INTRODUZIONE ALLA CANZONE LIBERA “LA GINESTRA” (CANZONE N. XXXIV) DI G. LEOPARDI.

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INTRODUZIONE ALLA CANZONE LIBERA “LA GINESTRA”
(CANZONE N. XXXIV) DI G. LEOPARDI.

Leopardi compose questa canzone libera nella primavera del 1836 a Torre del Greco, presso Napoli, durante il suo soggiorno nella villa Ferrigni per scampare dal colera che infuriava a Napoli. “LA GINESTRA” è un lungo componimento poetico, il quale unito al “Tramonto della luna”, compone un dittico, quasi gemello, nel quale il Leopardi sintetizza, in modo chiaro e completo, tutto il suo pensiero filosofico e la sua Weltanschauung. “La Ginestra” è sicuramente una canzone poetica di largo fascino e suggestione per l’intensità del suo messaggio di fratellanza, per il lungo e stringente ragionamento filosofico, per l’intensità del discorso poetico e per il pathos che la sostiene che fa pensare, secondo me, alla stessa drammaticità de “IL GIUDIZIO UNIVERSALE” di Michelangelo Buonarroti. Ambedue i capolavori hanno parecchi punti in comune e principalmente il tema del giudizio universale che nella poesia è accennato nell’ultima strofa, nella quale la gentile ginestra verrà annientata dalla lava del Vesuvio che simboleggia la natura distruttrice. Con questa visione apocalittica il Leopardi riprende immagini sulla fine del mondo che aveva già descritto nelle “OPERETTE MORALI”, come il “DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE”.
E il futuro del verbo piegare (piegherai) sottintende il participio passato dello stesso verbo (non piegato) del verso 307 e chiarisce anche il verso “futuro oppressore”. Apocalissi tutta terrena, dove non ci sarà l’intervento di Dio, a cui, credo, il Leopardi non credeva, teoricamente e logicamente, ma a cui credeva umanamente e sentimentalmente, come si evince chiaramente nell’ultima lettera scritta al padre appena 18 giorni prima di morire. Il Leopardi chiude questa lettera proprio richiamandosi a Dio, quando scrive: “Ringrazio teneramente Lei e la mamma del dono di dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Il suo amorosissimo figlio Giacomo” (Da Napoli 27 maggio 1837 a Monaldo Leopardi – Recanati – Da Leopardi Tutte le poesie e le prose – I Mammut – Newton Editore – Pag. 1445). Purtroppo questo ultimo desiderio di Leopardi non fu esaudito perché morì il 14/ 06/ 1837 intorno alle ore 17:00, come riporta il suo fraterno amico Antonio Ranieri.

Testo della canzone “LA GINESTRA”

Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor nè fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama se nè stima
ricco d’or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma se di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così, qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel, profondo
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontano l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all’aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri, per li templi
deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino,
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

Parafrasi della canzone “LA GINESTRA”.
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

Qui sulla brulla pendice
del terrificante e
distruttore monte Vesuvio,
dove nessun albero e nessun fiore fiorisce,
tu spargi intorno i tuoi cespugli solitari,
o profumata ginestra,
contenta dei deserti. Ti ho già vista
abbellire con i tuoi rami le solitarie contrade
che circondano la città (Roma),
che fu, in passato, signora degli uomini,
e pare che queste campagne solitarie,
ricordano, con il loro aspetto solenne e taciturno,
a chi passa, testimonianza
della grandezza passata del perduto impero.
Ora ti rivedo in questo suolo desolato,
amante di luoghi tristi e abbandonati,
e sempre compagna di destini infelici.
Ti rivedo in questi campi cosparsi
di ceneri sterili e ricoperti
di lava pietrificata,
che risuona sotto i passi del viandante;
questi campi, dove la serpe si annida e si contorce al sole
e dove il coniglio torna alla consueta tana,
furono poderi ridenti e coltivazioni, che
biondeggiarono di spighe e risuonarono
dei muggiti di armenti;
questi campi furono giardini e palazzi,
soggiorno gradito per i riposi dei potenti
e in questi campi vi fiorirono città popolose
che il monte indomabile (Vesuvio)
ricoprì con i suoi torrenti di lava,
insieme agli abitanti, lanciando fiamme
dalla bocca infuocata. Ora, un’unica distruzione
abbraccia tutto intorno dove tu stai, o fiore gentile,
e quasi, tu, commiserando le disgrazie degli altri,
mandi al cielo un profumo dolcissimo
che consola il deserto. Chi
è solito esaltare, con le sue lodi, la nostra condizione (umana)
venga in queste campagne, e veda quanto
il nostro genere umano è caro (sarcasmo del poeta)
alla natura affettuosa. E chi verrà potrà anche
valutare, con giusta misura, la forza della stirpe umana,
che, in un momento, con un leggero movimento,
la crudele nutrice distrugge in parte
e quando meno se lo aspetta;
con movimenti poco meno leggeri la crudele nutrice
potrà distrugge tutto.
Chi verrà, vedrà raffigurate,
in queste terre desolate, le magnifiche
e progressive sorti dell’umana gente.

