui descrive il suo stato d’animo che è tragico. Riporto di seguito parte del lacerto:
20 apr. ’36’
“La lezione è questa: costruire in arte e costruire nella vita, bandire il voluttuoso dall’arte come dalla vita, essere tragicamente”.
La prima data importante del 1937 che Pavese annota sul diario è il 4 luglio quando scrive che la sua amica Tina Pizzardo era venuta a cercarlo. Pavese scrive: “IL 4 LUGLIO È RITORNATA TINA”.
Ma dopo questa data ricominciano per Pavese i problemi e lui riannota, in modo freddo e distaccato, il problema che lo torturò per tutta la vita, cioè il suo problema sessuale. Riporto il lacerto in cui Pavese confessa il suo dilemma, per il quale, secondo lui, “vale la pena di uccidersi”. Trovo questo lacerto molto triste, forte e crudo ma allo stesso tempo molto intimo e ammiro il coraggio del poeta di avere manifestato il suo dilemma.
A questo riguardo riporto il giudizio e la diagnosi che ne fa il biografo di Pavese, Lorenzo Mondo, che su questo argomento scrive:
“Allude a quello che, come documentano il diario e le lettere, resterà il doloroso segreto di Pavese. A suo stesso dire, soffrirebbe di ejaculatio praecox, dell’incapacità di soddisfare pienamente una donna”. (tratto dal bel libro “Quell’antico ragazzo – Vita di Cesare Pavese” – Lorenzo Mondo – Ed. BUR – 2008 – pag. 79).

27 sett. ’37’
“La ragione perché le donne sono sempre state “amare come la morte”, sentine di vizi, perfide, Dalile, ecc. è in fondo soltanto questa: l’uomo eiacula sempre – se non è eunuco – con qualunque donna, mentre loro giungono raramente al piacere liberatore e non con tutti e sovente non con l’adorato – proprio perché adorato – e se ci giungono una volta non sognano più l’altro. Per la smania – legittima – di quel piacere sono pronte a commettere qualunque iniquità. Sono costrette a commetterla. È il tragico fondamentale della vita, e quell’uomo che eiacula troppo rapidamente, sarebbe meglio non fosse mai nato. È un difetto per cui vale la pena di uccidersi.”

Ma il diario ha anche pagine in cui Pavese manifesta tutta la sua forza di vivere e il suo amore per la vita. Riporto il lacerto:

23 nov. ’37’
“L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità – si vorrebbe morire…
Chi non sente il perenne ricominciare che vivifica un’esistenza normale e coniugata, è in fondo uno sciocco che, quantunque dica, non sente nemmeno un vero ricominciare in ogni avventura…”

Pavese ribadisce il suo problema sessuale in una pagina di dicembre di cui riporto una parte:

23 dic. ’37’
“Né delusione né gelosia m’avevano mai dato questa vertigine del sangue. Ci voleva l’impotenza, la convinzione che nessuna donna si gode la chiavata con me, che non se la godrà mai (siamo quello che siamo) ed ecco quest’angoscia. Se non altro, posso soffrire senza vergognarmi: le mie pene non sono più d’amore. Ma questo è veramente il dolore che accoppa ogni energia: se non si è uomo, se non si possiede la potenza di quel membro, se si deve passare tra donne senza pretendere, come si può farsi forza e reggere? C’è un suicidio meglio giustificato? A un così tremendo pensiero, è giusto corrisponda quell’inaudito senso di schiacciamento, di vanificamento al petto, ai muscoli e al cuore, – sinora solo un attimo; ma il giorno che durerà di più? che riempirà un’ora o una giornata?
E quella si sente avvilita perché – per divertirsi – fa una cosetta allegra. E mi dice questo dopo il 13 agosto. E non le viene da piangere. E “mi vuole bene”! Porco Dio!”

Alla fine del 1937 comunque Pavese riporta le sole cose che lo appassionano nella vita come spiega in questo lacerto:

31 dic. ’37’
“Due cose t’interessano: la tecnica dell’amore e la tecnica dell’arte. A tutte e due sei giunto con ingenuità e rozzezza non prive di sapore. In tutte e due hai cominciato con eresie: venere solitaria e urlo passionalmente ritmato. In tutte e due hai creato qualche capolavoro. Ma verrà il giorno che scoprirai il tuo 13 ag. anche dell’arte”.

Cesare Pavese
IL MESTIERE DI VIVERE II
1938 – 1950

Io, Biagio Carrubba, continuo a scegliere, in questa seconda parte del diario “Il Mestiere di Vivere” di Cesare Pavese i pensieri più belli e le riflessioni più interessanti che il poeta scrisse nel diario fino alla sua morte avvenuta il 27 agosto del 1950.
(Tutti i brani da me riportati sono tutti tratti dall’opera “Cesare Pavese – Il mestiere di Vivere – Diario 1935 – 1950 a cura di M.G. e L.N – Einaudi ed.”, seguendo l’ordine cronologico del diario)
Continuo a scegliere e a spigolare i temi personali del poeta, i lacerti religiosi e quelli letterari.
Il primo lacerto che ho scelto riguarda la sua profezia nella quale dice che sarebbe rimasto sempre solo per tutta la vita perché non avrebbe mai trovato una donna che lo amasse per davvero. Riporto il lacerto in cui Pavese tratta questo tema:
5 genn. ’38’
“Questo è definitivo: tutto potrai avere dalla vita, meno che una donna che ti chiami il suo uomo. E finora tutta la tua vita era fondata su questa speranza…”.

