LA MIA ANALISI DEL BREVE E BEL ROMANZO “DICERIA DELL’UNTORE” DI G. BUFALINO.

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LA MIA ANALISI DEL BREVE E BEL ROMANZO
“DICERIA DELL’UNTORE” DI G. BUFALINO.

I
Introduzione.

1) Sintesi del romanzo: inizio, sviluppo, culmine, scioglimento e conclusione.
Il romanzo inizia con la descrizione del protagonista che entra nel sanatorio. Dopo un periodo di isolamento, decide di scendere in mezzo agli altri perché “era troppo vigliacco per morire a rate (pag. 22)”. Conosce, così, altri malati di cui diventa un assiduo frequentatore ed amico. Poi conosce Marta, una ex ballerina della Scala, di cui s’innamora perdutamente. Intrattiene con lei una storia d’amore, ma poi lei non si fa più trovare da lui. Il protagonista, dopo un breve soggiorno nel suo paese nativo, ritorna alla Rocca, dove riallaccia la sua storia d’amore con Marta. Insieme decidono di fuggire dal sanatorio. Inizia il culmine del romanzo: la fuga si rivela, però, “l’ultimo sorso di luce per Marta (pag. 118)”. Qualche sera dopo Marta muore in un alberghetto vicino al mare. Inizia la conclusione del romanzo. Il protagonista rientra nel sanatorio, dove vengono bruciati tutti gli oggetti di Marta. Muore anche il Gran Magro. Si salva, inaspettatamente, solo il protagonista, il quale, una mattina di novembre, lascia il sanatorio per rientrare nella vita di tutti i giorni e “per rendere testimonianza, se non delazione, di una retorica e di una pietà (pag. 133)”.
2) Il tema del romanzo.
Il tema centrale del romanzo è la guarigione improvvisa dalla malattia. Il protagonista inaspettatamente guarisce dalla malattia e si salva dalla morte. Ecco come il protagonista parla della sua malattia nel sanatorio: “E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finché la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l’angolo con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti (pag. 18)”. Oppure quest’altro passo: “Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali (pag. 25)”. Il protagonista insieme agli altri attende la morte: “L’attesa della morte è una noia come un’altra e, che si nutre, di pompe più assai della morte stessa (pag. 36)”. Ma ciò che spinge il protagonista a muoversi è, senza dubbio, il suo impulso a cogliere subito il piacere immediato che poteva offrirgli la circostanza del posto. Ecco cosa dice il protagonista a Marta per convincerla ad amarlo: “Marta devi uscire con me. Ti resta poco tempo. E abbiamo 20 anni (pag. 40)”. Ed ecco i passi dalla sua inaspettata guarigione: “Un peculio incalcolabile di anni, se il medico non mentiva, si sarebbe aggiunto ai magri centesimi che finora stringevo nel pugno. Ma non sapevo come spenderlo, ai nuovi ricchi succede (pag. 103)”. Oppure quest’altro passo: “Io mi sentivo, invece, dissipate le apprensioni della mattina e i contraddittori ammaestramenti dello spettacolo, tutto preso da una nuova esultanza (pag. 119)”.
3) L’intreccio e la fabula del romanzo.
Il romanzo inizia con un flash-back, cioè il protagonista prende a raccontare la sua storia, ormai guarito e inizia la sua avventura, alla Rocca, descrivendo un sogno che faceva durante le notti trascorse nel sanatorio. Sogno che si ripeté per tutto il tempo che il protagonista rimase nel sanatorio. Dopo il romanzo segue una fabula logica e cronologica e ripercorre lo svolgimento logico, cronologico e lineare dei fatti che va dall’ingrasso al sanatorio al momento della sua uscita. “Fu in un’alba di novembre, fredda (pag. 131)”.

