
L’opera poetica “Quaderno di quattro anni”
di Eugenio Montale.
I
Introduzione all’opera poetica “Quaderno di quattro anni” (1973 – 1977).
Si continua
a pensare con teste umane
quando si entra nel disumano
(dalla poesia “Nel Disumano” di “Quaderno di quattro anni” di Eugenio Montale)
“Quaderno di quattro anni”, il sesto libro poetico di Montale, fu pubblicato nel 1977 dalla Casa editrice Mondadori e contiene 111 poesie. Come già “Diario del ’71 e del ’72”, anche questo libro non è diviso in sezioni e le poesie si susseguono l’una dopo l’altra senza un tema predeterminato; ogni poesia dell’opera propone un suo tema slegato dalla poesia precedente e da quella successiva con una forma libera già conosciuta nel libro precedente. Quaderno di quattro anni contiene moltissime poesie di bellezza medio alta tranne una decina che si elevano particolarmente per la loro bellezza e ognuna di queste costituisce un capolavoro a sé stante. La prima poesia dell’opera, che è anche uno dei pochi capolavori, è “L’educazione intellettuale”. Questa è una poesia importante e ad anche bella. Montale ripercorre la sua esperienza poetica e cultuale, partendo dall’opera di Paul Valery “Il cimitero marino”, per arrivare poi ai filosofi Razionalisti e a quelli Irrazionalisti che sono simboleggiati da Nietzsche; il poeta, parlando del filosofo che nella sua pazzia baciò un cavallo, riconferma il suo pessimismo esistenziale ed antropologico e conclude con questi versi sconsolati.
E il principes
dei folli, quello che ha baciato il muso
di un cavallo da stanga e fu da allora l’ospite
di un luminoso buio.
E passò molto tempo.
Tutto era poi mutato. Il mare stesso
s’era fatto peggiore. Ne vedo ora
crudeli assalti al molo, non s’infiocca
più di vele, non è il tetto di nulla,
neppure di sé stesso.
A questo capolavoro Montale fa seguire molte poesie di vari temi e di giudizi personali su vari aspetti della sua vita, sulla natura, su vari personaggi e sulla società in generale fino ad arrivare ad un altro grande capolavoro che è “Vivere”, la poesia nr. 53 dell’opera.
Testo della poesia
Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.
Villiers De L’Isle-Adam.
I
È il tema che mi fu dato
quando mi presentai all’esame
per l’ammissione alla vita.
Folla di prenativi i candidati,
molti per loro fortuna i rimandati.
Scrissi su un foglio d’aria senza penna
e pennino, il pensiero non c’era ancora.
Mi fossi ricordato che Epittèto in catene
era la libertà assoluta l’avrei detto,
se avessi immaginato che la rinunzia
era il fatto più nobile dell’uomo
l’avrei scritto ma il foglio restò bianco.
Il ricordo obiettai, non anticipa, segue.
Si udì dopo un silenzio un parlottio tra i giudici.
Poi uno di essi mi consegnò l’accessit
e disse non ti invidio.
II
Una risposta
da terza elementare. Me ne vergogno.
Vivere non era per Villiers la vita
né l’oltre vita ma la sfera occulta
di un genio che non chiede la fanfara.
Non era in lui disprezzo per il sottobosco.
Lo ignorava, ignorava quasi tutto
e anche sé stesso. Respirava l’aria
dell’Eccelso come io quella pestifera
di qui.
