Una parafrasi del carme “Dei sepolcri” di Ugo Foscolo.

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Una parafrasi del carme
“Dei sepolcri” di Ugo Foscolo.

I
Genesi del carme e vicende editoriali.

Nel 1806 fu annunciata l’estensione del decreto napoleonico di Saint-Cloud anche in Italia, già emanato in Francia nel 1804. La composizione del carme Dei sepolcri avviene tra l’estate e l’autunno del 1806. Grazie a due lettere del Foscolo a Isabella Teotochi Albrizzi, è possibile ricostruire, almeno per congettura la genesi del carme. Sulla spinta del dibattito internazionale esistente in quegli anni intorno alla questione delle sepolture, Pindemonte e la Albrizzi si erano lamentai della eccessiva severità della legislazione francese, accusandola di non tenere conto dell’aspetto umano della morte e delle tombe; Foscolo aveva invece rifiutato la loro posizione per ragioni politiche e filosofiche, cioè per simpatia verso la cultura rivoluzionaria e per convinzione materialistica e laica. Scrivendo i Sepolcri, egli dichiara di ritrattare quell’atteggiamento e di fare proprio quello del suo contraddittore, Pindemonte. La genesi del carme deve moltissimo a quell’incontro e quella discussione e alle successive meditazioni foscoliane. In ogni caso, è molto probabile che l’idea di scrivere i Sepolcri sia nata in Foscolo per suggestione della discussione avuta con Pindemonte e con la Albrizzi, in occasione del loro incontro sl tema delle sepolture. Una certa importanza avrà avuto anche l’estensione all’Italia del decreto emanato a Saint-Cloud il 5 settembre 1806 e pubblicato ad ottobre. Esso regolamentava le pratiche sepolcrali ispirandosi a criteri igienici e di egualitarismo sociale. L’editto vietava la sepoltura nei centri urbani e introduceva un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese, e pertanto non contenere riferimenti nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione delle lapidi era relegata ai margini dei cimiteri. Foscolo, che pur condivideva molti aspetti dei presupposti culturali dai quali nascevano simili provvedimenti, ne rifiutava però l’effetto di omologazione che ricadeva sui morti e sui valori del passato riconoscibili in essi. Foscolo mandò, dunque, i Sepolcri a Monti nel gennaio 1807 e tenne probabilmente conto di alcuni suggerimenti dell’amico; finché ai primi d’aprile la stampa (realizzata dall’editore Bettoni di Brescia) è compiuta e Foscolo può inviare il 7 di quel mese le prime copie Pindemonte, dedicatario del carme.

II

Struttura e contenuto.

La natura filosofico – civile del carme determina la sua rigorosa struttura argomentativa e dimostrativa, benché essa sia fondata perlopiù su accostamenti tematici bruschi anziché su una graduale elaborazione discorsiva. La materia spazia dal mito classico e dalla Grecia dei poemi omerici all’Italia moderna, della quale è esaltata la grande tradizione culturale e derisa la debolezza del presente. I sepolcri sono definiti “carme” nella prima edizione. Con tale definizione Foscolo rilanciava il significato classico del termine, che indicava un genere di poesia impegnata e solenne. I sepolcri sono costituiti da 295 endecasillabi sciolti. Il testo è suddivisibili in quattro parti, secondo il suggerimento offerto dallo stesso autore. La prima parte (vv 1- 90) affronta il tema dell’utilità delle tombe e dei riti funerari. Da un punto di vista materialistico e laico, essi sono inutili, e certamente non riscattano per chi muore la perdita della vita. Ma hanno un senso legato alla dimensione sociale dell’uomo, alla sopravvivenza dell’estinto nella memoria dei vivi. La seconda parte (vv 91 – 150) è dedicata ad una ricognizione delle varie concezioni e dei vari usi che si sono susseguiti, rispetto alla morte, nel corso della civiltà umana. Mentre viene esecrato il modello cattolico e medievale, sono esaltati il modello classico e quello inglese. Nella terza parte (vv 151 – 212) è trattato a fondo il rapporto tra significato privato e significato pubblico della morte e dei riti collegati. Le tombe dei grandi uomini comunicano ai virtuosi il loro esempio e li stimolano a proseguirne l’opera; ne è prova ciò che accadde al poeta stesso visitando Santa Croce, a Firenze, dove sono sepolti molti dei grandi italiani del passato.
Nella quarta parte (vv 213 – 295) oltre ad essere ribadito il valore morale della morte, che compensa le ingiustizie della vita, viene affermata la funzione centrale della poesia, il cui compito è quello di celebrare le virtù e di conservarne nel tempo il ricordo. La poesia ha, dunque, la medesima funzione delle tombe, ma si rivela capace di esercitarla al di là dei limiti di esse. Come esempio di questa concezione Foscolo introduce, nella parte finale del carme, la figura di Omero, che cantando la guerra di Troia ha preservato il ricordo del valore sia dei vincitori che degli sconfitti. Il carme Dei sepolcri è l’opera più compatta e conclusa di Foscolo. Il contenuto e i temi trattati dal carme riguardano la questione della ideologia e della morale laica e materialistica, nata dall’Illuminismo e patrocinata dalla rivoluzione, coni grandi temi tradizionalmente gestiti dalla religione. La questione è quella del senso della morte e del rapporto tra scomparsi e superstiti. Le possibilità erano solo due: negare l’importanza del tema delle tombe e della morte, oppure ridefinire da un punto di vista laica inedito il valore della morte e dei riti che l’hanno storicamente accompagnata fin dalla nascita della civiltà. Si trattava, scelta questa seconda strada, di riscrivere le coordinate di una antropologia laica che prendesse il posto di quella cristiana fino allora dominante. Ed è questa la coraggiosa proposta dei Sepolcri.