4) I personaggi.
I personaggi principali del romanzo sono: il protagonista, cioè l’autore e il narratore (Bufalino) del romanzo; Marta, una paziente del sanatorio, che corrisponde alle avance amorose del protagonista; il direttore del sanatorio, il Gran Magro; altri malati tra cui Luigi il Pensieroso, Luigi l’Allegro, il fanciullo Adelmo, Sebastiano, e altri malati come suor Crocifissa, il Colonnello e padre Vittorio, cappellano del sanatorio. Bufalino, da tutti questi personaggi del romanzo, che non sono per niente personaggi minori, trae una grande saggezza popolare, con le loro riflessioni personali. Ognuno di loro ha la propria indole e il proprio carattere con cui fare i conti. Da ognuno di loro, Bufalino prende il meglio e gli fa dire considerazioni e riflessioni sulla vita e sulla morte che sono di una sublimità eccezionale e di una forza magnetica notevole. Padre Vittorio, per esempio, tra i suoi pensieri riporta questo nel suo diario: “La morte è un taglialegna, ma la foresta è immortale (pag. 32)”. Oppure la bellissima e significativa frase di Sebastiano che dice: “Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa (pag. 74)”. Oppure questa significativa riflessione di Marta: “Un senso? Fece. Un senso a una forza? Io so soltanto che patisco una forza che peggiore non ce n’è. Avevo una vita, un viso. Mi tolgono questo e quello (pag. 60)”. Molto bella è anche quest’altra bellissima riflessione del Gran Magro: “Non giustificarti ragazzo. Dopo tutto è meglio così. È morta fin troppo tardi. Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza, e a fermarla al momento giusto. E per lei quel momento era già venuto due volte (pag. 123)”. E poco dopo “Una fuga, è stata, una fuga. Ho corso attraverso la vita, senza capirci niente. Ma ormai, fra una o due parasanghe, c’è il mare; le saette di Artaserse non mi raggiungono più (pag. 123)”.
5) La voce narrante del romanzo.
La voce narrante si identifica con la voce del protagonista del romanzo e con l’autore stesso del romanzo, cioè con G. Bufalino. Il narratore è il protagonista del romanzo e l’intera vicenda è filtrata dai giudizi e dai commenti del protagonista. Il racconto è, così, condotto dalla voce del narratore che osserva i fatti e le vicende del romanzo con i propri occhi. E, inoltre, rende bene individuabile la propria presenza attraverso interventi e giudizi di prima mano, per cui questo romanzo si definisce a narrazione omodiegetica.
6) Contesto storico, sociale e letterario del romanzo.
La vicenda si svolge dall’estate del 1946 fino al novembre 1946, quando il protagonista è dimesso dal sanatorio, soprannominato la Rocca, che si trova nella piana della Conca d’Oro tra Palermo e Monreale. I personaggi del romanzo sono dei reduci di guerra che vanno a curarsi in questo sanatorio, diretto dal Gran Magro, che oltre a curare i malati, cercava di farli distrarre con i suoi programmi nel teatro dell’ospedale. Qui il protagonista conosce Marta Levi e la sua storia di ex kapò.
7) Il tempo narrativo del romanzo.
Il romanzo fu pensato per la prima volta da Bufalino nel 1946 ma poi fu scritto dal 1950 fino al 1970. Dal 1970 in poi l’autore lo completò e lo corresse fino al 1980, quando fu scoperto e pubblicato da Elvira Sellerio. Nel 1981 vinse il premio Campiello che fece conoscere il nome dell’autore e il romanzo in tutta Italia, perché la bellezza estetica, barocca e borrominiana, di Diceria dell’untore, fu come un pugno nell’occhio rispetto alla media dei romanzi degli anni ’70 e disvelò una prosa arzigogolata, nuova, creativa definita, anche dai critici, postmoderna. Infatti il romanzo fece fare un passo in avanti, sorprendente, inaspettato e improvviso a tutta la letteratura italiana. Anche la città di Comiso diventò, allora, un centro culturale attivo per tutta l’attività letteraria siciliana e per l’intera Italia.
8) Il tono emotivo del romanzo.
Il tono emotivo del romanzo è dato dal clima decadente, di soave putrefazione, monotono e triste del sanatorio. La malattia rende tutto malinconico, mesto e pessimistico e solo l’inaspettata guarigione del protagonista attenua il senso della ineluttabilità della morte, così bene descritta da Bufalino, e stampata sulla faccia del Gran Magro morto da pochi secondi. “Rimase così, con una sorta di ghigno, non perverso ma lieto, dipinto sul viso, un ghignetto che gli conoscevo, così vivido che mi ci volle tempo per capire che era finita, e che ogni minuto, a partire da quello, sarebbe stato uguale per lui: una catena uguale di meri minuti, un fiume senza sponde di identici, eterni, inaccaduti minuti (pag. 129)”. Questa immagine del Gran Magro morto coincide, secondo me, praticamente con l’ultima immagine del film di Sergio Leone “C’era una volta in America” (1984), quando l’immagine finale si ferma e si sofferma su Robert De Niro ed incominciano i titoli di coda, con l’indimenticabile e struggente colonna sonora. La drammaticità dei personaggi, sopra i quali la morte alita continuamente il suo fiato, ed è pronta a togliere a ciascuno di essi, quanto prima possibile, la vita, la prosa suadente e lirica e il tono emotivo elegiaco e malinconico, ma mai cupo, fanno di questo romanzo, oltre che un dramma greco, anche una commedia italiana dolorosa molto verosimile alla vita comune degli uomini, tutta intrisa di dolori, di malattie, di morte, ma ricca anche di gioie e di felicità. Questo romanzo, barocco, sentimentale e bildungsroman, è un viaggio all’interno del dolore, ma per uscirne più forti di prima. Diceria dell’untore permette, così, una catarsi, una purificazione dalle passioni più meschine e micidiali che tormentano i malati e gli sfortunati della Terra, ma permette e acconsente, anche, di vivere un godimento spirituale dell’anima, universale per tutti gli uomini del pianeta Terra.

