
Una sintesi del racconto – testimonianza
“La tregua” di Primo Levi.
Io, B. C., propongo, con voluttà e diletto, una sintesi del bel libro “La tregua” di Primo Levi.
I° Capitolo. Il disgelo.
Nel primo capitolo, Levi racconta e descrive il momento del giorno 27 gennaio 1945, quando Levi e il suo amico Charles, mentre stavano trasportando alla fossa comune il corpo morto di Somogyi, il primo dei morti fra i compagni di camera, scorsero da lontano la prima pattuglia di soldati russi: “Erano quattro giovani soldati a cavallo che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo” (pagina 10). Subito dopo loro due rientrarono nel campo e lo dissero agli altri prigionieri. Levi commenta: “e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato il da dare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadattati alla nostra parte” (pagina 13). La stessa notte un prigioniero politico tedesco si sedette accanto alla sua cuccetta e prese a cantare “L’internazionale”. Tre giorni dopo un giovane prigioniero russo Yankel, lo portò sopra un carretto nel lager centrale di Auschwitz: “Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile” (pagina 17).
II °Capitolo. Il Campo Grande.
Nel secondo capitolo, Levi racconta e descrive il suo ricovero in un ospedale nel Campo Grande di Auschwitz. Qui Levi sentiva le voci di altri prigionieri, e Levi racconta la storia del piccolo Hurbinek: “Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, piena di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnarli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva; era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno sapeva far noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena…..Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza – nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole” (pagine22 – 24). Levi poi accenna ad altre storie di prigionieri: Henek, Kiepura, Noah, due ragazze polacche: Hanca e Jadzia, e di Frau Vita. In ultimo termina con la descrizione di Olga, la quale gli racconta la fine di un’altra prigioniera italiana: “Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie, ma non erano bastate” (pagina 34).
III° Capitolo. Il greco.
Nel terzo capitolo, Levi racconta e descrive il suo incontro con un altro ex-prigioniero del lager. Il suo nome era Mordo Nahum ed era greco. Dopo aver fatto un patto di amicizia tutte e due andarono a Cracovia, dove alloggiarono in una caserma di soldati italiani. L’indomani il greco svegliò Levi e andarono al mercato a vendere una camicia. Nel pomeriggio andarono a mangiare in una mensa di poveri. Qui il greco raccontò a Levi le sue idee sulla vita e sulla morte, sul lavoro e sugli uomini e sulla guerra. Il greco gli disse: “Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto. In primo luogo alle scarpe, in secondo luogo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovare da mangiare, mentre non vale l’inverso” – “Ma la guerra è finita – obiettai: e la pensavo finita, come in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre – rispose memorabilmente Mordo Nahum” (pagina 57). Dopo qualche giorno di viaggio finalmente tutt’e due arrivarono nel campo di raccolta di ex prigionieri a Katowice. Qui i due amici si lasciarono ma Levi incontrò altre due volte Mordo Nahum.
IV° Capitolo. Katowice.
Nel quarto capitolo, Levi racconta e descrive la sua attività di infermiere nel campo di sosta, gestito e diretto da un Kommando russo. In questo campo conosce altri amici: il medico Leonardo, una infermiera Galina, il presunto responsabile degli italiani, il ragioniere Rovi, il Ferrari, un piccolo ladro milanese, ed infine conosce Cesare.
V° Capitolo. Cesare.
Nel quinto capitolo, Levi racconta e descrive Cesare, un commerciate di Roma con il quale ogni tanto andavano insieme a vendere degli oggetti al mercato di Katowice.
VI° Capitolo. Victory Day.
Nel sesto capitolo, Levi racconta e descrive lo spettacolo teatrale che i Russi allestirono per festeggiare la vittoria dell’armata rossa sui nazisti. L’8 maggio i russi si esibirono in un teatro. Vi recitarono quasi tutti i capi del campo: Galina, il dottore, Maria Prima, alcuni cantarono canzoni russe altri ballarono balli tipici russi. “Seguì una singolare imitazione della Titina di Charlie Chaplin, impersonato da una delle floride fanciulle del Kommando, dal seno e dalla groppa esuberanti, ma puntigliosamente fedele al prototipo quanto a bombetta, baffi, scarpacce e bastoncino” (pagina 105). Dopo una partita di calcio, Levi si ammalò di pleurite.
VII° Capitolo. I sognatori.