III

Pensiero filosofico ed unitarietà di fondo Dei Sepolcri.

Una novità centrale Dei Sepolcri è la finalizzazione filosofica della poesia. Il carme si può considerare un poemetto filosofico, o meglio ancora il carme è una epistola filosofica inviata come risposta al suo amico poeta Ippolito Pindemonte, cui l’autore si rivolge a più riprese nel corso del testo. A essere innovativo nel carme foscoliano non è il tema sepolcrale, largamente dibattuto dalla poesia preromantica; e non è il metro, usato da molti e per esempio da Parini e da Monti. L’innovazione sta in primo luogo nell’intento dimostrativo, nel procedere per argomentazioni ed esempi, cioè per via filosofica, e sta poi nella fortissima carica attualizzante, nel rapporto continuamente stabilito, ora in modo esplicito ora un modo implicito tra passato e presente. I monumenti inutili ai morti giovano ai vivi perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene (vv 1- 40). Solo i malvagi, che si sentono immeritevoli di memoria, non la curano (vv 41-50). A torto, dunque, la legge accomuna la sepoltura dei tristi e dei buoni, degli illustri e degli infami (vv 51-90). Istituzione della sepoltura, nata col patto sociale (91- 96). Religione per gli estinti derivata dalle virtù domestiche (vv 97-100). Mausolei eretti dall’amor della patria agli eroi (101-104). Morbi e superstizioni dei sepolcri promiscui nelle chiese cattoliche (105-114). Usi funebri dei popoli celebri (115-136). Inutilità dei monumenti alle nazioni corrotte e vili (137-150). Le reliquie degli eroi destano a nobili imprese e nobilitano le città che lo raccolgono (151-154). Esortazioni agli italiani di venerare i sepolcri dei loro illustri concittadini; quei monumenti ispireranno l’emulazione agli studi e l’amor di patria, come le tombe di Maratona nutrivano nei greci l’aborrimento ai barberi (155-212). Anche i luoghi ov’erano le tombe dei Grandi, sebbene non vi rimanga vestigio, infiammano le menti dei generosi (213- 225). Quantunque gli uomini di egregia virtù siano perseguitati vivendo, e il tempo distrugga i loro monumenti, la memoria delle virtù e dei monumenti vive immortale negli scrittori e si rianima negl’ingegni che coltivano le muse (226-234). Testimonio il sepolcro di Ilo, scoperto dopo tante età dai viaggiatori che l’amore delle lettere trasse a peregrinare nella Troade (235-240). Sepolcro privilegiato dai fati, perché potesse il corpo d’Elettra, da cui nacquero i Dardanidi, autori dell’origine di Roma e della prosapia dei Cesari signori del mondo (241-253). L’autore chiude con un episodio sopra questo sepolcro (254-295).

