IL MIO GIUDIZIO SUI “CANTI” DI G. LEOPARDI.

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IL MIO GIUDIZIO SUI “CANTI” DI G. LEOPARDI.

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I “Canti”.

I “Canti” è il titolo dell’opera poetica di Leopardi composta da XXXIV poesie o Canti, con l’aggiunta di altri VII frammenti per un totale di XLI componimenti poetici. Leopardi compose i Canti a cominciare dal 1817 e scrisse le ultime due poesie dell’opera nel 1836, l’anno precedente alla sua morte. I “Canti” hanno contenuti assai diversi fra di loro e il loro ordine numerico non corrisponde alla data di composizione. Tutte le poesie si possono suddividere in vari gruppi, diversi per argomento: i primi canti fanno parte delle canzoni civili, poi seguono i due inni, poi la poesia ispirata al suo primo turbamento d’amore, poi i piccoli idilli, poi due poesie singole a sé stanti, poi i “Grandi Idilli”, poi le poesie del “ciclo d’Aspasia”, poi le due sepolcrali, poi la “Palinodia al marchese Gino Capponi” ed infine gli ultimi due capolavori scritti nel 1836 nella villa Ferrigni a Torre del Greco. Seguono i frammenti. Tutti i canti dell’opera sono interessanti, alcuni belli, altri bellissimi, altri capolavori, altri sublimi ed uno universale che è, a detta di quasi tutti i critici, “CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA” (Canto XXIII), che è ricco di bellezza universale perché Leopardi, immedesimato nel pastore errante dell’Asia, si fa portavoce di tutto il lamento e la protesta dell’umanità. La grandezza de I Canti sta nel fatto che il poeta ha saputo innalzare la voce poetica di tutti i diversi, degli handicappati, degli infelici, degli sfortunati della vita, a causa di una natura maligna, matrigna, ingiusta ed indifferente al dolore dei diversi, deformi, dei gobbi e di tutti i miserabili in genere. La bellezza de I Canti sta nel fatto che Leopardi ha saputo cantare il lamento e il dolore di queste persone che non hanno avuto dalla natura la giusta normalità e la giusta felicità. Egli ha saputo cantare e dare voce alla protesta di queste povere e sfortunate persone che non hanno ricevuto niente di positivo dalla vita, ma solamente deficienze, deformità, che li rendono continuamente infelici e soli. Leopardi ha avuto la forza morale, culturale e filosofica di chiedere alla Natura e a chi per essa (Dio) il perché di queste ingiustizie fra gli uomini e lo ha fatto nel miglior modo possibile che un poeta possa fare: attraverso la bellezza sublime, incantevole ed immortale della poesia. Io penso che lui abbia chiamato “Canti” le sue poesie perché quando nel 1831 pubblicò la prima edizione a Firenze, l’ultima poesia che aveva scritto era stata “IL CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA” nel quale si era identificato con il pastore nomade ed ignorante. Il pastore errante, con la sua voce, aveva chiesto alla luna il perché della vita, del dolore, del tempo, della noia, dell’universo e, dato che la luna, (forse) pur conoscendo le risposte, non può parlare, allora Leopardi dà l’unica risposta possibile per un pastore conscio solo del suo dolore e della sua noia: la vita è per lui inspiegabile ed è solamente infelicità e dolore e forse anche per gli altri uomini è la stessa cosa come affermano gli ultimi versi del canto: “O forse erra dal vero/ mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:/ forse in qual forma, in quale/ stato che sia, dentro covile o cuna,/ è funesto a chi nasce il dì natale”. Soltanto nella “Ginestra”, l’ultimo canto, Leopardi ritrova un briciolo di fiducia negli uomini e di coraggio per affrontare la natura matrigna o chi per lei, cioè DIO, che ha creato l’infelicità umana e il peggior mondo ed universo possibile.
Ma, secondo me, Biagio Carrubba, Leopardi, rispetto all’enigma dell’esistenza e dinanzi alle difficoltà della vita, aveva dato la soluzione più realistica che un poeta possa trovare quando, alla fine dell’operetta morale “DIALOGO TRA PLOTINO E PORFIRIO”, aveva scritto: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamo incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora”.
(da Leopardi – Tutte le poesie e tutte le prose – I Mammut vol. II – Newton Editore – Pag. 599)

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Attualità e caducità del pensiero di Leopardi.