Amara ironia del poeta contro i nuovi credenti, contro gli amanti del piacere e contro i faciloni che affermano che ogni male verrà superato e contro i cattolici che credono che Dio salverà e donerà la felicità agli uomini.

II

Guarda e specchiati qui,
o secolo superbo e sciocco (XIX secolo),
che hai abbandonato il risorto pensiero risorgimentale
e l’illuminismo e ti vanti di questo ritorno indietro
che tu chiami progresso.
Tutti gli ingegni di cui la loro sorte
ti fece padre adulano, continuamente,
il tuo comportamento puerile,
benché, talora, ti abbiano in disprezzo
dentro di loro. Io non scenderò sottoterra
con tale vergogna, ma piuttosto avrò mostrato
per quanto è possibile esplicito il disprezzo
verso te che è racchiuso nel mio petto
benché io sappia che l’oblio fa dimenticare
chi ha dato troppo fastidio al proprio tempo.
Di questo male, che sarà per me comune con te,
fin da ora non mi curo affatto.
Vai sognando la libertà e contemporaneamente
vuoi di nuovo il pensiero asservito a te,
e disprezzi il pensiero del Risorgimento, proprio quello
soltanto grazie al quale siamo risorti,
in parte, dalla barbarie, e soltanto grazie al quale
si progredisce in civiltà,
la quale solamente guida i destini collettivi
verso il meglio. Ti è dispiaciuta la filosofia vera
a tal punto non hai accettato la verità
sul destino infelice e sul luogo misero
che la natura ci ha assegnato.
Per questo motivo rivolgesti, tu secolo superbo e sciocco,
vigliaccamente, le spalle alla luce che rese
palese ciò (filosofia rinascimentale); e mentre torni indietro,
definisci vile chi segue l’illuminismo, e chiami
nobile e magnanimo soltanto colui che, prendendo in giro
sé stesso e gli altri, per furbizia o per astuzia,
esalta la sorte degli uomini al di sopra delle stelle.
Il poeta fa riferimento ai nuovi credenti e cattolici che, con la loro presunzione, esaltano il progresso, dimenticando tutti i mali che la natura infligge agli uomini.

