LA PIETA’. BELLISSIMO COMPONIMENTO POETICO DI GIUSEPPE UNGARETTI.

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LA PIETA’. BELLISSIMO
COMPONIMENTO POETICO
DI GIUSEPPE UNGARETTI.
I
Da Sentimento del tempo.

L’opera poetica si divide in 7 sezioni. La prima sezione “Prime” raccoglie le poesie scritte tra il 1919 e il 1924 e risentono ancora delle poesie dell’Allegria. La seconda sezione “La fine di Crono” raccoglie poesie scritte tra 1925 e il 1931 disposte però non in ordine cronologico. Queste poesie già mostrano un modo di poetare lontano dall’Allegria e sono poesie del tutto nuove e manifestano già tutte le caratteristiche della nuova produzione del poeta: versi ermetici, versi regolari nella metrica, versi oscuri, versi polisemantici, versi staccati tra di loro da spazi ampi e vuoti tra una strofa e un’altra, l’uso originale della analogia. I temi sono quelli dei paesaggi estivi, e pensieri metafisici come Una Colomba, Fine di Crono. La poesia più oscura è senza altro “L’Isola”, ed anche la poesia “Fine” è molto oscura: “In sé crede e nel vero chi dispera?”. Siamo evidentemente all’inizio dell’Ermetismo. La terza sezione “Sogni e Accordi” raccoglie poesie scritte tra il 1927 e il 1929. contiene poesie paesaggistiche e ambientali, anche una poesia sulla precarietà e nullità dell’uomo: “Ombra” (da Ungaretti – Vita d’un uomo – pag. 140).

Ecco il testo della poesia.

Uomo che speri senza pace,
Stanca ombra nella luce polverosa,
L’ultimo caldo se ne andrà a momenti
E vagherai indistinto…

Questa è una bella poesia perché esprime tutta l’indeterminatezza e l’inquietudine dell’uomo ridotto a Ombra, destinato a vagare indistintamente e continuamente. Segue subito dopo la poesia “Stelle” (da Ungaretti – Vita d’un uomo – pag. 142).

Ecco il testo della poesia.

STELLE
1927
Tornano in alto ad ardere le favole.

Cadranno colle foglie al primo vento.

Ma venga un altro soffio,
Ritornerà scintillamento nuovo.

La quarta sezione “Leggende” comprende le poesie scritte tra il 1929 e il 1935. La sezione consta di poesie dedicate a persone care ma morte come il suo capitano, sua madre e una poesia dedicata a “Memoria d’Ofelia D’Alba” (1932). Si riscontrano poesie ermetiche e poesie tradizionali come quella dedicata alla Madre: “La Madre”. La quinta sezione “Inni” comprende poesie scritte tra il 1928 e il 1932 e comprende le poesie più belle dell’intera raccolta come “LA PIETÀ”, “Caino”, “La Preghiera”. Sono poesie scritte con un poetare ermetico e polisemantico e sono le poesie scritte subito dopo la conversione religiosa e risentano quindi di uno spirito ancora dubbioso, ma ormai fermo nella chiesa cattolica e nel vangelo di Cristo. La più bella poesia in assoluto è “LA PIETÀ” (da Ungaretti – Vita d’un uomo – Oscar Mondadori. Pag. 168).

Ecco il testo della poesia.

Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi.

O foglie secche,
Anima portata qua e là…

No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.

Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono più che di nome?

M’hai discacciato dalla vita.

Mi discaccerai dalla morte?

Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

Anche la fonte del rimorso è secca?

Il peccato che importa,
Se alla purezza non conduce più.

La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte.
È folle e usata, l’anima.

Dio guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza.

Di noi nemmeno più ridi?

E compiangici dunque, crudeltà.

Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.

Una traccia mostraci di giustizia.

La tua legge qual è?

Fulmina le mie povere emozioni,
Liberami dall’inquietudine.

Sono stanco di urlare senza voce.

2

Malinconiosa carne
Dove una volta pullulò la gioia,
Occhi socchiusi del risveglio stanco,
Tu vedi, anima troppo matura,
Quel che sarò, caduto nella terra?

È nei vivi la strada dei defunti,

Siamo noi la fiumana d’ombre,

Sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

Loro è la lontananza che ci resta,

E loro è l’ombra che dà peso ai nomi,

La speranza d’un mucchio d’ombra
E null’altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,
Vogliamo ti somigli.

È parto della demenza più chiara.

Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

3
La luce che ci punge
È un filo sempre più sottile.

Più non abbagli tu, se non uccidi?
Dammi questa gioia suprema.

