Introduzione alla canzone libera “SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE” di G. Leopardi.

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Introduzione alla canzone libera
“SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE”.
dove una giovane morta è rappresentata
in atto di partire, accomiatandosi dai suoi”.
(Canto XXX) di G. Leopardi.

“SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE” fu scritta dal Leopardi tra il 1831 e il 1835, proprio durante la tempesta della sua passione per la bella signora Fanny Targioni Tozzetti Ronchivecchi. Nel suo viaggio romano, tra l’ottobre 1831 e marzo 1832, Leopardi vide, nello studio dello scultore Pietro Tenerani, nell’ottobre del 1831, la statua, per la tomba, di Clelia Severini, una giovane donna morta a 19 anni, come G. Leopardi scrive nella lettera del 29/ 10 / 1831 alla signora e sua amica Carlotta Lenzoni di Firenze. Dopo aver concluso ed ordinato dentro di sé il suo drammatico ardore per la bella Fanny e dopo aver scritto “Aspasia”, Leopardi riprese il primo abbozzo di “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, iniziato nel 1831-32 e gli diede la forma definitiva di poesia che divenne la prima sepolcrale. In questa poesia Leopardi riprende il tema generale della “morte prematura” e riapre, nello stesso tempo, il “pensiero del suicidio” che non lo aveva mai abbandonato, fin dalla prima lirica “Bruto Minore”. Per il Leopardi, l’idea del suicidio era un chiodo fisso e già aveva invocato la morte in gioventù ma per il momento l’aveva allontanata. Leopardi accettava la concezione stoica per la quale in certe condizioni è meglio il suicidio che accettare le disgraziate condizioni di vita. La stessa filosofia dello stoicismo propone la ricerca della serenità e auspica di essere forti di fronte alle avversità della vita. Dunque il Leopardi accetta entrambe le idee (suicidio e fortezza) in base agli avvenimenti contrastanti e contraddittori della sua vita. Tutto questo era stato scritto e spiegato ed argomentato da Leopardi molti anni prima nell’operetta morale “Dialogo di Plotino e di Porfirio” del 1827. Ora dopo la bufera amorosa, Leopardi, riscrive tutto ciò in forma ancor più drammatica, accusando sempre la natura, alla quale aggiunge una ulteriore accusa: perché la natura non rende il momento della morte a tutti “più lieto”? La poesia, o meglio il canto, è una lirica che esprime in modo sublime la protesta del Leopardi contro la Natura che ha il solo scopo, secondo il poeta, della conservazione della specie ed è indifferente alla felicità del singolo. Il Leopardi dunque in questa poesia sposta il suo interesse verso la vita, sconfiggendo, una volta per sempre, l’idea del suicidio. Anche Ugo Dotti dice che il Leopardi in questa poesia ha un ripensamento rispetto al celebre detto di Menandro posto in epigrafe al canto “Amore e Morte” (Muore giovane colui che al cielo è caro). Leopardi allontana definitivamente l’idea del suicidio perché è ormai fuori dalla tempestosa bufera amorosa, e vive nelle agitate acque delle giornate napoletane, affrontando i problemi della vita quotidiana. (Da G. Leopardi Canti a cura di Ugo Dotti. Pagg. 129 – 130).

Testo della poesia

“Sopra un basso rilievo antico sepolcrale
dove una giovane morta è rappresentata
in atto di partire, accomiatandosi dai suoi”

Dove vai? chi ti chiama
lunge dai cari tuoi,
bellissima donzella?
Sola, peregrinando, il patrio tetto
sì per tempo abbandoni? a queste soglie
tornerai tu? farai tu lieti un giorno
questi ch’oggi ti son piangendo intorno?

Asciutto il ciglio ed animosa in atto,
ma pur mesta sei tu. Grata la via
o dispiacevol sia, tristo il ricetto
a cui movi o giocondo,
da quel tuo grave aspetto
mal s’indovina. Ahi ahi, né già potria
fermare io stesso in me, né forse al mondo
s’intese ancor, se in disfavore al cielo
se cara esser nomata,
se misera tu debbi o fortunata.