III

Un uomo di condizione umile e di corpo malato, ma
che sia generoso e nobile d’animo
non si definisce, né si considera,
ricco d’oro o robusto,
e non fa tra la gente un’esibizione ridicola
di vita dispendiosa o di fisico sano;
ma senza vergogna si mostra, e si dichiara
apertamente, privo di forza e
di ricchezza, e valuta la sua condizione
rispettando la verità.
Io credo che sia un uomo stupido,
e non intelligente, quello che,
nato per morire e per vivere tra i dolori,
dice – sono fatto per godere –
e riempie i suoi scritti di orgoglio disgustoso,
desiderando sulla terra destini meravigliosi e
felicità sconosciute; destini e felicità non sono conosciute,
non solo in questo mondo ma nell’universo intero,
e basta l’onda di un maremoto,
un alito di aria contaminata (epidemia),
un crollo sotterraneo (terremoto)
per distruggere tutto al punto
che di essi (dei popoli) resta a gran fatica il ricordo.
È invece un carattere nobile quello che
osa sollevare gli occhi mortali
verso il destino comune,
e con parole sincere, senza togliere
nulla alla verità, accetta il male
e la condizione umile e fragile
che ci sono state assegnate in sorte;
è un carattere nobile, quello che si
mostra grande e forte nel soffrire,
e non aggiunge alle proprie sofferenze
gli odi e le ire fraterne ancora più gravi
di ogni altro danno e non incolpa l’uomo
del proprio dolore, ma dà la colpa
a chi è veramente colpevole,
a chi è madre degli uomini quando li genera
e matrigna per come li tratta.
L’uomo nobile chiama costei nemica; pensando che
la società umana sia associata e organizzata
fin dal principio contro la natura matrigna,
così come è in realtà, l’uomo nobile considera
gli uomini tutti alleati fra di loro,
e abbraccia tutti con amore autentico,
porgendo e aspettando aiuti validi e tempestivi
nei pericoli alterni e nelle sofferenze della
guerra comune.
L’uomo nobile di spirito e di pensiero,
reputa sciocco armare la mano
contro gli altri uomini, e porre
ai vicini trappole e ostacoli,
così come succederebbe se, in un accampamento
assediato da truppe nemiche, durante
il più violento incalzare degli assalti,
dimenticando i nemici,
l’uomo intraprendesse feroci scontri con gli amici,
e provocasse la fuga dei propri guerrieri colpendo con la spada.
Quando pensieri come questi saranno,
come già furono, evidenti al popolo,
e quando il terrore, che in origine unì gli uomini
in un’alleanza sociale contro la natura malvagia,
sarà riportato in parte da un sapere veritiero,
allora l’onesto e leale consorzio civile,
la giustizia e la solidarietà saranno guidati
da altre e giuste idee e non dalla falsa e stupide
credenze religiose che oggi governano la sapienza
e la saggezza degli uomini;
il sapere degli uomini fondato sul sapere veritiero
sta di solito tanto più solido di quanto può stare
quello che ha il fondamento sull’errore.
Leopardi critica le idee della restaurazione politica e le credenze religiose dei cattolici.

IV

Spesso di notte siedo in questi campi
desolati che il corso indurito della lava
ricopre di nero, e sembra che i
flussi pietrificati ondeggino;
sul triste paesaggio vedo dall’alto
scintillare le stelle, nel cielo limpidissimo,
alle quali in lontananza fa da specchio il mare,
e vedo intorno il mondo intero brillare di luci
nei vuoti spazi celesti. Dopo che fisso
gli occhi su quelli luci, che a essi (agli occhi) sembrano
un punto, e invece sono immense, così che
la terra e il mare sono veramente un punto
rispetto a loro; alle quali stelle è del tutto
sconosciuto non soltanto l’uomo, ma anche
questo pianeta sul quale l’uomo è nulla;
e quando osservo quella specie di ammassi
di stelle ancor più infinitamente lontani,
che a noi appaiono simili a nebbia, a cui
non solo l’uomo e la terra, ma tutte insieme
le nostre stelle, infinite di numero e di mole,
insieme al sole dorato, o sono ignote o
appaiono così come essi alla terra, cioè un punto
di luce nebulosa; di fronte a questi spazi immensi,
stirpe dell’uomo, che cosa sembri al mio pensiero?
E ripensando al tuo stato quaggiù, (stirpe dell’uomo)
di cui è testimonianza il suolo che io
calpesto e ripensando d’altra parte che tu ti
credi assegnata all’universo, quale padrona e
scopo, e ripensando a quante volte hai voluto
fantasticare che gli dei scendessero per te in questo
sconosciuto granello di sabbia che ha il nome
di terra e conversassero piacevolmente con i tuoi simili,
e che perfino il tempo presente, che in conoscenze
e in civiltà sembra superare tutte le altre, ha riesumato
le antiche credenze medievali che offendono
i saggi rilanciando questi miti già derisi;
dunque infine quale sentimento o quale pensiero
mi stringe il cuore verso di te, o infelice razza umana?
Non so se io debba far prevalere il riso o la pietà.