Nel settimo capitolo, Levi racconta e descrive la fortunata guarigione dalla malattia grazie al suo amico dottore Leonardo e all’opera di guarigione del dottore Gottlieb. Levi poi racconta la storia di alcuni compagni di camera: il moro di Verona, il Trovati, un ladruncolo, il torinese Cravero, il signor Unverdorben, un musicista, e il siciliano D’Agata. Questi compagni di camera avevano in comune la tendenza a raccontare fatti della loro vita trasfigurati dalla loro fantasia e quindi erano storie molto inventate di sana pianta tanto è vero che erano storie più inverosimili che verosimili.
VIII° Capitolo. Verso Sud.
Nell’ottavo capitolo, Levi racconta e descrive il permesso di viaggiare verso Odessa, da dove imbarcarsi per l’Italia. Allora Levi e Cesare vanno a Katowice per compare cose da mangiare e festeggiare l’inizio del viaggio di ritorno. A katowice incontrano una bottegaia che gli racconta la sua storia. Aveva scritto una lettera a Hitler e gli diceva che non doveva fare la guerra: “Perché troppe persone sarebbero morte, e inoltre gli dimostrava che se l’avesse fatta l’avrebbe perduta, perché la Germania non poteva vincere contro tutto il mondo, e anche un bambino l’avrebbe capito. Aveva firmato con nome, cognome e indirizzo: poi si era messa ad aspettare” (pagina 127). Ma il treno si fermò prima perché la ferrovia era interrotta. Si fermarono tre giorni a Zmerinka.
IX° Capitolo. Verso Nord.
Nel nono capitolo, Levi racconta come riprese il viaggio, ma verso il Nord. Dopo due giorni di viaggio arrivarono in un paese. Poi proseguirono verso un campo di smistamento e Levi in aperta campagna ritrovò ancora una volta il suo amico greco: “Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l’approssimativa uniforme sovietica che indossava”. Il greco gli disse se aveva bisogno di una donna poiché egli ne aveva alle sue dipendenze.
X° Capitolo. Una curizetta.
Nel decimo capitolo, Levi descrive e racconta che durante il viaggio a piedi verso il campo di Staryje Doroghi, Levi e i suoi compagni di viaggio si fermarono presso un mucchio di case. Qui Cesare volle a tutti i costi comperare una gallina. Levi dopo un dialogo incomprensibile con gli abitanti del luogo riuscì infine a farsi capire e allora una vecchietta capì che loro due volevano una gallina al cambio di sei piatti. La vecchietta gli portò la gallina e si prese i piatti.
XI° Capitolo. Vecchie strade (Staryje Doroghi).
Nell’undicesimo capitolo, Levi descrive gli scambi commerciali tra russi, contadini, contadine e dei prigionieri che si svolgevano nel campo.
XII° Capitolo. Il bosco e la via.
Nel dodicesimo capitolo, Levi racconta e descrive alla vita che Lui e altri suoi compagni fecero nei due mesi che rimasero nel campo: dal 15 luglio al 15 settembre. Andava spesso nel bosco che circondava il campo. Anche altri si erano trasferito nel bosco, come Cantarella, il Velletrano. Alla fine di agosto passò l’esercito dell’armata rossa che stava rientrando in Unione Sovietica, portandosi a presso molti cavalli, alcuni dei quali furono macellati dal Velletrano.
XIII° Capitolo. Vacanza.
Nel tredicesimo capitolo, Levi racconta e descrive un incontro inaspettato e pieno di emozioni con Flora, una donna ebrea italiana, probabilmente incinta, che Levi, insieme con Alberto, avevano conosciuto nel Lager e da cui avevano ricevuto del pane per cui le era riconoscente. Ma poi aveva scoperto che doveva sottostare a convegni amoroso con uomini stranieri a cui non poteva sottrarsi; tuttavia dopo il disinganno della realtà non smisero di prendere il pane che ora sapeva di sale. Ora Flora stava con un ciabattino bergamasco ed era sempre la stessa, mentre Levi “Si sentiva sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall’attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l’avvenire”. Flora: “era una ragazza piccola e bruna, sui venticinque anni, dall’aria casalinga, sottomessa e trasognata: il suo viso, non molto attraente né molto attraente né molto espressivo, non mi riusciva nuovo, e così pure la sua parlata, dalle gentili inflessioni toscane… Ad Alberto e a me sembrava bellissima, misteriosa, immateriale. Le chiedemmo del pane. Lo chiedevamo un po’ a malincuore, consci di avvilire noi stessi e la qualità di quel delicato contatto umano: ma le forme, con cui è difficile transigere, ci imponeva di non sprecare l’occasione… Flora aveva convegni con altri uomini. Dove e come, e con chi? Nel luogo e nei modi meno adorni: poco lontano, sul fieno, in una conigliera clandestina, organizzata in un sottoscala da una cooperativa di Kapos tedeschi e polacchi. Dopo la squallida scoperta, il pane di Flora ci seppe di sale; ma non per questo smettemmo di accettarlo e mangiarlo… era venuto in infermeria di nascosto, e ora esitava a uscire incontro alla collera del suo padrone” (pagine 196 – 198). Poi arrivò un camioncino cinematografico che proiettò tre film in tre giorni consecutivi. Levi vide i film con piacere e con divertimento.