In questo altro lacerto Pavese ha l’intuizione di distinguere tra la nascita della prosa e la genesi della poesia:
25 febb. ’38’
“Nella pausa di un tumulto passionale – oggi – l’ultimo? rinasce voglia di poesia. Nella lenta atonia di un silenzioso collasso nasce voglia di prosa…”.
In questo scarno lacerto Pavese ritorna alla tediosa ed annosa riflessione sul suicidio:
23 marzo ’38’
“Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi…”.
In questa altra riflessione Pavese ritorna a parlare di Dio e del significato della sofferenza umana. Dato che Dio ha creato la sofferenza tocca agli uomini dare un significato ad essa. Riporto parte del lacerto:
17 sett. ’38’
“…Le prove dell’esistenza di Dio non sono propriamente nell’armonia dell’universo, nell’equilibrio miracoloso del tutto, nei bei colori dei fiori ecc., ma nella disarmonia dell’uomo in mezzo alle cose: nella sua capacità di soffrire. Perché insomma non c’è ragione che l’uomo soffra in questo mondo, se non esiste la responsabilità morale, cioè la capacità – il dovere – di dare alla propria sofferenza un significato”.
Nel 1939 Pavese sviluppa il concetto di simbolo e di letteratura simbolica come spiega il 10 dicembre del 1939. Riporto parte del lacerto:
10 dic. ’39’
“Non più simbolo allegorico, ma simb. immaginoso – un mezzo di più per esprimere la “fantasia” (il racconto). Di qui, il carattere dinamico di questi simboli; epiteti che ricompaiono nel racconto e ne sono persone e s’aggiungono alla piena materialità del discorso; non sostituzioni che spogliano la realtà di ogni sangue e respiro, come il simbolo statico (la Prudenza, donna con tre occhi)”.
Riporto quest’altro lacerto, ancora più famoso, sempre sull’argomento del simbolo in letteratura:
14 dic. ’39’
“Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo”.
In quest’altro lacerto del 1940 Pavese ha una illuminazione intensa sul senso di cosa sia la vita:
09 febb. ’40’
“In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla sua vita”.
Il 26 luglio del 1940 Pavese segna con il nome secco Gognin, che in dialetto piemontese significa musetto, l’incontro con Fernanda Pivano:
26 lugl. ’40’
“Gognin”.
Da questa data nasce un innamoramento del poeta per Fernanda Pivano e per tutto l’anno scrive sul diario riflessioni sull’amore. Una delle più interessanti è riportata nel lacerto del 30 settembre 1940 che riporto:
30 sett. 1940
“La miglior difesa contro un amore è ripetersi, fino al bourrage, che questa passione è una sciocchezza, che non vale la candela, ecc. Ma la tendenza di un amore è proprio di illuderci che si tratti di un grande avvenimento, e la sua bellezza sta proprio nella continua coscienza che qualcosa di straordinario, di inaudito, ci va accadendo”
Sempre sull’argomento dell’amore Pavese scriva un’altra pagina illuminante ed interessante, qualche giorno dopo. Riporto il lacerto:
12 ott. ’40’
“L’amore ha la virtù di denudare non i due amanti l’uno di fronte all’altro, ma ciascuno dei due davanti a sé”.