V

Come un piccolo pomo, che nell’autunno inoltrato
la maturità senza altra forza fa crollare proprio là,
cadendo da un albero schiaccia, annienta e seppellisce
di colpo i cari ricoveri di una colonia di formiche,
scavati con gran lavoro nella terra, e insieme
le costruzioni e le ricchezze che gli animali tenaci
avevano, con lunga fatica, radunato a gara durante l’estate;
così (la lava) piombando dall’alto, dopo essere stata lanciata
verso il cielo più alto, la oscura distruzione di ceneri,
di pomici, di lapilli e di sassi, mescolata di ruscelli bollenti,
o un’immensa piena di massi fusi e di metalli e
di sabbia infuocata, scendendo lungo la parete del monte
con violenza tra l’erba travolse, distrusse e ricoprì
in pochi istanti le città che il mare bagnava là sulla costa
più lontana: per cui ora su quelle città pascola la capra,
e dalla parte opposta sorgono nuove città, a cui quelle
sepolte fanno da sgabello, e il monte ostile sembra
minacciare alla propria base le mura abbattute.
La natura non riserva più stima o attenzione
al genere umano che alle formiche: e se la strage
è più rara nel genere umano che nelle formiche,
ciò non avviene per altra ragione se non che
l’uomo ha le proprie generazioni meno feconde.

VI

Sono trascorsi ben mille ed ottocento anni
da quando i centri abitati sparirono, sepolti
dalla forza del fuoco, e il misero contadino,
dedito ai vigneti, che in questi campi la terra
morta e bruciata nutre a stento, ancora solleva
lo sguardo timoroso verso la vetta funesta,
la quale, per nulla divenuta più mite,
ancora sorge tremenda, ancora minaccia
distruzione a lui, ai suoi figli ed ai loro miseri beni.
E spesso il poveretto, stando tutta la notte insonne
all’aria aperta sul tetto della sua abitazione rustica,
e balzando più volte in piedi, controlla il corso
della lava temuta, che si riversa dalle viscere
instancabili sul fianco arido, al cui riflesso
brilla la costa di Capri e il porto di Napoli e Mergellina.
E se lo vede avvicinare (il corso della lava),
o se nel fondo del pozzo domestico
ode per caso l’acqua bollire per il calore,
sveglia i figli, sveglia in fretta la moglie,
e fuggendo via con quanto possono afferrare
delle loro cose, vede in lontananza la sua abitazione
consueta, e il piccolo campo, che fu per lui
unico riparo contro la fame, preda del liquido rovente
che giunge crepitando, e inesorabile si distende
per sempre sopra di essi.
La distrutta Pompei torna alla luce del sole dopo
l’antico oblio, come uno scheletro sepolto,
che l’avidità o la pietà restituisce all’aperta terra;
e dal foro deserto il visitatore in piedi tra le file
dei colonnati troncati contempla in lontananza
la vetta divisa e la cima fumante, che ancora
minaccia le rovine sparse.
E nell’orrore della notte oscura
il bagliore della lava luttuosa, che in lontananza
rosseggia attraverso le tenebre e tinge
i luoghi tutt’intorno, come una torcia lugubre
che si aggira tenebrosa attraverso palazzi disabitati,
corre tra i teatri deserti, tra i templi sformati e tra
le case distrutte, dove il pipistrello nasconde i figli.
Così la natura resta sempre giovane, incurante dell’uomo
e delle epoche che egli chiama antiche, incurante
del succedersi delle generazioni da padri a nipoti,
e anzi si muove per una via così lunga che sembra stare immobile.
Intanto cadono i regni, passano i popoli e i linguaggi
ma di tutto ciò ella non se ne avvede:
eppure l’uomo pretende il vanto di essere eterno.

