Le coincidenze parallele tra Salvatore Quasimodo e Nazim Hikmet
Ho scelto queste tre poesie di Salvatore Quasimodo e di Nazim Hikmet perché trovo che entrambi i poeti, nella loro autobiografia, abbiano degli elementi in comune ed in particolare il fatto che negli ultimi 5 anni della loro vita hanno conosciuto il loro terzo grande amore. Entrambi i poeti furono coevi e vissero quasi contemporaneamente le stesse esperienze storica. Infatti Quasimodo nacque nel 1901 e Hikmet nel 1902; Quasimodo morì nel giugno del 1968 e Hikmet nel giugno del 1963. Entrambi i poeti furono ospitati e stimati dall’URSS; Quasimodo nel 1958-1959 e Hikmet dal 1952 al 1963. Ma la cosa sorprendente e comune tra i due poeti è certamente la coincidenza che entrambi vissero la loro terza storia di amore negli ultimi 5 anni della loro vita; Quasimodo, dopo la storia di amore con Bice Donetti e Maria Cumani, nel 1963 si innamorò perdutamente di Curzia Ferrari e questa storia durò dal 1963 fino alla morte del poeta. Nazim Hikmet nel 1959 conobbe il suo terzo grande amore, Vera Tuljacova che amò perdutamente fino al 1963, anno della sua morte. Sia Curzia Ferrari che Vera Tuljacova erano entrambe più giovani di 30 anni rispetto ai poeti ed erano entrambe giornaliste e scrittrici ed entrambe ricambiarono l’amore dei poeti nei loro confronti. Tutti e due i poeti amarono, appassionatamente, le due bellissime ed intelligenti donne e a loro dedicarono delle bellissime poesie. Un’altra coincidenza fra i due poeti è l’amore sofferto perché entrambi erano costretti a stare lontano dalle loro donne, sia per motivi di lavoro che per cultura, e quindi nelle loro poesie emerge, soprattutto, la rassegnazione e il dolore per la lontananza dalle loro giovani donne. Un’altra incredibile coincidenza è che i due poeti hanno scritto un verso quasi uguale riferito alla morte; Quasimodo nella poesia “Varvara Alexandrovna” del 1960 nei versi 10-11 scrive “Non ho paura della morte/come non ho avuto timore della vita”; negli stessi anni Nazim Hikmet nella poesia “Mia rosa, pupilla dei miei occhi” scrive “Mia rosa, pupilla dei miei occhi/non ho paura di morire/ma morire mi secca/è una questione d’amor proprio”. L’ultima coincidenza parallela tra i due poeti è certamente la loro morte improvvisa e fulminea con una agonia di poche ore. Infatti Nazim Hikmet fu colpito da un infarto il 03 giugno 1963 e morì nel giro di poche ore sullo stipite di casa sua; anche Quasimodo morì improvvisamente, nell’arco di poche ore, a Napoli, il 14 giugno del 1968 dopo essere stato colpito, di mattina alle 10, da un ictus ad Amalfi. La lontananza e l’ansia di volere tornare dalle amate è quindi un elemento in comune che viene fuori nelle poesie di questi anni ed entrambi i poeti espressero il loro rammarico e la loro malinconia non solo nelle loro poesie ma anche nelle lettere che inviavano alle loro donne. Il carteggio tra Salvatore Quasimodo e Curzia Ferrari è pubblicato nel libro “Senza di te, la morte – Lettere a Curzia Ferrari (1963 – 1968)” (Archinto Editore – 2001). Questo libro contiene le lettere scritte da Quasimodo a Curzia, illustrano e fanno capire, molto bene, l’ansia, la passione e il desiderio del poeta per la sua giovane donna innamorata. Inoltre le lettere del poeta chiariscono ed illuminano le contemporanee tre poesie dell’ultimo libro poetico “Dare e Avere” pubblicato nel 1966. Le tre poesie d’amore di Quasimodo dedicate ed ispirate da Curzia Ferrari sono “Il silenzio non m’inganna”; “Balestrieri toscani”, “Poesia d’amore”.
Secondo me, Biagio Carrubba, queste tre poesie hanno elementi in comune con tre poesie di Hikmet e per questo si possono confrontare e paragonare.
Testo della poesia “Il silenzio non m’inganna”
Distorto il battito
della campana di San Simpliciano
si raccoglie sui vetri della mia finestra.
Il suono non ha eco, prende un cerchio
trasparente, mi ricorda il mio nome.
Scrivo parole e analogie, tento
di tracciare un rapporto possibile
tra vita e morte. Il presente è fuori di me
e non potrà contenermi che in parte.
Il silenzio non m’inganna, la formula
è astratta. Ciò che deve venire è qui,
e se non fosse per te, amore,
il futuro avrebbe già quell’eco
che non voglio ascoltare e che vibra
sicuro come un insetto della terra.