Questa poesia esprime tante sensazioni ed emozioni davvero profonde e personali e presenta anche una ricchezza di idee esistenziali davvero profonde ed originali. Il poeta parte con un flashback e incomincia a raccontare la sua vita dal momento della nascita in un mondo prenatale iperuranio come quello descritto da Platone. Poi parla della filosofia di Epittèto, il quale affermava che anche uno schiavo poteva essere libero interiormente; successivamente cambia punto di vista passando a parlare come un vecchio saggio quando dice che se avesse saputo che la rinunzia alla vita era un fatto nobile lo avrebbe scritto ma non lo fece; invece il poeta obietta che il ricordo della vita la segue e non l’anticipa. Poi parla dei giudici che lo promuovono ugualmente e uno di questi gli consegna l’accessit alla vita. Poi riprende l’epigrafe e fa parlare Villiers secondo il quale “vivere non è né la vita né l’oltre vita ma la sfera occulta di un genio che non chiede la fanfara”. Villiers afferma di non conoscere gli altri e di ignora anche sé stesso. Infine Montale, che era scomparso dietro Villiers, rientra e dà il suo giudizio sulla vita dicendo che Villiers: “Respirava l’aria/dell’Eccelso, come io quella pestifera/di qui”. Secondo me, Biagio Carrubba, la conclusione della poesia è il suo messaggio: la sola vita degna di essere vissuta è quella dell’Eccelso, l’altra vita, quella giornaliera e banale degli uomini comuni (i domestici), non è degna di essere vissuta. Si capisce così l’importanza dell’epigrafe “Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici”, come dire la vita, con la V maiuscola, è sola quella dell’Eccelso, l’altra, quella umana, giornaliera, la vivano per noi i nostri domestici, qui identificati, come gli uomini schiavi della vita, come esseri inferiori, ma non viventi. Montale espone il suo punto di vista sulla vita ed esprime anche il suo disprezzo per una vita banale ed inferiore. Penso che la bellezza della poesia stia nella varietà dei contenuti e delle immagini e nella bellezza delle espressioni. La poesia sembra una prosa ma invece è una bella poesia perché il ritmo e l’originalità delle espressioni sono talmente nuove e personali che sconvolgono il lettore facendolo spaziare da un tono surrealistico a un tono tragico, da un tono ironico a uno sarcastico. Anch’io condivido la tesi di Montale che la sola vita degna di essere vissuta è quella dell’Eccelso, mentre, l’altra vita, quella epifanica, maledetta, banale, anonima, priva di felicità non vale la pena di essere vissuta e anch’io, se avessi dei domestici, farei vivere la mia vita a loro! Scorrendo l’opera troviamo un altro capolavoro poetico: “Sul lago d’Orta”, la poesia nr. 56. Montale, in questa poesia, dopo aver descritto alcune immagini di una villa abbandonata, prova una strana angoscia e vede che su un terreno sabbioso, dove tutto è silenzio, vi sono dei Salici che piangono davvero. E poi si chiede: “Se il bandolo del puzzle più tormentoso/fosse più che un’ubbia/sarebbe strano trovarlo dove neppure un’anguilla tenta di sopravvivere”; la poesia termina con una battuta finale, consueta in molte poesie montaliane, “molti anni fa c’era qui/una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode/ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi/da essere custoditi”. Il messaggio della poesia è evidente: la vita è sorta in un luogo dove non poteva nascere, dove nemmeno un’anguilla, tenta di sopravvivere e dove i Salici piangono davvero. Non c’è bisogno di sbrogliare nessun bandolo perché tutto rimarrà oscuro ed incomprensibile agli uomini. La poesia descrive una villa in decadenza, abbandonata a sé stessa, dove non abita più nessuno. L’aria della decadenza è descritta dall’intermezzo che “ristagna” indeciso tra la vita e la morte e dai salici che piangono sul serio. La villa disabitata, priva di custode, prima abitata da una famiglia inglese o da angeli come afferma scherzosamente Montale in una nota, genera desolazione e angoscia nel poeta. Questo clima surrealistico e decadente dalla poesia confonde e porta smarrimento nel lettore preso tra ironia e sarcasmo, tra incredulità e surrealismo. Il senso di rassegnazione alla vita che il poeta viveva in quegli anni viene riflesso nella poesia dove emerge un gran senso di solitudine e di desolazione. Io credo che questa rassegnazione e desolazione che si respira nella poesia e che era in sintonia con la rassegnazione di Montale, ormai nella fase decadente della sua vita, sia uno dei temi dominanti e il tono emotivo prevalente dell’intera opera Quaderno di quattro anni. Dal punto di vista della forma e della poetica, la poesia è aperta, senza inizio e senza fine, incerta, fluente, senza tempo, per cui si potrebbe benissimo definire una poesia “post moderna”. Quindi la bellezza della poesia sta tutta nella sapiente costruzione dell’aria decadente che gira attorno alla villa, attorno al lago d’Orta, attorno alla vita degli uomini e alla riservatezza di Montale.