Io, Biagio Carruba, condivido pienamente la Weltanschauung di Leopardi perché penso che non ci sia nulla da sperare dopo la morte. Sul piano razionale è possibile che non ci sia nulla da sperare dopo la morte, ma è anche possibile che logicamente sia dimostrabile sia la presenza di un dopo morte che il vuoto totale dopo la morte. Sul piano affettivo e fideistico, invece, credo che si possa sperare nell’esistenza di un Dio che salvi tutta l’umanità dall’orrida morte. Io, Biagio Carruba, penso che sia logicamente possibile e, contemporaneamente, logicamente impossibile scoprire la verità sulla vita e sull’universo; come è logicamente possibile ammettere l’esistenza di Dio è anche logicamente possibile ammettere la non-esistenza di Dio. Anche la natura ha una doppia faccia: una positiva e benigna che dà la vita e una negativa e matrigna che toglie la vita. Io, Biagio Carrubba, penso che, quando cessa il bisogno psicologico di Dio, allora non ci sarà neanche bisogno dell’idea di Dio e finisce così la sua funzione di forza e di idea che gli uomini hanno bisogno nei momenti tristi e dolorosi della vita, come supporto consolatorio e fideistico per superare e vincere la paura della morte. Allora subentra, inevitabilmente, la fiducia nel metodo scientifico e razionale degli uomini. Io, Biagio Carrubba, mi affido soprattutto alla via scientifica e non ho fiducia nemmeno nella via indicata da Blaise Pascal perché la ritengo troppo rischiosa, aleatoria e inconcludente. Ora io, Biagio Carrubba, credo sia logico accettare ambedue le possibilità razionali senza escluderne nessuna delle due. Partendo da questa verità aperta credo dunque che Leopardi abbia ragione quando ne proclama vera una, ma sia in torto quando esclude l’altra. Leopardi afferma che la vera realtà è quella materiale ed esclude quella metafisica; invece io credo che Leopardi sbagli a negare la dimensione spirituale e metafisica. La religione è solo una pia illusione ma è anche una dimensione psicologica positiva e una parziale risposta agli interrogativi eterni e metafisici che in parte soddisfano e calmano il bisogno dell’angoscia che nasce pensando alla morte. Ora, secondo me, Leopardi è nel giusto quando proclama la validità della tesi della materialità della natura, ma sbaglia quando nega l’importanza dell’idea di Dio, perché già l’idea di Dio è una idea positiva che a livello psicologico libera dall’angoscia della morte. Pensare che esista un Dio che libera dalla morte è senza dubbio positivo e fa vivere meglio. Negare in modo deciso Dio non è logicamente corretto, né bello. Leopardi afferma che non bisogna crearsi illusioni, ma io credo che crearsi illusioni faccia bene all’anima e faccia vivere meglio senza quell’ansietà che deriva dall’angoscia del mistero della morte. Dunque l’attualità del pensiero di Leopardi è vera a metà quando ammette solo la possibilità materialistica; il poeta sbaglia quando esclude la possibilità metafisica. Leopardi ha ragione quando dice che la scienza da sola non dà la felicità all’umanità, ma sbaglia quando nega che la scienza non ha nessuna importanza per l’umanità. Io penso invece che la scienza è la sola attività mentale e pratica dell’élite dei cervelli pensanti che possa togliere all’umanità parte del dolore e dell’infelicità che sono connaturati alla vita degli uomini. Leopardi ha ragione quando dice che la natura è matrigna perché uccide i suoi stessi figli, ma ha torto quando dice che la natura è madre crudele perché la natura è anche madre benevola perché ci ha dato anche le menti e i cervelli che un giorno potranno sconfiggere sia la morte che il dolore degli uomini. Leopardi ha ragione quando dice ai moderati liberali cattolici di non farsi troppe illusioni sulla morte, ma sbaglia quando afferma di non credere nel progresso e nella perfettibilità umana. Io credo invece sia nel progresso sia nella perfettibilità umana, come affermavano i filosofi illuministi. Io credo che Leopardi sbagli quando nega il principio del piacere e quando ammette solo il principio della realtà. È stato il grande scienziato Sigmund Freud a stabilire l’importanza dei due principi per la psiche umana; escludere il principio di piacere è un errore logico ed epistemologico. Togliere il principio del piacere è, come dire, negare il piacere della vita stessa. E se togliamo il piacere della vita, allora che cosa resta della vita stessa? Solo l’amaro e le pene! Se alla vita rimanessero solo le pene e i dolori, allora sarebbe meglio non nascere. Ma siccome nasciamo allora bisogna pur vivere bene, e per vivere bene è necessario cercare e soddisfare i piaceri che la natura ha creato per gli uomini. Orbene Leopardi nega il principio del piacere e proprio su questo tema ha basato e costruito la sua filosofia pessimistica e negativa. Io penso che la natura non faccia inganni, anzi essa è là che vuole essere studiata, ammirata, contemplata, conosciuta ma rispettata. Purtroppo l’umanità, con l’inquinamento globale che aumenta a ritmi vertiginosi, non sta rispettando il ciclo vitale e biologico per cui alla fine gli uomini distruggeranno la natura ma, alla fine dell’esistenza umana, sarà la natura ad annientare l’umanità, prima che il sole inghiottirà la Terra e la ingloberà dentro di sé.