Morte ti chiama; al cominciar del giorno
l’ultimo istante. Al nido onde ti parti,
non tornerai. L’aspetto
de’ tuoi dolci parenti
lasci per sempre. Il loco
a cui movi, è sotterra:
ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno.
Forse beata sei; ma pur chi mira,
seco pensando, al tuo destin, sospira.

Mai non veder la luce
era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
che reina bellezza si dispiega
nelle membra e nel volto,
ed incomincia il mondo
verso lei di lontano ad atterrarsi;
in sul fiorir d’ogni speranza, e molto
prima che incontro alla festosa fronte
i lùgubri suoi lampi il ver baleni;
come vapore in nuvoletta accolto
sotto forme fugaci all’orizzonte,
dileguarsi così quasi non sorta,
e cangiar con gli oscuri
silenzi della tomba i dì futuri,
questo se all’intelletto
appar felice, invade
d’alta pietade ai più costanti il petto.

Madre temuta e pianta
dal nascer già dell’animal famiglia,
natura, illaudabil maraviglia,
che per uccider partorisci e nutri,
se danno è del mortale
immaturo perir, come il consenti
in quei capi innocenti?
Se ben, perché funesta,
perché sovra ogni male,
a chi si parte, a chi rimane in vita,
inconsolabil fai tal dipartita?

Misera ovunque miri,
misera onde si volga, ove ricorra,
questa sensibil prole!
Piacqueti che delusa
fosse ancor dalla vita
la speme giovanil; piena d’affanni
l’onda degli anni; ai mali unico schermo
la morte; e questa inevitabil segno,
questa, immutata legge
ponesti all’uman corso. Ahi perché dopo
le travagliose strade, almen la meta
non ci prescriver lieta? anzi colei
che per certo futura
portiam sempre, vivendo, innanzi all’alma,
colei che i nostri danni
ebber solo conforto,
velar di neri panni,
cinger d’ombra sì trista,
e spaventoso in vista
più d’ogni flutto dimostrarci il porto?

Già se sventura è questo
morir che tu destini
a tutti noi che senza colpa, ignari,
né volontari al vivere abbandoni,
certo ha chi more invidiabil sorte
a colui che la morte
sente de’ cari suoi. Che se nel vero,
com’io per fermo estimo,
il vivere è sventura,
grazia il morir, chi però mai potrebbe,
quel che pur si dovrebbe,
desiar de’ suoi cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d’in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt’anni insieme,
e dire a quella addio senz’altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all’ore ai lochi usati
rimemorar la scorsa compagnia?
Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
di strappar dalle braccia
all’amico l’amico,
al fratello il fratello,
la prole al genitore,
all’amante l’amore: e l’uno estinto,
l’altro in vita serbar? Come potesti
far necessario in noi
tanto dolor, che sopravviva amando
al mortale il mortal? Ma da natura
altro negli atti suoi
che nostro male o nostro ben si cura.

Parafrasi della canzone libera.

“Sopra un basso rilievo antico sepolcrale
dove una giovane morta è rappresentata
in atto di partire, accomiatandosi dai suoi”

Dove vai, bellissima fanciulla?
(raffigurata nel bassorilievo)
Chi ti chiama lontano dai tuoi cari?
Abbandoni tu sola, allontanandoti,
la cara casa così prima del tempo?
Ritornerai nel mondo dei vivi?
Tu farai felici un giorno costoro,
che ora ti stanno intorno piangendoti?

Con gli occhi asciutti e con uno sguardo coraggioso,
tu, pur tuttavia, sei triste. Se la strada
sia piacevole o dispiacevole,
se il rifugio nel quale tu vai,
sia triste o allegro, dal grave tuo aspetto
si indovina con difficoltà.
Io, da solo, non posso stabilire con certezza,
né al mondo si è riusciti ancora a capire,
se tu debba essere considerata caduta
in disgrazia o cara al cielo,
se tu debba essere considerata
misera o fortunata.