Analisi della forma.

1) Il genere del romanzo.
Il romanzo è di genere autobiografico, e di genere bildungsroman, ma si allarga in altri generi fino a diventare un romanzo di genere psicologico, esistenzialista, per finire al genere favolistico e metafisico.
2) Il linguaggio lirico del romanzo.
La prosa di Diceria dell’untore è un susseguirsi di periodi e di ornati di eleganza e di raffinatezza, che di primo acchito fanno apparire la prosa irta e difficile da leggere, ma poi rileggendola viene fuori una prosa delicata e carica di effetti variopinti, come un tramonto striato di colori. Le proposizioni si inseguono e si incastrano una sull’altra, creando, così, una prosa affascinante e vivace, come risaltano le figure di un mosaico visto la lontano. La prosa di Diceria dell’untore è come un ricamo su una stoffa bianca e pulita che acquista con le sue raffigurazioni una nuova bellezza dovuta alle forme del disegno e delle figurazioni. La bellezza della prosa di Diceria dell’untore si può paragonare, secondo me, alla bellezza che emerge da una scena ricca di particolari e di sfumature di colori di un grande arazzo rinascimentale il quale mostra tutto il suo fascino e glamour nei particolari delle figure di cui è composto.
3) La lexis del romanzo.
La lexis del romanzo è molto lirica, raffinata e incantevole. I periodi sono ampi e ricchi di subordinate che si dipanano e si ampliano a grappoli. Il romanzo ha un ornato, arguto e acuto, perché è ricco di moltissime figure retoriche come: il paradosso, l’ironia, l’enfasi, le iperboli, gli ossimori, le similitudini e certe perifrasi argute. Diceria dell’untore è traboccante di figure retoriche che gli conferiscono uno stile barocco, ricercato e arzigogolato. Ma, secondo me, in questa prosa barocca non si deve intendere come prosa magniloquente, artefatta, pomposa, sfarzosa ma si deve interpretare e capire come una prosa ricca di figure retoriche che adornano impreziosiscono il contenuto, come un gioiello che adorna e impreziosisce il corpo di una donna già bella e ornata.