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Da che cosa deriva la bellezza della poesia di Giacomo Leopardi?
Ancora oggi vale la pena leggere le sue poesie?

Per dare una risposta a queste domande è necessario analizzare brevemente il linguaggio de “I Canti”. (Un’ottima analisi del linguaggio poetico l’ha fatta Ugo Dotti da pagina 151 a 200 del libro “Giacomo Leopardi Canti” ed. Feltrinelli maggio 2006). Io posso solo aggiungere che il linguaggio poetico leopardiano è molto classico, difficile, molte volte oscuro, con molte parole latine, molti arcaismi, pieno di iperbati, chiasmi, similitudini, metafore, anafore e con molti versi ripresi da altrettanti versi di autori classici italiani e latini. Leopardi utilizzava poi una lexis affascinante ed ammaliante soprattutto nelle belle descrizioni dei paesaggi naturali. Comunque credo che ancora oggi Leopardi sia un poeta per pochi, per studiosi vecchia maniera, che sanno guardare ed apprezzare la bellezza dei classici. Credo che Leopardi sia poco letto dai giovani che guardano avanti e che sono affascinati ed impegnati dalla tecnologia mediatica odierna come internet e la multimedialità. Orbene, come ultima considerazione posso dire che la poesia di Leopardi, che fa parte delle materie artistiche, è di eccezionale valore estetico, filosofico, culturale, e perché suscita molte emozioni che sono sempre benvenute per combattere la malvagità e la bruttezza della vita quotidiana. E proprio su questo punto non posso non riportare un giudizio dello stesso Leopardi che dà l’esatta misura della grandezza di un’opera d’arte e delle poesie: “Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia, e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva. “(tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore Pag. 93).

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Gran finale.

Io, Biagio Carrubba, ora dal raffronto tra la problematica filosofica e poetica di Leopardi e l’epoca postcontemporanea, giudico che l’atto di accusa del poeta contro la natura o Dio, che ha creato le ingiustizie naturali degli uomini e ha creato questo mondo imperfetto, sia ancora valido (e lo sarà sempre). L’atto di accusa di Leopardi sarà valido fino a quando Dio non si deciderà a venire e a dare le giuste risposte all’umanità per rimettere le cose a posto secondo un vero ed eguale metro di giustizia (non come ora: a chi tutto e a chi niente). Io deduco che il genio poetico e filosofico di Leopardi sia allo stesso livello dei più grandi geni attuali perché nessuno di costoro ancora è riuscito a dare le risposte alle domande fondamentali. In questo senso la voce poetica e filosofica di Leopardi esprime ancora oggi i dubbi e le domande che si pone tutta l’umanità, ma alle quali nessuno trova le risposte. Le sue poesie esprimono ancora oggi i suoi giusti sentimenti e risentimenti contro un Dio (che lui chiama natura) invisibile ed introvabile diverso da quello che dovrebbe essere un buon Dio che non avrebbe bisogno di nascondersi o di non farsi trovare. Dunque le poesie di Leopardi esprimono ancora oggi, con una forza tumultuosa ed impetuosa, tutta la sua rabbia, la sua disperazione, la sua tristezza e tutte le sue accuse contro le ingiustizie naturali e contro il mistero dell’universo.

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Modica 08/ 09/ 2018                                                                     Prof. Biagio Carrubba

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