IV

Introduzione al carme “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo.

Il carme “Dei Sepolcri” fu composto dal Foscolo tra il giugno e il settembre 1806, e pubblicato nell’aprile del 1807 a Brescia. Nel 1804 era uscito l’editto napoleonico di Saint-Cloud che poi fu esteso all’Italia il 5 settembre 1806. L’editto imponeva che i cadaveri fossero sepolti soltanto nei cimiteri fuori città e che non ci fosse nessuna distinzione tra uomini comuni e persone celebri. Il carme è composto di 295 endecasillabi sciolti ed è dedicato a Ippolito Pindemonte, carissimo amico del Foscolo e poeta lui stesso che aveva scritto poesie ed epistole sui cimiteri inglesi.

V

Parafrasi “Dei Sepolcri “.

Deorum Manium Iura Sancta Sunto.
(I diritti degli dei Mani siano rispettati).
A Ippolito Pindemonte

Il sonno della morte è forse meno duro
all’ombra dei cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto?
Quando il sole non riscalderà più
più per me la bella famiglia
delle piante e degli animali,
e quando l’ore future non danzeranno
davanti a me piene di lusinghe,
e quando non udrò più da te, dolce amico,
la poesia e la mesta armonia che la realizza,
e quando l’ispirazione della poesia
e dell’amore, unica consolazione
alla mia vita vagabonda,
non mi parleranno più al cuore
quale conforto avrò io,
se non una tomba che distingua
le mie ossa dalle infinite altre che
la morte semina in terra e in mare?
Tutto ciò è ben vero o Pindemonte!
Anche la Speranza, ultima Dea,
fugge la morte; l’oblio distrugge
ogni cosa nella notte; e a forza
la Natura continuamente le decompone
con il movimento; e il tempo
trasforma l’uomo, le sue tombe,
le sue forme e le sue ultime sembianze
risparmiate dalla terra e dal cielo. (16 – 22).
Ma perché prima del tempo l’uomo
deve perdere l’illusione che,
dopo la sua morte, non sarà ricordato
più dai suoi cari?
Egli continua a vivere anche sottoterra,
anche quando gli sarà muta
la luce del giorno,
se vive nella mente dei suoi e se costoro
accudiscono e coltivano la tomba del morto?
Questa corrispondenza d’amorosi sensi
tra vivi e morti è Celeste,
dono divino è negli uomini;
e spesso si vive con l’amico morto
e il morto vive con il vivo,
se la pia terra, che lo allevò e lo nutrì,
porgendo l’ultimo asilo
nel suo grembo materno,
renda le sue reliquie inviolabili
dalle intemperie e dai piedi
sconosciti del popolo,
e se una tomba conservi il nome,
e se un mazzo profumato di fiori consoli
le ceneri con le molli ombre. (23 – 40).
Solo i malfattori che non lasciano
buoni affetti non hanno gioia dell’urna;
e se egli guarda dopo la sua morte,
vede il suo spirito errare
o fra i templi acherontei
o rifugiarsi sotto le grandi ali di Dio,
comunque sia lui lascia le sue ceneri
alle ortiche di una terra deserta,
dove non andrà nessuna donna innamorata,
e dove nessun forestiero
non udrà il profumo che dal tumulo
la Natura manda a noi. (41-50).
Nonostante ciò una nuova legge
oggi impone le tombe fuori dalle città,
e vuol togliere il nome ai morti.
(a causa di questa legge) Il tuo poeta, (Giuseppe Parini)
o Talia, non ha una tomba.
Egli, ispirandosi a te nella sua povera casa,
ha scritto un’opera con lungo amore;
e ti dedicava i suoi canti;
e tu gli ispiravi i suoi canti ironici
e sarcastici, che colpivano
il lombardo Sardanapalo al quale soltanto
il muggito dei buoi dell’Adda e
del Ticino è dolce e che lo fanno
beato di ozi e di bevande. (51 -61).
O bella Musa, dove sei tu?
Non sento il tuo profumo,
segno della tua presenza divina,
spirare fra queste piante
dove io siedo e dove io desidero
la mia città natale.
E tu venivi e sorridevi a lui sotto
quel tiglio, il quale ora con foglie
dimesse freme perché non copre la tomba
del poeta e al quale dava calma e ombra.
Forse tu cerchi il luogo, vagando
qua e là tra i cimiteri plebei,
dove sono sepolte le sacre spoglie
del tuo Parini? La città, lasciva
e adoratrice di evirati cantanti,
non pose né cipressi, né una lapide
e né un’epigrafe; e forse il ladro,
che pagò le sue colpe sul patibolo,
gli insanguina le ossa col capo mozzato.
Tu senti la derelitta cagna raspare
fra le macerie e gli sterpi mentre
gira sulle fosse e ulula famelica;
e vedi uscire l’Upupa dal teschio,
dove fuggiva la luna,
e vedi l’immonda lamentarsi
con il suo orribile verso le pie stelle
che mandano la luce alle dimenticate sepolture.
Invano chiedi, o Dea, pioggia all’arida notte.
Ahi! Sui morti non cresce un fiore,