4) Il messaggio del romanzo.
Il messaggio del romanzo è dichiarato dal protagonista con queste parole: “Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande (pag. 54)”. Il messaggio del romanzo è, dunque, ritornare a vivere dopo aver toccato con mano la morte. Ma il protagonista ha paura e timore di ritornare a vivere in mezzo agli uomini. Ecco come esprime questo panico: “Certo ora mi attraeva qualunque specola da cui si potesse passivamente osservare il guazzabuglio del mondo e riderne e piangerne con misura, come si conviene quando si fa eco alle risa e alle lacrime degli altri. Nemmeno al futuro pensavo più; né a governarne i maneggi nella fantasia (pag. 56)”. Oppure in quest’altro passo: “Era dunque giorno di festa, benissimo. Aspettavo da tanto di poter mettere a confronto in mezzo alla gente i miei comportamenti con quelli degli altri e rallegrarmi gli occhi con robe di colore e diverse, nel dopo tante uniformi. Del resto non dovevo forse tornare io stesso, di lì a poco, a far e confusione e coro con i più nel cafarnao della vita? non conveniva allenarsi? (pag. 111)”. Ecco come il protagonista descrive, in modo dettagliato e stupendo, il momento del suo passaggio dalla malattia alla vita: “Io avevo compiuto, un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sotto terra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia. Veni foras mi ordinai nel pensiero. Lazzaro, vieni fuori. E mi rituffai nell’aria di fuori, la sentii con riconoscenza aprirsi amica ad accogliermi, farmi posto dentro di sé, come la sabbia ad un corpo nudo (pag. 132)”.
5) La tesi del romanzo.
La tesi del romanzo è la riflessione del narratore sul destino degli uomini, espressa in maniera feerica e sublime con queste parole: “Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc’a tombola della nostra vita. non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi capita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni (pag. 29)”. Il protagonista non può fare a meno di tornare nella vita di tutti i giorni e, benché a malincuore, esprime la necessità del ritorno in essa con queste parole: “Era, per traslato, un no alla morte che io gridavo attraverso quelle indiscipline focose; tutta una suprema farmacia cercavo nella chimica dei sentimenti, posto che dall’altra non osavo sperare più aiuto (pag. 94)”. Ecco il bellissimo finale dove bufalino esprime ed esplicita la necessità e la bellezza della vita: “Per questo forse m’era stato concesso l’esonero; per questo io solo mi ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, di una retorica e di una pietà. (pag. 133)”. Oppure in questo lacerto “Ma siamo vivi? In questo istante sei vivo. Guarda la luce, come ti grida nelle pupille. Sei vivo e non è stupefacente? Qui e ora, nel buco d’aria che riempi col volume del tuo volto, e che possiedi tu solo nell’universo degli universi, non sei forse Dio? Questo è il miracolo, questo è il mistero! … (pag. 72)”.
6) Aspetti estetici del romanzo.
Ciò che colpisce il lettore, subito dopo la prima lettura, è la straordinaria bellezza del lessico, della lexis e dello stile. Io, B. C., reputo che il suo misterioso fascino, derivi da molti elementi tra cui: la perspicuità, la purezza e la chiarezza dell’ornato. Il romanzo appartiene, quindi, allo stile sublime, sia per il suo ornato forte e denso, sia perché è pieno di patos e sia perché, alla fine, riesce a suscitare forti passioni con i tormenti e sentimenti di tutti i protagonisti e a commuovere i lettori.
Ma, oltre a questi elementi della eloquenza, vi sono altri due motivi di bellezza, quali: l’ERLEBNIS e il CONATUS, che fanno di questo breve romanzetto, un capolavoro assoluto della letteratura italiana. Infatti Bufalino riesce a trasformare la sua erlebnis personale in espressione artistica che differenzia il grande scrittore dall’uomo comune, per il quale invece la sua erlebnis rimane una particolare e personale esperienza valida soltanto per sé stesso. Bufalino riesce anche a esprimere, in forma letteraria, il suo conatus, cioè la tendenza di ogni essere vivente alla propria autoconservazione alla vita; ed è grazie a questa forza interna, a questo conatus, che il protagonista guarisce miracolosamente e inaspettatamente dalla malattia e, così, ritorna fra gli uomini sani, ma con la consapevolezza della sua vicinanza continua della morte. Per questo motivo nel romanzo non si trovano parole superflue e il tutto viene arricchito da diversi proverbi siciliani o da certe sentenze come questa: “Ah, i destini degli uomini, una spugna bagnata li cancella, come una pittura (116)”.