XIV° Capitolo. Teatro.
Nel quattordicesimo capitolo, Levi descrive e racconta lo spettacolo teatrale che i russi allestirono per gli italiani e alla fine dello spettacolo un ufficiale russo annunciò che il giorno dopo si partiva verso l’Italia. Levi e gli altri nella notte non dormirono: “Accendemmo fuochi nel bosco, e nessuno dormì: passammo il resto della notte cantando e ballando, raccontandoci a vicenda le avventure passate, e ricordando i compagni perduti: poiché non è dato all’uomo di godere gioie incontaminate” (pagina 215). Il mattino seguente arrivò il generale che confermò la partenza definitivo per l’Italia: “Guerra finita, tutti a casa; la scorta era già pronta, i viveri per il viaggio anche, le carte in ordine. Entro pochi giorni il treno ci avrebbe aspettati alla stazione di Staryje Doroghi” (pagina 217).
XV° Capitolo. Da Staryje Doroghi a Iasi.
Nel quindicesimo capitolo, Levi racconta e descrive il 15 settembre il giorno della partenza. Levi pensò: “Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di lager, di pena e di pazienza; dopo l’ondata di morte seguita dalla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Stvyje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’in su, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi, e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri” (pagina 221). Il treno partì e scese di nuovo verso il Sud. Passò da Kazatin dove Levi incontrò e saluto per l’ultima volta Galina l’infermiera di Katowice; fu in saluto affettuoso e delicato pieno di tenerezza e di nostalgia. Arrivarono a Iasi, dove Levi incontrò una comunità di ebrei scampati all’olocausto.
XVI° Capitolo. Da Iasi alla linea.
Nel sedicesimo capitolo, Levi racconta e descrive alcuni episodi del lungo viaggio come la ricerca dell’acqua in pozzi vicino alle stazioni. Una volta Levi rischiò di rimanere a terra. Il treno attraversò la Romania, dove salirono due nuovi giovani viaggiatori: Vincenzo e Pista, poi attraversarono l’Ungheria, e l’Austria. L’8 ottobre arrivarono a Vienna dove sostarono alcuni giorni.
XVII° Capitolo. Il risveglio.
Nel diciassettesimo capitolo, Levi racconta e descrive la fermata alla stazione di Monaco: “Errando per le vie di Monaco piene di macerie, intorno alla stazione dove ancora una volta il nostro terno giaceva incagliato, mi sembrava di aggirarmi fra torme di debitori insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa, e rifiutasse di pagare” (pagina 251). Poi il treno ripartì per Verona: “Di 650, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto, in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi oro ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino” (pagina 253). Levi arrivò a Verona il 17 ottobre: “Il Moro di Verona. Veniva a salutarci, Leonardo e me: era arrivato a casa, primo fra tutti, poiché Avesa, il suo paese, era a pochi chilometri. E ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò due dita enormi e nodose, e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici, augurandoci un buon ritorno e ogni bene. L’augurio ci fu grato, poiché ne avevamo bisogno” (pagina 253). “Giunsi a Torino il 19 ottobre, dopo 35 giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere” (pagina 254). Il finale è memorabile. Levi richiude il cerchio aperto nel 1945 e riporta il sogno del lager e la descrizione del comando dell’alba: “Ora questo sogno interno, il sogno di pace è finito, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac” (pagina 255).
Da questo bel libro è stato trasposto il bellissimo film “La tregua” di Francesco Rosi.
Modica 07 giugno 2019 Prof. Biagio Carrubba
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