se non è alimentato da preghiere umane
e da pianti amorosi. (62-90).
Da quando le istituzioni civili delle nozze,
dei tribunali e degli altari
diedero agli uomini bestiali la possibilità
di essere pietosi verso sé stessi
e versi gli altri, i vivi tolsero all’aria malvagia
e alle fiere i poveri resti
che la Natura trasforma
perpetuamente in altre forme.
Nella società greca le tombe
erano testimonianza delle gloriose imprese
ed erano altari per i figli;
da esse i responsi dei Lari uscivano,
e il giuramento su di esse fu ritenuto sacro:
tanto che le virtù patrie
e la pietà congiunta tramandarono
e mantennero in vita con diversi riti
questo culto per lunghissimi anni. (91-103).
Le lapidi sepolcrali non sempre
hanno fatto da pavimento nelle chiese;
né il lezzo dei cadaveri, misto all’incenso,
contaminò i preganti;
né le città furono tristi
per gli scheletri effigiati sui muri,
tanto che le madri si risvegliavano
dal sonno esterrefatte
e tendevano le braccia nude
sul bambino affinché il lamento
delle anime morte chiedenti
la piccola preghiera dal santuario
non lo destasse. (104-114).
Ma i cipressi e i cedri,
impregnando i venti di puri profumi,
proiettavano sulle tombe un perenne
verde per memoria perenne,
e preziosi vasi raccoglievano
le lagrime versate.
Gli amici rapivano una fiamma
al Sole affinché illuminasse
la notte dei cimiteri, perché gli occhi
degli uomini morendo cercano il Sole;
e tutti i petti mandano l’ultimo respiro
alla fuggente luce.
Le fontane, versando acque purificatrici,
innaffiavano viole ed amaranti
nella terra cimiteriale;
e chi sedeva sulla tomba
per versare latte e chi per raccontare
le sue pene all’estinto sentiva un profumo
uguale a quello dei giardini Elisi. (114- 129).
Pietosa illusione è questa
che fa gli orti dei cimiteri suburbani
cari alle giovani inglesi
dove l’amore perduto della madre
le conduce e dove i Geni clementi
pregarono il ritorno del Prode
che dopo aver conquistata la nave
troncò l’albero maestro e ne ricavò la bara. (130 -136).
Ma se il desiderio di nobili imprese è spento
e se la ricchezza e la paura governano
il vivere civile, allora ivi sorgono cippi
e mausolei vuoti, allora sorgono, per inutile pompa,
malaugurati cenotafi dell’Orco.
In Italia i dotti i ricchi e i nobili,
decoro e vanto del bel regno italiano,
hanno già sepoltura vivi nei palazzi
ed hanno solo gli stemmi come unica laude. (137 – 145).
La morte mi prepari una tomba sicura,
dove la fortuna cessi di perseguitarmi,
e l’amicizia raccolga non l’eredità di tesori materiali,
ma raccolga nobili passioni
e l’esempio di una poesia libera. (145 – 150).
Le tombe dei grandi uomini spingono
il coraggioso animo a compiere nobili imprese,
o Pindemonte; ed esse fanno la terra
che le accoglie, bella e santa, vista dal forestiero.
Quando io vidi la tomba dove riposa
N. Machiavelli, il quale rafforzando
il potere dei principi, nello stesso tempo
ha svelato alle genti di quante lagrime
e di sangue esso è pieno;
e quando vidi la tomba di Michelangelo Buonarroti
che innalzò a Roma la Cupola
di San Pietro a Dio;
e quando vidi la tomba di G. Galilei,
il quale liberò l’astronomia da tanti errori
e per primo vide ruotare più pianeti
intorno al sole immobile
per cui poi l’inglese Newton
fece altre scoperte; io gridai te,
Firenze, beata, per le acque limpide
che l’Appennino versa a Te dai suoi colli.
La luna, lieta per il tuo cielo,
illumina di una luce limpidissima i tuoi colli,
festanti per la vendemmia,
e le vallate piene di case e di oliveti
mandano mille profumi di fiori al ciel:
e tu per prima, o Firenze, ascoltavi la poesia
che mitigava l’ira a Dante
e tu desti i genitori e la lingua a F. Petrarca,
il quale adornando con un velo candido
l’amore sensuale dei greci e dei romani
lo porse nel grembo della Vergine Celeste.
Ma io gridai te più beata, o Firenze,
perché sistemate in una chiesa,
raccogli le tombe di grandi uomini italiani,
le uniche glorie che sono
rimaste dopo che le mal difese alpi
e la violenza degli stranieri hanno
depredato le armi, le sostanze,
gli altri e ti hanno portato via tutto,
ad eccezione della memoria.
Allorché la speranza della gloria rinasca
negli italiani, noi da queste tombe
trarremo gli auspici (151 – 188)
(per una nuova rinascita italiana).
E V. Alfieri venne presso queste tombe
ad ispirarsi e a calmarsi,
poiché era irato contro i Numi,
e girovagava muto dove l’Arno è più deserto
e guardava insoddisfatto i campi e il cielo;