Segue un’altra poesia molto bella “In negativo”, la poesia nr. 63.
Testo della poesia
È strano.
Sono stati sparati colpi a raffica
su di noi e il ventaglio non mi ha colpito.
Tuttavia avrò presto il benservito
forse in carta da bollo da presentare
chissà a quale burocrate; ed è probabile
che non occorra altro. Il peggio è già passato.
Ora sono superflui i documenti, ora
è superfluo anche il meglio. Non c’è stato
nulla, assolutamente nulla dietro di noi,
e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla.
Montale mostra in questa poesia tutto il suo pessimismo che si avvicina molto a quello leopardiano, quando quest’ultimo parlava del “solido nulla”. È la vittoria del nichilismo: tutti gli uomini sanno che la vita è nulla e che non ci sarà altro che il nulla. Montale dice, però, che, tutti gli uomini, compreso lui, amano, quel nulla, anche se disperatamente, perché l’amore per la vita è il bene massimo e il piacere unico che resta fino alla fine ad ogni uomo. Quest’amore per la vita è disperato perché è pieno di dolore e di sofferenze, ma è l’unico amore che abbiamo per quel “nulla disperatamente amato”. Alla fine della poesia risulta che la vita è tanto amata e tanto odiata, perché è innegabile che amiamo una cosa che sappiamo essere nulla, che diventerà nulla, qualcosa che non esiste, ma che per un breve attimo amiamo e abbiamo amato. La vita, non è altro, dunque, secondo Montale, un conquistarsi il biglietto da presentare a un burocrate qualunque per ricevere un salvacondotto per una altra vita di cui non si conosce niente. Dal punto di vista della forma e della poetica, la poesia “In negativo”, segue ormai l’andamento dell’ultima produzione montaliana: infatti la forma è una sintesi tra epigramma e riflessione metafisica. Il tono emotivo esprime un sentimento tra l’ironico, il sarcastico, la farsa e il faceto. Il linguaggio poetico “apparentemente tende alla prosa e nello stesso tempo la rifiuta”. Insomma, un miscuglio di reale e di surrealistico, di tono sarcastico e di riflessione esistenziale che nel complesso dà un risultato eccezionale, perché la poesia è molto bella e si pone, in forma armonica ed ermetica, tra poesia poli simbolica, enigmatica, neorealistica, personale, polisemantica e in definitiva post-moderna. Dopo poche altre poesie nell’opera troviamo un altro capolavoro poetico: “Ai tuoi piedi”, la poesia nr. 68.
Testo della poesia.
Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi
o forse è un’illusione perché non si vede
nulla di te
ed ho chiesto perdono per i miei peccati
attendendo il verdetto con scarsa fiducia
e debole speranza non sapendo
che senso hanno quassù il prima e il poi
il presente il passato l’avvenire
e il fatto che io sia venuto al mondo
senza essere consultato.
Poi penserò alla vita di quaggiù
non sub specie aeternitatis,
non risalendo all’infanzia
e agli ingloriosi fatti che l’hanno illustrata
per poi accedere a un dopo
di cui sarò all’anteporta.
Attendendo il verdetto
che sarà lungo o breve grato o ingrato
ma sempre temporale e qui comincia
l’imbroglio perché nulla di buono
è mai pensabile nel tempo,
ricorderò gli oggetti che ho lasciati
al loro posto, un posto tanto studiato,
agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio
di giornale, alle tre o quattro medaglie
di cui sarò derubato e forse anche
alle fotografie di qualche mia musa
che mai seppe di esserlo,
rifarò il censimento di quel nulla
che fu vivente perché fu tangibile
e mi dirò se non fossero
queste solo e non altro la mia consistenza
e non questo corpo ormai incorporeo
che sta in attesa e quasi si addormenta.