Pavese dopo avere letto un bellissimo libro di Cesare Luporini fa una bellissima riflessione sull’attimo estatico che io condivido pienamente:
17 sett. ’42’
“Il capitolo Responsabilità e persona in Ces. Luporini…sistema i tuoi pensieri sull’attimo estatico e sull’unità continuata (Simbolo e Naturalità) …La novità di quest’oggi è che l’attimo estatico corrisponda al simbolo, che sarebbe quindi la pura libertà.
Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere fuori del tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato super temporale di questi simboli. Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro.
Qui sei diventato felice!”
Un’altra bellissima intuizione sul senso della vita è questa:
6 nov. ’43’
“È insieme assodato che il senso della tua vita non può essere che la costruzione”.
Nel gennaio del 1944 Pavese si rifugia a Casale Monferrato dove insegna nell’istituto Trevisio dei padri somaschi nascosto nell’istituto per non affrontare la resistenza. In questo anno il poeta è assorbito dal problema religioso e scrive parecchi lacerti, nel diario, sull’argomento. Uno dei primi è quello che riporto di seguito:
1 febbr. ’44’
“Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione… Si arriva ad augurarsi il dolore”.
Un’altra riflessione dello stesso anno si riferisce alla natura della poesia:
2 sett. ’44’
“Poesia è, ora, lo sforzo di afferrare la superstizione – il selvaggio – il nefando – e dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo. Ecco perché l’arte vera è tragica – è uno sforzo.
La poesia partecipa di ogni cosa proibita dalla coscienza – ebrezza, amore-passione, peccato – ma tutto riscatta con la sua esigenza contemplativa cioè conoscitiva”.
All’inizio del 1946, dopo la seconda guerra mondiale, Pavese continua a trovarsi solo per cui ripete questa riflessione sulla sua solitudine esistenziale:
8 febb. ’46’
“Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna e ti fa vivere.”.
Un’altra riflessione che apprezzo molto è del 16 settembre del 1946:
16 sett. ’46’
“C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria”.
Un’altra riflessione riguardante Dio è quella che riporto di seguito in cui Pavese riafferma di non credere in Dio:
21 nov. ’47’
“Sapere che qualcuno ti attende, qualcuno ti può chiedere conto dei tuoi gesti e pensieri, qualcuno ti può seguire con gli occhi e aspettarsi una parola – tutto questo ti pesa, t’impaccia, t’offende.
Ecco perché il credente è sano, anche carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe – non credi in Dio”.
Un’altra riflessione interessante, che condivido, è questa:
19 genn. ’48’
“…Niente va perduto. Il disagio, il disgusto, l’angoscia acquistano ricchezza nel ricordo. La vita è più grande e piena di quanto sappiamo”.
All’inizio del 1949 Pavese scriva una bella riflessione sull’individuo liberato dalla terrestrità. Riporto parte del lacerto:
8 genn. ’49’
“…L’individuo liberato scopre la realtà cosmica – una corrispondenza tra le cose e lo spirito, un gioco di simboli che trasfigurano le cose quotidiane e dànno loro un valore e un significato, altrimenti il mondo sarebbe ischeletrito”.
Nel 1950, l’anno della sua morte, Pavese, preso da tante delusioni amorose e polemiche politiche, ritorna spesso sull’argomento del suicidio come in questo lacerto del 25 marzo:
25 m. ’50’
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
Questa riflessione si riferisce certamente al breve, ma intenso, flirt per l’attrice americana Constance Dowling, per la quale Pavese nutrì un profondo affetto e una breve, ma intensa, infatuazione. All’attrice Pavese dedicò il ciclo di poesie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche Leopardi aveva dedicato un ciclo di poesie, “Il ciclo di Aspasia”, alla bella ed avvenente fiorentina Fanny Targioni Tozzetti.
Dopo la delusione provata per il mancato amore con l’attrice Dowling, che era ripartita per l’America, e per le astiose critiche politiche ricevute, Pavese ritorna nuovamente sull’argomento del suicidio:
27 maggio ’50’
“…Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio”.
Siamo nell’agosto del 1950 quando Pavese decide di suicidarsi e scrive le ultime belle riflessioni che annunciano la decisione presa:
16 ag. ’50’
“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”.
Il giorno dopo scrive, al culmine della sua disperazione e depressione, e conferma il proposito del suicidio:
17 ag. ’50’
“Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”.
Del giorno dopo sono le ultime quattro annotazioni finali che in modo implicito fanno capire la sua decisione del suicidio:
18 ag. ’50’

“Basta un po’ di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

Io, Biagio Carrubba, alla fine della lettura de “Il mestiere di vivere”, diario intenso e drammatico, concludo affermando che Cesare Pavese è stato certamente un grande scrittore, un buon poeta e ha cercato per tutta la vita di allontanare la morte e il suicidio. In fin dei conti Pavese è stato un giovane fragile internamente perché non ricevette mai l’amore di una donna che effettivamente è il solo sentimento che riempie quel vuoto. Allora l’idea del suicidio, che per tutta la vita lo aveva tormentato internamente, ritornò e, accentuata dal caldo afoso di agosto, fu più forte di lui e Pavese non trovò in sé stesso il senso della vita che tanto aveva cercato e non trovò la forza di reagire.
Io, Biagio Carrubba, credo che Pavese, se avesse ricordato il monito e la grande verità di Sant’Agostino che aveva affermato che in interiore homine, “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità), non avrebbe considerato il proposito di suicidarsi continuando la sua vita di brillante scrittore di successo. Invece, Cesare Pavese non si ricordò del monito di Sant’Agostino per cui non trovò la verità in sé stesso ed era sicuro che non l’avrebbe trovata neanche negli altri.
Per cui alla fine credo che, soggiogato dall’idea del suicidio, scoraggiato dal mancato amore di una donna e con un presagio di futuro vago, Pavese mise in atto il suicidio scegliendo di morire da solo in una camera d’albergo affittata a Torino così come il grande poeta Leopardi era morto da solo in una camera di una pensione affittata a Napoli.

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Modica 15/ 09/ 2018                                                                               Prof. Biagio Carrubba.

Ecco l’ultima frase che Pavese scrisse prima di morire sul letto di morte.

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese.

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