e poiché nessuna cosa vivente
lo rassicurava l’austero qui si fermava;
e aveva nel volto il colore della morte e della speranza.
Egli riposa eternamente
con questi grandi uomini
e ancora oggi le sue ossa diffondano
amore per la patria (188 – 197).
Da questa pace religiosa delle tombe
un Nume parla, lo stesso Nume
che alimentò l’ira e il valore dei greci
nella battaglia di Maratona,
dove Atene consacrò
ed innalzò tombe ai suoi valorosi guerrieri.
Il navigante, che solcò il mar presso Eubea,
vedeva quella notte scintille d’elmi
e di spade e vedeva le pire bruciare
igneo vapore e vedeva fantasmi
di guerrieri pieni di armi ferree
lampeggianti cercare la guerra;
vedeva un tumulto di soldati
sentiva un suono di trombe
che si espandeva nei campi
e si sostituiva all’orrore dei notturni silenzi
e vedeva un incalzare di cavalli
che posavano scalpitanti sugli elmi dei moribondi
e vedeva il pianto, gli inni e il canto delle Parche. (197 – 212).
O Ippolito, felice te che quando
eri giovane hai girato per il mare!
se il pilota della nave ti portò
oltre le isole Egèe, certamente
hai sentito nelle spiagge dell’Ellespondo
parlare di antichi fatti e hai sentito il risuonare
delle onde uguale a quando
le onde riportarono le armi di Achille
sopra la tomba di Aiace nel promontorio Reteo:
la morte è giusta dispensatrice di glorie
per i generosi; né il senno astuto,
né il favore di re serbò a Ulisse le armi pesanti,
perché le onde agitate dagli Dei infernali
le hanno ritolte alla nave raminga di Ulisse (212 – 225).
Le Muse, animatrici del mortale pensiero umano,
chiamino me, che i tempi fanno
andare fuggitivo di popolo in popolo,
ad evocare gli eroi greci omerici.
Esse siedono custodi delle tombe
e quando il tempo passa con le sue fredde ali
e distrugge ogni cosa fino
nelle sue più lontane rovine
esse fanno lieti i deserti con il loro canto
e l’armonia della poesia vince il silenzio di mille secoli.
E oggi nella Troade deserta un luogo eterno
splende eternamente per i forestieri a motivo di una Ninfa
alla quale andò in sposo Giove
e a Giove diede il figlio Dardano,
da cui nacquero Troia e Assaraco
e poi i cinquanta figli e poi il regno dei Romani.
Ma allorché la parca chiamò lei
dalle vitali arie del giorno
ai cori dei giardini dell’Eliso,
ella mandò un’ultima preghiera a Giove che diceva:
“Se mai i miei capelli, il mio viso
e le veglie amorose ti furono care
e se la volontà del Fato non mi concede
premio migliore, almeno proteggi
dal cielo la mia morte affinché
resti la fama di Elettra tua”.
Così moriva pregando (225 – 250).
E Giove si addolorava di ciò;
e annuendo con il capo faceva cadere
dai capelli ambrosia sulla Ninfa,
e fece sacro quel corpo e la sua tomba.
Erittonio si posò in quel luogo,
e il corpo di Ilo vi riposa;
le donne troiane scioglievano
i capelli e invano pregavano
l’imminente fato ad allontanarsi dai loro mariti;
in questo luogo venne Cassandra,
dopo che il Dio le fece vaticinare
il giorno della distruzione di Troia
e all’anime dei morti cantò un carme dolce
e guidava i nipoti e insegnava ai giovinetti
un lamento amoroso e sospirando così diceva:
“Se mai il Cielo vi concede
il ritorno dalla Grecia dove pascerete
i cavalli a Diomede e ad Ulisse,
invano troverete la vostra Patria!
Le mura di Troia, benché costruite da Febo,
fumeranno sotto il crollo.
Ma gli Dei della Patria avranno posto nelle tombe,
perché è dono degli Dei conservare
alto il loro nome anche nelle miserie.
E voi palme e cipressi,
che piantati dalle nuore di Priamo,
crescerete presto perché innaffiati
dai pianti delle vedove,
proteggete i miei antenati;
e chi pio non colpirà le vostre foglie
non avrà lutti tra i parenti
e con mani pulite potrà toccare l’altare.
Proteggete i miei antenati.
Un giorno vedrete un povero cieco
errare sotto le vostre antichissime ombre
e lo vedrete, brancolando,
penetrare nelle tombe lo vedrete
abbracciare le urne e interrogarle.
Le tombe dapprima gemeranno,
ma poi ogni tomba racconterà
la storia di Troia che due volte
distrutta e due volte risorta
splendidamente sulle nuove strade
per far più bello l’ultimo trofeo ai fatali Pelidi.
Il sacro vate, dopo aver placato
con la poesia i troiani afflitti,
renderà eterni gli eroi greci per tutte le terre
che il gran padre Oceano abbraccia.
E tu, Ettore, avrai onori di pianto
fino a quando il sangue, santo e lagrimato,
sarà versato per la Patria,
e fino a quando il Sole
risplenderà sulle sciagure umane”.