Questa stupenda poesia su Dio è tutta costruita su un equilibrio di sfumature ironiche e sarcastiche, su attese metafisiche e ritorni sulla terra e presenta un tono emotivo vario: si passa dalla delusione all’illusione, dalla scarsa fiducia in Dio all’attesa di un verdetto che non avrà molto importanza dato che sarà soggetto alle leggi del tempo e queste sono sempre imperfette; il poeta passa dal chiedersi su quale è il senso dell’aldilà al senso di una vita trascorsa senza essere consultato prima di venire al mondo. Nell’attesa di questo verdetto, il poeta ripensa alla sua vita di quaggiù che gli sembra poca cosa e si chiede se tutta la sua vita sia consistita nelle sue poche cose o se la sua consistenza non sia stata altro che il suo corpo, ormai diventato incorporeo, che in attesa dell’ultimo verdetto, quasi si addormenta, come succede ai vecchi, stanchi dell’attesa e deboli di mente. Il finale solito, tra ironia e sarcasmo, esprime tutta la delusione di un mondo Divino da cui provengono verdetti grati o ingrati ed esprime anche la delusione della condizione umana costituita essenzialmente, e precariamente, da un corpo che diventa evanescente e anche debole e che si addormenta come fanno i bambini quando sono stanchi sulle braccia delle madri. Sul piano della forma, la poesia ripresenta la forma tra prosa e poesia come già lo stesso Montale aveva definito la poesia moderna: il linguaggio poetico “apparentemente tende alla prosa e nello stesso tempo la rifiuta”. Il risultato della poesia è sempre molto elevato e pur parlando con linguaggio familiare, questa risulta sospesa, tra la fisica e la metafisica, tra il vecchio e il nuovo, tra la vita e la morte. Montale comunque esprime tutto il suo stupore e meraviglia perché inginocchiandosi davanti a Dio non lo vede; prova, quindi, una grande delusione e giudica Dio una illusione perché non si vede nulla di Lui. Io, Biagio Carrubba, amo molto questa poesia, perché anche io vorrei inginocchiarmi davanti a Dio, parlare con Lui, aspettare il mio verdetto, chiedergli il perché di tanta infelicità su questa terra e sapere che senso ha, come si chiede Montale nella poesia, che io sia venuto al mondo senza essere consultato. Andando avanti nella lettura dell’opera troviamo una breve ed epigrammatica poesia: “Nel disumano”, la poesia nr. 72, dedicata alla moglie, in cui è evidente tutta l’incredulità e la limitatezza umana di fronte alla morte. Ecco i versi finali: “Forse partendo in fretta hai creduto/che chi si muove in fretta trova il posto migliore. /Ma quale posto e dove? Si continua/a pensare con teste umane quando si entra/nel disumano”. La poesia esprime che il logos razionale degli uomini non è sufficiente a capire ciò che è la morte, e quindi gli uomini non possono fare altro che pensare con la mente finita e limitata alle sue capacità mentali, quando entrano in un mondo totalmente sconosciuto, differente e indifferente al nostro. Dunque è inutile corrugarsi la fronte per capire il dopo vita, quello che sarà. E qui per disumano potrebbe intendersi: o un posto infernale, o l’Ade, il giardino divino, degli antichi greci, o il profondo nulla o il Paradiso Cristiano. Poche poesie dopo, si legge “Quel che resta (se resta)”, la poesia nr. 76, nella quale Montale riafferma la sua legge etica ed antropologica (già scritta nel famoso articolo Soliloquio): “la vecchia serva analfabeta e barbuta…della vita non sapendone nulla ne sapeva più di noi, /nella vita quello che si acquista/da una parte si perde dall’altra”. Successivamente troviamo la poesia nr. 80, “Le prove generali”, dove Montale mischia salvezza eterna e sprofondamento nel nulla: “Le provi generali sono la parodia/dell’intero spettacolo se mai dovremo/ vederne alcuno prima di sparire/nel più profondo nulla”. Il lettore, dopo avere letto questi versi, non capisce se Montale, tenga di più per l’ipotesi della salvezza eterna per mano di Dio o se auspica il profondo nulla. Secondo me, la verità non la conosce neppure Montale, e il poeta si limita soltanto ad elencare alcune risposte umane della gente comune: la via religiosa, la via atea, la via agnostica, la via scettica, la via meccanicistica, la via spirituale senza preferirne una. Subito dopo arriva “Fine di settembre”, la poesia nr. 86, in cui il poeta si scaglia contro i vacanzieri e la vita quotidiana che lui considera banale, e quasi disprezza, in nome di un passato che non c’è più. Montale se la prende con il passare inesorabile del tempo che scorre “con un’orrenda indifferenza a volte/un po’ beffarda come ora il canto/del rigogolo il solo dei piumati/che sa farsi ascoltare in giorni come questi”. Dopo poche poesie troviamo “Al mare (o quasi)”, la poesia nr. 91. In questa poesia Montale si scaglia contro il malessere e l’inquinamento del tempo e identifica il male di quel periodo nella precarietà dei valori della società italiana. Montale conclude: “Hic manebimus se vi piace non proprio/ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile/alla morte (e questa piace solo ai giovani)”. La morte piace ai giovani perché non la temono, in quanto la vedono lontana, mentre i vecchi la temono perché la vedono vicina.