La morte ti chiama; quando stavi per
fiorire ecco che è giunto l’ultimo istante.
Non tornerai più alla casa dalla quale esci.
Non vedrai più la vista dei tuoi cari genitori.
Il luogo dove tu vai è sottoterra e
il tuo soggiorno là sarà in eterno.
Forse tu sarai beata; ma se qualcuno guarda,
e pensa tra sé e sé, al tuo destino, si affligge
di commiserazione e di dolore.

La miglior cosa sarebbe stata, credo, non
nascere mai. Ma una volta nati, tutto si dilegua
quando la bellezza si dispiega regalmente
nel corpo e nel volto, quando la vita
si inchina verso la fanciullezza;
quando spunta ogni speranza, e prima che
la triste realtà scagli le sue lugubre disgrazie
nella festosa fronte della fanciulla;
come una nuvoletta sotto forme labili,
formatasi all’orizzonte,
scompare rapidamente,
così tu sei dileguata rapidamente,
quasi se non fossi mai nata,
e tanto fulmineamente i tuoi giorni futuri
si cambiarono nei cupi silenzi della tomba.
Se tutto questo è accettabile per l’intelletto,
tanto che porterebbe logicamente al suicidio,
altrettanto è doloroso per il cuore,
che viene invaso da profondo dolore,
ma fa desistere dal suicidio.

O Madre Natura, tu sei temuta e porgi pianto
a tutti gli esseri viventi fin dal loro nascere.
Natura, non laudabile meraviglia, tu sei quella
che dai la luce e nutri per uccidere;
se il morire prematuro è dannoso agli uomini
perché permetti che ciò accada per
i giovani innocenti?
Se il morire prematuro è, invece, un bene,
perché è funesto, perché libera da ogni
male, perché fai diventare la morte
così dolorosa e straziante?

Questa umanità sensibile è misera
ovunque guardi, ovunque si volga,
ovunque chieda soccorso.
Ti piacque a te, o Natura,
che le speranze giovanili
fossero deluse e disattese anche dalla vita;
ti piacque che la fuga del tempo
fosse piena d’affanni;
ti piacque che la morte fosse l’unica difesa ai mali:
e hai posto la morte come limite insuperabile,
come legge immutabile della vita umana.
Ahi perché dopo le disgrazie della vita, tu natura,
almeno potevi prescriverci una morte più lieta?
Anzi perché velare di neri panni colei,
che noi portiamo sempre nella nostra anima,
vivendo, certi della sua futura presenza?
Anzi perché cingerci di animo così triste?
Perché farci vedere il momento della morte
più spaventoso di tutte le disgrazie della vita?

Ora dal momento che morire è sventura,
ora che tu ci destini a noi mortali, che siamo ignari
e senza colpa, la morte e che ci abbandoni alla via,
senza nostra volontà,
allora chi muore ha una invidiabile sorte,
rispetto a colui che prova il dolore
per il suo scomparso.
Se tutto questo è vero,
come io ritengo che sia vero,
se il vivere è sfortuna e una disgrazia,
se il morire è fortuna e un dono,
chi può desiderare la morte dei suoi più cari,
per vedere lui rimanere solo,
per vedere dalla porta di casa la partenza
della sua persona amata,
con la quale ha passato molti anni insieme
per dire a lei addio ed è certa
che non la potrà incontrare ancora
nella vita terrena; e
poi rimasto solo e abbandonato sulla terra,
guardandosi attorno a ricordare la persona
scomparsa nel tempo e nei luoghi noti?
Come, ahi come, o Natura hai il coraggio
di strappare dalle braccia
l’amico all’amico,
il fratello al fratello,
il figlio al padre,
l’amato all’amante e hai il coraggio
di conservare un morto e l’altro conservarlo vivo?
Come hai potuto far sì che noi mortali
portassimo dentro tanto dolore,
tale che il mortale che sopravvive ad esso
continui ad amare il mortale?
Ma la natura nelle sue mire ha ben altro da fare
che curarsi del nostro male o del nostro bene.

 

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Modica 01/09/2018                                                             Prof. Biagio Carrubba

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