VI

Finale personale

Il carme “Dei Sepolcri” mi fa ricordare un significativo episodio della mia fanciullezza a Scicli; c’è, ancora oggi, a Scicli piazza Busacca e al centro della piazza la statua del signor Busacca (1500 (circa) – 1567), che gli sciclitani hanno eretto in suo onore ed in sua memoria. Egli ha donato i mezzi finanziari per costruire l’attuale ospedale che porta ancora il suo nome “Ospedale Busacca” di Scicli. (Pietro di Lorenzo Busacca, sul finire del 1500, lasciò una rendita enorme alla città, al fine di riscattare i parenti che, dopo la sua morte, fossero caduti in schiavitù per mano dei pirati saraceni in Africa. Alla fine dell’800 l’Opera Pia Busacca aveva un avanzo di gestione così ingente da poter essere investito nella costruzione della fogna, dell’acquedotto, per lo sventramento della via Nazionale e del corso Umberto I, e per la costruzione dell’ospedale Busacca). Quando chiesi, a mio padre, chi era questo signore, lui mi rispose: “Busacca, un benefattore”. Allora io provai un grande sentimento di ringraziamento verso questo signore e forse, inconsciamente, cominciai ad imitarlo. Ed è proprio vero che:” “A egregie cose il forte animo accendono/ l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella/e santa fanno al peregrin la terra/che le ricetta”. Io ora so che sono divenuto magnanimo e generoso d’animo, forse perché ho voluto emulare il signor Busacca e, anche se non sono economicamente un benefattore, se ne avessi le possibilità economiche certo mi farebbe piacere diventarlo perché ritengo che il benefattore rappresenti una delle figure più alte della società, come per altri versi lo sono gli scienziati.

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Modica 24/08/2019                                                                                  Prof. Biagio Carrubba

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