Sintesi del percorso filosofico di G. Leopardi attraverso lo Zibaldone e le Operette Morali.

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Sintesi del percorso filosofico di G. Leopardi
attraverso lo Zibaldone e le Operette Morali.

Il pensiero filosofico di Leopardi attraversa due periodi nettamente distinti e quasi opposti. Nel primo periodo Leopardi crede che la Natura sia una madre benigna, mentre nel secondo periodo Leopardi afferma che la Natura è una madre matrigna. La prima fase del pensiero filosofico va dal 1818 al 1823 compreso, mentre la seconda fase va dal 1824 al 1837. Nel 1819 Leopardi attraversa una grave crisi, determinata anche da una malattia agli occhi, che gli impedisce di leggere. Allora intensifica le riflessioni di filosofia, ciò che lui ha definito “conversione filosofica”. Scrive molte pagine nello Zibaldone, nelle quali pensa al suicidio come scrisse a pagina 66: “Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali è formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita e a procurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l’è più grave, e che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d’altre cagioni)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 41). Ma le riflessioni filosofiche più importanti sono quelle riferite al nulla, alle illusioni e alla natura. A pagina 85 dello Zibaldone scrive: “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla. Prima di provare la felicità, o vogliamo un’apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste sono forti e costanti, il tempo loro è veramente felice dell’uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovinezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell’uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo la triste esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati dalla speranza, e l’uomo in comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perché il tempo delle grandi illusioni è finito”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pagg. 46 – 47). E a pagina 99 dello Zibaldone scrive: “Pare un assurdo, e pure esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 51). Nel 1820 lascia definitivamente la poesia di immaginazione e diventa poeta sentimentale o filosofo moderno come scrive a pagina 144 dello Zibaldone: “Così si può ben dire che in rigor di termine, poeti non erano che gli antichi, e non ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 63).
Inizia anche le riflessioni sullo stato di natura e sul cristianesimo, come scrive nella pagina 394: “Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell’uomo, e il suo decadimento dallo stato di primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo. S’io dico che l’uomo fu corrotto dall’abuso di ragione, dal sapere, e dalla società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa originale non sia stata il peccato…”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 121).
Il 1821 è l’anno nel quale Leopardi distrugge filosoficamente il concetto di Dio come scrive a pagina 1341 – 1342: “In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non vi è ragione assoluta perché ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non vi è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o in quel modo ec. E non vi è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili…Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio (18 luglio 1821)” (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 310).
Nel 1823 approfondisce il concetto di natura, di società e il concetto di decadenza da uno stato felice dell’uomo come scrive nelle pagine 2339-2943.
Il 1823 è l’ultimo anno in cui Leopardi crede ancora in una natura positiva e alla vita come scrive nelle bellissime pagine 3813 – 3815 che, per la loro bellezza ed importanza, si possono definire come un inno alla vita: “L’amor della vita, il piacere delle sensazioni vive, dell’aspetto della vita ec. delle quali cose altrove è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, sono termini contraddittorii. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e procurerebbe contro sé stessa. S’ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s’ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785, principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), né amerebbe il suo maggior possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl’individui e nella specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa né fine più naturale, né più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l’esistenza e la vita, la quale è quasi tutt’uno colla stessa natura, né amore più naturale, né naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà né diversi generi di cose esistenti. Quindi ell’è in certo modo la vita o l’esistenza stessa, siccome l’infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perché vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch’è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggiore vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt’uno colla natura, la vita divisa ne’ particolari è tutt’uno co’ rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama sé stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L’essere esistente non può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch’ei possa, in veruno istante dell’esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può odiar sé stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch’ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch’egli possa onninamente amare. Sicché l’uomo, l’animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch’egli ama sé stesso. (31. ott. 1823)” (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 748).
Finisce qui la cosiddetta fase del “Pessimismo storico”.
Il 1824 è l’anno della svolta: la natura ora diviene madre matrigna ed insensibile al dolore degli uomini e la ragione diviene la facoltà di scoprire il vero, come scrive nell’Operetta Morale: “DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO” dove scrive “La vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. I Pag. 526).
Il 1824 è l’anno in cui scrive le “Operette Morali” prose filosofiche nelle quali ormai Leopardi ha una visione chiara e pessimistica della Natura, così descritta bene nel celebre “Dialogo della Natura e di un Islandese”. Proprio nel 1824 Leopardi scrive la prima riflessione sulla natura matrigna e sulla inutilità e dolorosità della vita nella pag. 4043 dove scrive: “La vita è per sé stessa un male… il sentir meno la vita, e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliamo dire la somma minorazione di male e di infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 813 – 814). Un’altra riflessione sulla vita dello stesso anno è a pag. 4074 – 4075 dove scrive: “Dunque la vita è un male, è un dispiacere per sé, poiché la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, perché naturalm. Priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non vi è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere (20 aprile. Martedì di Pasqua 1824”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 823).