VII

E tu, flessibile ginestra,
che adorni di selve profumate questi campi spogli,
anche tu soccomberai presto alla crudele potenza
del fuoco sotterraneo, che ritornando ai luoghi già noti,
distenderà il suo mantello serrato sui tuoi cespugli cedevoli.
E allora piegherai senza ribellarti la tua chioma innocente
sotto il peso mortale: ma non la avrai piegata invano
fino allora per supplicare vigliaccamente davanti
al tuo futuro oppressore; ma non la avrai innalzata
con orgoglio folle né verso le stelle né contro il deserto,
dove sia la sede sia la nascita hai avuto non per scelta
ma per caso; ma tu sei tanto più saggia dell’uomo,
perché non sei, come lui, malata di orgoglio,
in quanto non credesti che i tuoi
fragili arbusti furono fatti immortali
né dal fato né da te stessa.

Il tema della canzone libera “LA GINESTRA”.

Il tema di questo grande componimento poetico è, ancora una volta, un veemente attacco sferrato “contra l’empia natura” (verso 149), la quale “veramente è rea, che de’ mortali/madre è di parto e di voler matrigna” (vv.124-125). Il tema della natura si dipana lungo tutto il componimento: nella prima strofa la natura può, con movimenti poco più che lievi, annullare il genere umano; nella seconda strofa, Leopardi critica la filosofia dei moderati liberali cattolici i quali non vogliono accettare il posto che la natura ha dato al genere umano “Così ti spiacque il vero/ dell’aspra sorte e del depresso loco/che natura ci diè” (vv. da 78 a 80). Nella terza strofa il Leopardi fa una importante distinzione tra falsa coscienza e coscienza reale. La falsa coscienza è quella di chi “nato a perir, nutrito in pene, /dice – a goder son fatto” (vv. da 99 a101) si crea tante illusioni sia sulla felicità terrena sia sulla felicità ultraterrena; la coscienza reale, invece, è quella dell’uomo povero e malato ma dall’anima generosa ed alta che non si stima diverso da quello che è. Chi accetta la condizione misera dell’umanità su questa terra e osa guardare la comune nemica, cioè l’empia natura, degli uomini e che con parole sincere, senza togliere nulla al vero, dichiara e accetta il male che ci è stato assegnato in sorte e la dolorosa e fragile condizione umana. Ma proprio in questa strofa il Leopardi aggiunge una soluzione su come l’umanità potrebbe vincere “l’empia natura” e cioè confederandosi tra di sé; ogni uomo dovrà dare il proprio aiuto agli altri per vincere la natura e per creare una nuova società basata sulla conoscenza della verità e non su conoscenze favolistiche. Nella quarta strofa la natura diventa lo spettacolo immenso e straordinario dell’infinità delle galassie agli occhi del poeta. Il Leopardi, guardando le alte lontane stelle, di fronte alle quali la nostra via lattea è soltanto un punto, si domanda: “al pensier mio/che sembri allor, o prole/dell’uomo?” (vv. Da 183 a 185) e riflettendo che l’umanità ha favoleggiato credendosi la padrona e il fine della terra e che l’ultima civiltà che si crede più progredita