4
L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.

Questa poesia o poemetto è di una perfezione assoluta. Credo si possa considerare una tra le più belle poesie del XX secolo, se non la più bella in assoluto, poiché riesce a sintetizzare in modo originale, drammatico, pietoso, ma anche con tanto pathos e con tanta veemenza tutta la crisi spirituale e la disperazione che il poeta aveva accumulato nei suoi primi 40 anni vita, come lui stesso scrisse: “estrema inquietudine, perplessità, angoscia, spavento, della sorte dell’uomo”. Questa poesia, o meglio poemetto o canto – preghiera, è un capolavoro assoluto perché conduce un dialogo fatto di rabbia e di disperazione con Dio, di dubbi e di richieste, di condanna e di salvezza per l’uomo. Il poeta parte da sé stesso ma alla fine arriva all’uomo bestemmiatore. Un percorso difficile e tortuoso che esplode continuamente in interrogativi senza risposte. La forma del testo è sorprendentemente altissima con l’uso degli ampi vuoti fra le strofe, vuoti che sembrano abissi che rendono il poemetto ancora più solenne e ieratico. Come scrive Andrea Cortellessa: “Ma la tendenza è ancora più impressionante nella sezione degli Inni; quella dove, anche per la materia trattata – prevalentemente religiosa –maggiore è l’impegno retorico di Ungaretti. Si arriva sino all’estremo della Pietà del ’28; componimento diviso in quattro sezioni, dove 74 versi formano ben 45 strofe, delle quali 27 di un solo verso echeggiante. “Villa” vi intravede una parentela “con il salmo biblico, in specie i corali e i penitenziali; gli inni di Sant’Efrem, e i più noti inni della liturgia cattolica, romana e ambrosiana”. Certo che l’effetto è di massima, sacrale solennità” (Ungaretti – Einaudi Tascabili – a cura di Andrea Cortellessa – pag. 90-91). Il poeta è in crisi spirituale; dopo tanti dubbi su Dio ora è un uomo ferito e vorrebbe andare dove è solo con sé stesso. L’uomo intraprende allora il viaggio interiore per scoprire Dio e si chiede se lui non è degno di tornare in sé; vede la sua anima sballottata qua e là e ricominciano le domande scettiche del poeta: “Dio, coloro che t’implorano/non ti conoscono che di nome?”. Dio è così cattivo che dopo averlo discacciato dalla vita ora lo scaccerà anche dalla morte?”. Ora il poeta invoca Dio a guardare la debolezza degli uomini, ma subito dopo pretende una certezza da Lui. Poi prega Dio di “mostrarci una traccia di giustizia”, chiede di volere conoscere la Sua legge, ed in ultimo Lo supplica affinché lo liberi dalle sue povere emozioni e dall’inquietudine. Il poeta è ora stanco di urlare senza voce, poiché l’ha persa in tutte le sue suppliche a Dio. Nella seconda parte il poeta, dopo alcuni versi sugli uomini e sulle ombre dei morti, si chiede con un appello accorato, struggente e angoscioso se: “La speranza d’un mucchio d’ombra/e null’altro è la nostra sorte?”. Bellissimi e drammatici versi che esprimono tutta la perplessità, lo spavento del poeta per una morte senza redenzione e salvezza da parte di Dio. Il poeta si chiede se Dio si riduce a un puro sogno, e conclude che nell’uomo: “sta e langue, piaga misteriosa”. Nella terza parte il poeta chiede a Dio di essere abbagliato da Lui.
Nella quarta parte il poeta scopre la natura maligna e delittuosa degli uomini i quali non hanno altro che limiti. L’uomo, sospeso sul vuoto, però non teme la sua vita su questa terra, né teme la sua condizione umana e la sua avventura terrena. La bellezza dell’uomo, e ciò che seduce di lui, é il suo grido di terrore, che mi fa pensare immediatamente al dipinto di Edward Munch “Urlo” del 1893. Il poemetto si chiude con il riconoscimento da parte di Ungaretti della natura malvagia dell’uomo che per poter pensare a Dio: “non ha che le bestemmie”. Il riconoscimento della natura malvagia degli uomini è riconfermata nella poesia seguente, “Caino”. La volontà di chiedere a Dio pena e perdono per i peccati degli uomini è confermata dalla poesia che segue, “La Preghiera”, nella quale, dopo aver deprecato la natura malvagia e la superbia degli uomini, il poeta chiede a Dio che Lui sia la misura e il mistero degli uomini; Ungaretti chiude la poesia con un’immagine celeste e metafisica: “Vorrei di nuovo udirti dire/che in te finalmente annullate/le anime s’unificheranno/e lassù formeranno, /Eterna umanità /il tuo sonno felice”. Queste tre poesie costituiscono una trilogia continua e completa che ci dà l’esatta concezione del lavorio interiore di Ungaretti. Il poemetto esprime questo travaglio interiore in modo freddo e rabbioso, distaccato ma pieno di gesti e di posture calde e impetuose, poiché il tema è caldo e appassionante. La lexis della poesia è altissima, solenne, impeccabile, ieratica, imperturbabile, non mostra segni di cedimento verso un vittimismo pauroso o un sentimento di vigliaccheria verso la vita brutale e crudele. I vuoti tra le strofe sono dei vuoti abissali che esprimono tutto il desiderio di arrivare a Dio. Pause lunghe che danno al poemetto un tono alto e aulico, freddo e maestoso, tanto da essere un Inno elegiaco che potrebbe essere cantato come un coro religioso. La sesta sezione “La morte meditata” comprende 6 canti che hanno come argomento la morte vista con distacco e come una donna. Emerge uno stile ermetico, nominalistico, evanescente e indistinto. La settima sezione “L’amore” comprende poesie uscite nella edizione del 1936, quindi aggiunte dopo. Sono poesie che hanno come argomento l’amore ispirato da donne lontane, come nella poesia “Canto”: “Cara, lontana come in uno specchio” sempre in chiave ermetica e indefinita.