Nel 1826 Leopardi accentua ancor di più il suo rancore contro la natura che causa l’infelicità degli uomini, come scrive a pagina 4169 dello Zibaldone: “L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedono, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. – Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perché si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perché si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, né per gl’individui né per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo. 1826)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 852).
Ogni cosa diviene male come scrive a pagina 4174: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male, Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinita vera, per dir così, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?…” Subito dopo nella pag. 4175 così scrive: “Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.” (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 854).
Nel 1827 Leopardi aumenta il suo odio contro la Natura e l’universo come scrive a pagina 4258: “Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo. Non si hanno parole sufficienti a commentarlo. Or che ha egli, perch’ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, qiuanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno male, quante che camminan bene. Dico così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io sono persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v’è di gran lunga più che il bene. Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perché vorremo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch’è almeno altrettanto?
Astenghiamoci dunque dal giudicar, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l’avria saputo far meglio, avendo la materia, l’onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perché tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch’è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti né altrove che nelle parti; poiché la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende né pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili. Quel che ho detto di bontà e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec. (21 marzo. 1827). A veder se sia più il bene o il male dell’universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata. Ognun sa e dice che i belli sono rari, e che raro è il bello”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 882).
Accentua il suo materialismo e il rimpianto di età felice per l’uomo come scrive nella pagina 4289: “Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani. Vedesi appunto da quel tanto d’instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l’uso della ginnastica, l’uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d’ogni età dell’uomo, in ogni parte dell’igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, gli antichi ci sono ancora d’assai superiori: parte, se io non m’inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18 sett. 1827)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 893).
Nel 1828 a Pisa scrive un pensiero che riguarda la poesia e accenna alla sua vecchiaia come scrive a pagina 4302: “Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiaia col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quell’età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che leggere poesie d’altri: (Pisa. 15 apr. 1828) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello che io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da sé compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa 15 feb. Ult. Venerdì di Carnevale. 1828.)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 897).
Nel 1829 rientra a Recanati e aumenta il suo odio contro la natura, ma fa una importante distinzione e chiarificazione della sua filosofia come scrive a pagina 4428: “La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero essere chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in condizioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali dei viventi ec. ec. (Recanati 2 gennaio 1829)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 931).
La natura diventa rea di ogni cosa come scrive a pagina 4485 – 4486: “La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è autore di tale ordine (11 aprile 1829)” (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 948).
Ormai Leopardi è in pieno pessimismo cosmico, che si è tradotto nel bellissimo “CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA”. (Composta tra l’ottobre del 1829 e il 9 aprile 1830). Sono ormai nelle fasi finali dello Zibaldone e Leopardi, nel 1831, ritorna a Firenze dove conosce l’affascinate Fanny Targioni Tozzetti della quale si innamora e per la quale scrive le famose e belle poesie del “Ciclo di Aspasia”. Nel 1832 leopardi scrive l’ultima Operetta Morale con il titolo “DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO”, dove Tristano è il poeta stesso il quale conferma tutta la sua “filosofia dolorosa ma vera”. E dove riconferma ancora una volta il suo pensiero sulla dolorosità della vita e paragona l’umanità ai cornuti i quali pur sapendo che le mogli li tradiscono fanno finta di niente pur di star tranquilli, così l’umanità fa finta di niente di fronte alla brutalità e alla violenza della natura, pur di vivere. Nel finale dell’Operetta Morale il poeta si auspica di morire presto perché ormai si vuole liberare di tutti i mali che lo affliggono e così conclude l’Operetta: “Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un alto la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi e non vorrei tempo a risolvermi”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. I Pag. 606).
Nel 1832, il poeta dedica poche riflessioni allo Zibaldone ma tra queste ne scrive una importantissima nell’ultima pagina, 4525 dove scrive: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla da sperare dopo la morte. Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi. (16 settem. 1832)”. (tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 961).

Finale.

Queste due ultime riflessioni sono molto importanti per diversi motivi: 1) perché completano la stessa riflessione che Leopardi stava scrivendo nell’Operetta morale “DIALOGO DI TRISTANO E DI UN SUO AMICO”, scritta a Firenze nel 1832, quando aveva scritto: “Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare” (tratto da Leopardi – Tutte le poesie e tutte le prose – I Mammut – Newton Editore – Pag. 602); 2) perché nell’Operetta Morale manca la frase “dopo la morte”, presente invece nello Zibaldone dello stesso mese ed importantissima filosoficamente perché conferma l’ateismo e il materialismo di Leopardi.

 

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Modica 08/ 09/ 2018                                                                                     Prof. Biagio Carrubba

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