rispetto al passato ripropone le idee religiose già derise dalla filosofia dei lumi, allora conclude: “qual moto allora, / mortal prole infelice, o qual pensiero/verso di te finalmente il cor m’assale? /Non so se il riso o la pietà prevale” (vv. Da 198 a 201). Nella quinta strofa, con una lunga similitudine, la natura diventa la protagonista assoluta: essa tratta allo stesso modo sia l’umanità che le altre specie di animali. Come un piccolo pomo, cadendo da un albero, schiaccia, annienta e seppellisce una colonia di formiche, che aveva con lunga fatica raccolto durante l’estate i suoi beni, così la lava del Vesuvio, con una sua eruzione distruttrice, travolse e distrusse in pochi istanti le città che si affacciavano sul mare. Ora sulle macerie delle vecchie città la pecora pascola e le nuove città sono sorte sopra quelle sepolte che fanno da sgabello alle nuove. E se la strage è più frequente nelle formiche che negli uomini, ciò è dovuto soltanto al fatto che gli uomini hanno le proprie generazioni meno feconde. Nella sesta strofa la natura occupa un posto di rilievo. Essa, attraverso il Vesuvio, porta distruzione a tutti e in tutti i tempi: sono passati ben mille e ottocento anni da quando le città romane sparirono, ma ancora oggi la lava è temuta dal contadino che vive su queste aride terre. Il contadino, ancora oggi, guarda la cima del vulcano per controllare se la temuta lava comincia a scendere dalla vetta e, se sente bollire l’acqua del pozzo, sveglia la moglie e i figli e, scappando in fretta e furia, guarda da lontano la casa e il piccolo campo che gli fecero da difesa dalla fame e vede la lava giungere e inesorabile posarsi sopra di essi. Anche il forestiero, che di notte guarda dall’estinta Pompei, la cima del Vesuvio vede il bagliore della lava luttuosa scendere dalla vetta e attraversare le vie della città risorta, i templi deformi e i vuoti palazzi e vede da lontano il bagliore rosso che, come una fiaccola lugubre, tinge di rosso i luoghi d’intorno. La natura, ignara dell’uomo e del tempo che passa, che egli chiama antico per il susseguirsi delle sue generazioni, resta sempre attiva e pronta a distruggere e procede così lentamente che sembra stare ferma. Intanto cadono i regni, gli uomini muoiono, i linguaggi spariscono e la natura non si accorge del passare del tempo, e nonostante ciò l’uomo pretende di essere immortale. Nella settima, ed ultima strofa, la natura diventa la coprotagonista insieme alla Ginestra che diviene la protagonista dell’intero componimento poetico. La Ginestra diventa il simbolo sia del poeta sia dell’umanità intera la quale deve comportarsi come farà la Ginestra, che non supplicherà il Vulcano di lasciarla vivere e non resisterà con un orgoglio forsennato alla sua violenza distruttrice, quando starà per essere annientata dalla lava del Vesuvio; la ginestra sarà tanto più saggia dell’uomo, poiché non ha mai creduto che la sua vita fu fatta immortale, né dalla natura né da Dio.