Il mio giudizio su LA PIETÀ

Io, Biagio Carrubba, reputo “LA PIETÀ” una poesia bellissima e perfetta sia come contenuto sia come forma. Il contenuto del poemetto è l’invocazione del poeta a Dio affinché dia serenità e felicità a questa umanità debole e manchevole; Ungaretti chiede anche a Dio di mostrarci la sua legge. Il poeta, stanco di urlare senza voce, invoca da Dio la sua liberazione dall’inquietudine, perché l’uomo è solo ombra. E “La Speranza di un mucchio di ombra/e null’altro è la nostra sorte?”; bellissimi versi che rispondono al bisogno, tutto interiore, di ogni uomo. Emerge qui la concezione pagana del regno dei morti come regno delle ombre, mentre la concezione cristiana parla di anima e di luce che stanno accanto alla Luce suprema. Nella poesia “Caino”, Caino rappresenta la primordiale tendenza umana al peccato e raffigura la forza del desiderio fisico, e più in generale, i segni della civiltà e della storia. Nella poesia “La Preghiera” scompare la raffigurazione delle ombre pagane e subentra solo quella cristiana delle anime, che dopo la resurrezione dei morti, s’uniranno e formeranno l’eterna Umanità e il sonno felice di Dio. Il poemetto si conclude con la riaffermazione dell’uomo bestemmiatore, per dire che la natura umana è passionale, violenta, crudele, vitale, feroce. La forma del poemetto è perfetta perché scritta in versi e piccole strofe lapidarie, laconiche, essenziali, epigrafiche, piene di pathos e di pietas, spezzate ma non frantumate. Ogni spazio tra i versi è un vuoto abissale, quale quello che separa gli uomini da Dio, come scrive Andrea Cortellessa: “Troviamo infatti che nella raccolta del ’33 “ogni verso è come durevolmente inciso e bloccato in un suo spazio. È un verso-strofa” come dice Guglielmi” (Ungaretti – Einaudi Tascabili – a cura di Andrea Cortellessa – pag. 90). Tutto ciò rende il poemetto un coro liturgico e drammatico rivolto a Dio, dagli uomini, per essere ascoltati. Il mio giudizio su LA PIETA’ è positivo e bello perché, intanto non è un monologo, ma un dialogo tra il poeta e Dio e poi perché il poeta non è un Giobbe ma, caso mai, è un San Tommaso che voleva toccare prima di credere; poi perché l’intensa energia metafisica non è minata da un’ enfasi gesticolante, ma semmai sono il Pathos e la Pietas umana che si innalzano a Dio per sostenere la nostra debolezza e chiedere a Lui la certezza della salvezza, benché il poeta in ultimo faccia prevalere non la natura buona dell’uomo, ma la natura violenta e blasfema di Caino, e perché LA PIETÀ esprime una religiosità alta e sofferta, il pessimismo liberatorio di Sant’Agostino, un drammatico senso della morte e raggiunge l’alto livello di una preghiera accorata di Blaise Pascal.

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Modica 06 aprile 2019                                                                           Prof. Biagio Carrubba

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