Testo della poesia “Balestrieri toscani”
Vestiti di broccati, vivaci i balestrieri
nella piazza della città toscana,
senza tamburi vittoriosi,
tentano la sorte di colpire un centro
con una freccia medievale. I ragazzi
tendono con forza la corda della balestra
e lanciano le armi con ansia di amanti.
Rapidi ripetono il sortilegio.
Ero con te, amore, i colpi
sul bersaglio, nello stacco
della luce meridiana, la noia
dell’attesa per quei servi dell’antica
guerra, ci dissero che l’uomo non muore,
è un soldato d’amore della vittoria continua.
Testo della poesia “Poesia d’amore”
Il vento vacilla esaltato e porta
foglie sugli alberi del Parco,
l’erba è già intorno
alle mura del Castello, i barconi
di sabbia filano sul Naviglio Grande.
Irritante, scardinato, è un giorno
che torna dal gelo come un altro,
procede, vuole. Ma ci sei tu e non hai limiti:
violenta allora l’immobile morte
e prepara il nostro letto di vivi.
Le tre poesie d’amore di Hikmet dedicate ed ispirate da Vera Tuljakova sono “Nelle mie braccia tutta nuda”, “Sei la mia ebbrezza”, “Foglie morte”.
Testo della poesia “Nelle mie braccia tutta nuda”.
Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli
si riflettono sul mio viso.
Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell’ansito?
È tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte forte?
Dove finisce la notte
dove comincia la città?
Dove finisce la città dove cominci tu?
Dove comincio e finisco io stesso?
Testo della poesia “Sei la mia ebbrezza”
Sei la mia ebbrezza
la mia ebbrezza non è passata
non posso farmela passare
non voglio farmela passare
la mia testa pesante
i miei ginocchi scorticati
i miei stracci inzaccherati
vado verso la luce che brilla e che si spegne
titubando cadendo rialzandomi.
Testo della poesia “Foglie morte” (Lipsia, settembre 1961)
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno
una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d’accordo
con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d’ippocastani.
Queste sei poesie hanno in comune, oltre al tormento e all’angoscia di sentirsi e vivere lontano dalle amate e l’ansia e la voglia di ritornare subito da loro, anche, la tesi principale che è l’amore vissuto quotidianamente che rende la vita piena e preserva dalle angosce e dalla depressione del futuro come dice la prima poesia di Quasimodo: Ciò che deve venire è qui, /e se non fosse per te, amore, /il futuro avrebbe già quell’eco / che non voglio ascoltare e che vibra /sicuro come un insetto della terra. Anche io, Biagio Carrubba, condivido questa tesi dei due autori perché veramente l’amore vissuto quotidianamente accanto alla donna amata rende ogni giorno la vita forte, bella, piena e gioiosa e, allo stesso tempo, tiene lontane la solitudine, l’angoscia, la depressione e la morte. Infine Quasimodo nel 1967 dedicò altre due poesie a Curzia Ferrari che rimasero inedite ma che sono altrettanto belle e nelle quali il poeta esprime tutta la sua consapevolezza: che la sua vita, ormai, volgeva al termine e che questi anni erano gli ultimi spiccioli della sua vita e che bisognava sfruttare e godersi, fino in fondo, l’amore, l’affetto, il sesso e l’amicizia di Curzia Ferrari.
Ecco il testo delle due poesie:
A Curzia,
Salvatore
Testo della prima poesia. Mi chiedi parole. Ma il tempo.
Mi chiedi parole. Ma il tempo
precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe
da offrire se non quelle silenziose
del sangue legate al tuo nome,
o mia vita, mio amore senza fine
Testo della seconda poesia. Che breve notte.
Che breve notte, amore. Un raggio
di luce è già sulla tua fronte,
nei tuoi capelli di madonna bizantina:
e dai carrozzoni lungo il fiume
assale antiche radici
la voce dei giovani nomadi, funamboli
di gramo pane e di parole murate nello sdegno.
Riconosco il fanciullo che sul Bosforo di Sicilia
gettava la sua solitudine di isolano
isolato. Ma tu ti svegli, bellissima.
Bruna e bruciante mi svegli
a nuova vertigine: scavato d’ansia e di sangue
mi trascini nel buio, senza memoria.
Qui vivo forse la mia ultima vita.
Infine riporto il bellissimo elogio funebre che Salvatore Quasimodo scrisse quando seppe della morte improvvisa di Nazim Hikmet.
“E quanto vivrò ancora / e quanto vedrò ancora / chi sa.”