7) I diversi valori e significati della morte.
Diceria dell’untore è un romanzo, secondo me, tra i più belli del XX secolo. Ancora oggi, a distanza di 37 anni, dalla sua pubblicazione mi chiedo se è stato pubblicato un altro bel romanzo come Diceria dell’untore. Io, Biagio Carrubba, fino ad adesso non l’ho trovato. Il suo fascino deriva dal fatto che tutti gli elementi e le componenti del romanzo sono armonizzati fra di loro in modo sublime e irrepetibile, a cominciare dalla sua lexis e dal suo lessico, barocco ma non troppo. Infatti il libro è pieno di iuncture belle, creative, e originali. Ma vi sono anche molte Wit che rendono il romanzo una perla tutta siciliana. Inoltre la drammaticità della storia dei personaggi, ora tragica e ora lieta, e il suo modo di scrittura ricca di ornatus e di uno stile, originale e personale, conferiscono al romanzetto un fascino letterario quasi unico, nella letteratura italiana. G. Bufalino, inoltre, scopre e descrive i vari sentimenti dei personaggi, tutti protesi a fuggire la morte, così come la vogliono fuggire tutti gli uomini del mondo. Tutto il breve e bel romanzo ha come motivo implicito ed esplicito il tema della vita contro la morte. La vita combatte la morte in una sfida infinita, mai conclusa, che finirà, forse, con una patta finale. Una frase che può sintetizzare e svelare lo spirito magico che informa tutto il romanzo è questo: “Morior ergo sunt (morirò dunque solo). Ma da tutto il romanzo si evince, anche, il significato che la morte assume valori diversi, a seconda delle circostanze in cui essa avviene. La morte va, dunque, intesa in diversi modi: I) c’è la morte che libera da qualche pazzo e malefico, come Hitler, restituendo così la libertà e la vita a molte milioni di persone; II) c’è la morte eroica per altre persone come quella di Salvatore D’Acquisto che si immolò per salvare la vita di centinaia di persone; III) c’è la morte che apre le porte a Dio, come per i cristiani; IV) c’è la morte dei materialisti che restituisce il corpo alla materia, come per i materialisti e per gli atei; V) c’è la morte dei suicidi che si uccidono per uscire fuori dai propri tormenti interiori e dal disorientamento esistenziale e psicologico; VI) c’è la morte che libera da malattie incurabili che procurano dolori invisibili e inutili come i malati terminali di tubercolosi o di tumori come fece il regista Mario Monicelli nel 2010.
La morte, dunque, assume, così, valori e significati diversi nelle diverse circostanze e può rivelarsi utile o inutile a seconda degli scopi degli uomini. E proprio la pluralità delle morti spiega il detto degli antichi: Un bel morire onora tutta la vita. Ed effettivamente, secondo me, è così: i grandi uomini muoiono per il loro grande valore e ad essi vengono celebrati solenni funerali; invece, gli uomini crudeli e dannosi muoiono violentemente e senza nessun funerale. Può accadere, infine, che qualche volta la vita riesce a ghermire qualcuno alla morte, ma, molte volte, è la morte che ghermisce qualcuno o migliaia alla vita, come succede nei terremoti, imprevisti e catastrofici. E tutto ciò, secondo me, è espresso in modo meraviglioso da Bufalino con queste belle proposizioni: “E mi dicevo che l’estate era finita e la mia gloria insieme. E che di tante febbri, e frasi, e fazzoletti zuppi di lacrime e sangue, per fino il ricordo presto si sarebbe consumato, una vacanza era stata, una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire. Come tutte le grandi feste, anche questa intima mia finiva con una pioggia. In compagnia dell’acqua che mi colava dai capelli e mi irrigava le gote, il male si scorporava da me, se ne andava. Ma con esso ogni resto d’orgoglio; con esso, forse, la gioventù. Mi attendevano altre strade, domani. Facili, rumorose, comuni. Le mezze fedi, le false bandiere. Mi ci sarei rassegnato, che altro potevo fare? Poiché la seduzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più (cap. XVI pagg. 124 -125).”

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Modica 27/ 10/ 2018                                                             Prof. Biagio Carrubba

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