Dopo altre poesie, si arriva a “Dormiveglia”, la poesia nr. 102, nella quale Montale, ancora una volta, esprime tutto il suo scetticismo sulla vita della realtà e il suo disprezzo per questa società costituita da gente di qualunque tipo.
Testo della poesia.
Il sonno tarda a venire
poi mi raggiungerà senza preavviso.
Fuori deve accadere qualche cosa
per dimostrarmi che il mondo esiste e che
i sedicenti vivi non sono ancora tutti morti.
Gli acculturati i poeti i pazzi
le macchine gli affari le opinioni
quale nauseabonda olla podrida!
E io lì dentro incrostato fino ai capelli!
Stavolta la pietà vince sul riso.
Nella penultima poesia, “I Miraggi”, poesia nr. 110, Montale esprime ancora una volta la sua incapacità a capire la vita. Ecco i versi finali.
Ma ora
se mi rileggo penso che solo l’inidentità
regge il mondo, lo crea e lo distrugge
per poi rifarlo sempre più spettrale
e in conoscibile. Resta lo spiraglio
del quasi fotografico pittore ad ammonirci
che se qualcosa fu non c’è distanza
tra il millennio e l’istante, tra chi apparve
e non apparve, tra che visse e chi
non giunse al fuoco del suo cannocchiale. È poco
e forse è tutto.
Segue l’ultima poesia, “Morgana”, la poesia nr. 111, nella quale Montale confonde sacro e profano, fede e ragione, fantasia e realtà, racconto e storia, presente e passato. Ecco i versi finali.
Hanno detto hanno scritto che ci mancò la fede.
Forse ne abbiamo avuto un surrogato.
La fede è un’altra. Così fu detto ma
non è detto che il detto sia sicuro.
Forse sarebbe bastata quella della Catastrofe, ma
non per te che uscivi per ritornarvi
dal grembo degli Dèi.
Aspetti estetici di Quaderno di quattro anni.
“Quaderno di quattro anni” presenta la forma, già nota, dell’ultimo Montale e ripresenta i temi precedentemente trattati dal poeta sulla vita e sulla morte, sul tempo e sulla memoria e sui ricordi personali. Malgrado si tratti di temi già trattati, il libro contiene poesie singole che hanno una bellezza poetica incomparabile e che esprimono un senso inquietante sulla vita, come: “Vivere”, “Sul lago d’Orta”, “Ai tuoi piedi”, “In negativo”, “Fine di settembre”, “Dormiveglia”, “I Miraggi” e “Morgana”. Montale non è un poeta dell’amore, né dell’amicizia, né dà certezze ai lettori, ma esprime tutta la sua incertezza, i suoi dubbi sulla vita e sulla morte e dimostra che tutto è dubbio, aleatorio, evanescente, irreale, inquietante, così come la vita è vissuta. Per tutti questi motivi e temi, Montale si può definire già un poeta post-moderno.
Gli aspetti estetici più importanti dell’opera sono.
1) La varietà degli argomenti.
2) La sottile ironia e il sarcasmo che prevalgono anche su temi oscuri e dolorosi.
3) Il mischiare toni scherzosi a toni dolorosi.
4) La visione della vita che oscilla tra il sublime e l’immondo/con qualche propensione per il secondo.
5) La divisione della vita tra eccelsa e domestica e la propensione a dire che la vera vita è quella dell’eccelso, mentre quaggiù si respira quella pestifera che non vale la pena di vivere.
6) Il definire la storia dell’umanità come l’immane farsa umana/ (non mancheranno ragioni per occuparsi/del suo risvolto tragico).
Modica 14 maggio 2019 Prof. Biagio Carrubba
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