Sono gli ultimi versi della lirica Autobiografia 1962 di Nazim Hikmet, il poeta turco morto a Mosca in questi giorni. Attraverso le pagine della raccolta delle sue Poesie d’amore, pubblicata da Mondadori nello Specchio (1963) ricerco la memoria ferma dell’amico perduto. La vita di Hikmet, densa di chiusure rapide e di percorsi mai diagonali, porta l’immagine di una battaglia d’amore in cui le donne, tutte amate, la terra, un’idea, sono armi e difese di un’anima forte. L’Oriente, con le riprese dal vero delle leggende nelle tele di ragno dei potenti, l’Occidente che sta conoscendo una nuova legge, sono gli estremi della sua natura di poeta. Ma se le opposte sensazioni di origine e di entusiasmo attuale, possono a volte fondersi in impercettibili battute di dolore o di sogno, esse non si toccano mai per coincidere. La traduzione di Joyce Lussu lascia bene intravedere il canto di certe liriche di metrica e paesaggio orientale e, ancora, la chiara soluzione di Hikmet. Oltre i ricordi o i ritorni dei ricordi in motivi di origine turca, cioè della terra della sua nascita (due cose non si dimenticano fino alla morte – il viso di nostra madre e il viso della nostra città), che rivelano immagini di ventagli e di cortine, di giade e profumi pesanti come oggetti, è la scelta sociale dell’uomo Hikmet; oltre la discendenza di antica tradizione turca. Il suo Oriente è a volte come quello di Baudelaire che la madre del poeta tanto amava, lieve e opaco, ma sa essere anche il ricordo di un amore autentico perché legittimo. In Hikmet c’è una visione diretta delle ingiustizie sociali, una presa di posizione universale contro i falsi diritti dei ricchi. Nella penisola dell’Anatolia i secoli hanno stratificato i preconcetti delle classi sociali e le loro distinzioni tanto da creare i personaggi e le situazioni delle favole e delle leggende famose. E veramente come il genio di Aladino il ricco trasforma in oro gli oggetti della sua esistenza lunga le “mille e una notte” dell’Oriente. Hikmet conosce la realtà del mendicante, del suo popolo che non è soltanto un disegno ornamentale dietro le porte d’argento dei palazzi. La Russia del suo esilio, Marx e Majakovskij, insegnano una saggezza che viene dalla lotta contro la miseria e l’ingiustizia e non dalle parole alate dei santoni dei miti. Nel poeta Hikmet il tappeto aereo d’Oriente scivola e fugge sotto il passo pesante e triste dei contadini e degli operai, dopo lo scontro delle due civiltà. “Amore” dunque per l’uomo, per la terra, attraverso quello per le donne (un sospetto di recinto da sultano non riesce a staccare dal reale la sua vicenda inquieta ed errante di uomo occidentale). Amore che è dolcezza e preghiera, ma anche dolore e metamorfosi. Le trasformazioni del cuore attraverso gli anni del carcere, di Istanbul, di Mosca, di Cuba, nelle città straniere (non amo i ritorni), costruiscono una spirale di amori – creature, luoghi, idee, fughe, sogni. La fantasia è solo la stoffa dove il passato è un arabesco orientale, uno sfondo per l’immagine amata. La realtà lacera il presente e lascia aperto lo squarcio del dolore, della persecuzione, della solitudine: il poeta è Nazim Hikmet, il figlio rivoluzionario di una terra antica, i suoi sentimenti sono universali. Nelle poesie i richiami di parole e di versi, di figure, sono la notte e il giorno del poeta di Turchia. La metrica e il riposo della metrica fanno delle liriche di Hikmet un’opera originale, una creazione della fede nuova in un credente di antica abitudine. La donna sembra l’odalisca statica della tradizione, ma il corpo ha tenerezze singolari, la realtà d’amore unica; la sua figura si muove, subito dopo, nell’imprevisto e veloce incontro della donna nordica, Anche nel carcere o nelle terre dell’Ovest o del Sud, la luce è quella astratta delle piastrelle dei templi di Maometto: le “perle”, le “rose”, le “stelle” sono i raggi della sua città che rischiarano un lamento continuo della sua esistenza di esule. L’Anatolia è una riva che si spinge nel Mediterraneo verso l’Europa: la polvere d’oro dell’Est è lì già oscurata e risplendente per i riflessi delle veglie classiche del continente più antico. Così scrive a Joyce Lussu Nazim Hikmet: “Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell’Unione Sovietica. Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un’ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-1922, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un’immensa gioia di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un’altra umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo. E da allora, non posso non scrivere delle poesie”.
(Tratto da Salvatore Quasimodo, “A colpo omicida e altri scritti” a cura di Gilberto Finzi – Mondadori – 1977 – pp. 153 – 155), oppure si può leggere anche in Nazim Hikmet “Poesie d’amore” Oscar Mondadori, pp. 327 – 329.
Riveduto, corretto e aggiornato oggi 12 maggio 2018.
Modica 18/ 08 /2018 Prof. Biagio Carrubba.
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