Sintesi della Canzone libera “La Ginestra”.

La sintesi della “Ginestra” sviluppa il lungo ragionamento filosofico del Leopardi, ma soprattutto è una violenta accusa che il poeta fa contro il pensiero filosofico dei moderati liberali in nome della sua pessimistica filosofia, “dolorosa, ma vera”. Nella prima strofa il Leopardi parte dalla constatazione della presenza della Ginestra nelle terre desolate del Vesuvio rallegrate dal suo odore profumato. La Ginestra diventa subito il simbolo della lotta dell’umanità contro la natura e della sopravvivenza dell’uomo contro il passare del tempo che trasforma ogni cosa. La Ginestra è il fiore che accompagna il trascorrere del tempo, è amica degli spazi desolati e tristi e testimonia la grandezza dell’impero di Roma. Ora la Ginestra ricopre quei campi che un tempo furono terreni fertili e floridi, pieni di palazzi e dimore gradite per il riposo dei potenti; i campi furono ricoperti da città famose che il Vulcano ricoprì con la sua lava insieme ai suoi abitanti e la Ginestra manda un profumo al cielo che consola questi luoghi desolati. Inizia qui, da parte del poeta, la critica e la violenta accusa contro l’ottimistica filosofia dei cattolici liberali. Venga qui chi vuol vedere la condizione misera dell’umanità e qui potrà vedere anche quanto la natura ha, a cuore, il genere umano, che la dura matrigna può annientare con improvvisi sussulti sotterranei. In queste terre le magnifiche sorti e progressive dell’umanità sono ben visibili. Nella seconda strofa il Leopardi si scaglia direttamente contro la filosofia dei cattolici liberali, fiduciosi nel progresso dell’umanità, sorretto dal progredire dalla scienza. Rivolgendosi direttamente al XIX secolo il Leopardi lo accusa di aver abbandonato la via del pensiero rinascimentale che aveva aperto la strada al pensiero illuministico che a sua volta aveva distrutto la barbarie della civiltà medioevale. Ora invece il nuovo pensiero dei cattolici liberali fa marcia indietro e chiama “avanzare” questo che è, invece, regresso culturale e filosofico. Il Leopardi a questo punto proclama la sua estraneità all’infantile pensiero cattolico e dice che lui non morirà con questa vergogna; il poeta vuole inoltre manifestare tutto il suo disprezzo verso il secolo superbo e sciocco prima di morire, ben sapendo che sarà dimenticato chi troppo al suo tempo dispiacque. Tu, o secolo superbo e sciocco, vai cercando la libertà politica e sociale, ma sei servo di utopie umanitarie e credenze religiose, e hai abbandonato il pensiero illuministico che ha superato, in parte, la barbarie medioevale e che da solo ha risollevato la civiltà che guida il progresso civile e sociale. E tu, secolo, non hai accettato la verità che il pensiero illuministico ha messo in chiaro e cioè l’aspra sorte e il depresso luogo che la natura ha assegnato all’umanità. Per questo motivo, tu secolo, hai voltato le spalle alla luce della filosofia dei lumi e chiami vile, chi segue la filosofia illuministica, e nobile chi, per follia o per astuzia, innalza il livello degli uomini fin sopra le stelle. Nella terza strofa il Leopardi traccia la grande distinzione tra l’uomo dalla coscienza reale e l’uomo dalla falsa coscienza. Il primo è quello che accetta la sua condizione misera e malata, senza false illusioni sul suo destino ultraterreno e anzi parte proprio da questa condizione per unirsi a tutta l’umanità per vincere la natura. Il secondo è l’uomo che misconosce le sorti dell’umanità e che persegue felicità straordinarie, che sono sconosciute, non solo all’umanità, ma a tutto l’universo. Il Leopardi conclude dicendo che solo su una conoscenza vera si può costruire una nuova società, dove l’onesto e leale consorzio civile, la giustizia e la solidarietà avranno ben altro fondamento che non le favole superbe della religione, sulle quali la civiltà del popolo è di solito tanto solida quanto può stare ciò che ha il fondamento sull’errore. Nella quarta strofa il Leopardi si scaglia contro l’illusione e l’utopia dell’antropocentrismo. Il poeta si siede dall’alto a contemplare il cielo stellato e vede le innumerevoli galassie rispetto alle quali la terra e il mare non sono che un punto, così come le galassie appaiono alla terra. Di fronte a questa piccolezza della terra e degli uomini sperduti nell’universo, allora che cosa diventa l’umanità? Niente. E se a questa pretesa degli uomini si aggiunge anche la presuntuosità dell’umanità di voler essere la padrona e il fine della terra, umanità che ha immaginato che gli Dèi siano venuti quaggiù per parlare con lei e che pensa, perfino che la presente civiltà sia la più avanzata, allora un sentimento di ripulsa e di commiserazione e un pensiero di scherno assale il poeta, che non sa se in lui prevalga il riso di scherno o la pietà verso l’umanità. Nella quinta strofa il poeta delinea una lunga similitudine per dimostrare come la natura sia indifferente ed imparziale nei confronti di tutti gli esseri viventi. Come un pomo, cadendo da un albero schiaccia e uccide una popolazione di formiche a loro insaputa, così il Vesuvio distrusse le antiche e ricche città che il mare bagnava. Ora su queste terre desolate sorgono altre città e il vulcano, ancora oggi, calpesta le antiche mura. La natura distrugge indifferentemente tutto e se la distruzione è più frequente tra le formiche e non tra gli uomini ciò, conclude il poeta, è dovuto soltanto al fatto che gli uomini si generano più lentamente delle formiche. Nella sesta strofa il poeta se la prende anche con l’illusione del passare del tempo che è talmente veloce che ciò che successe ieri può ripetersi ancora oggi. Il povero contadino guarda la vetta del vulcano perché ha paura che si possa ripetere una nuova eruzione che distrugga il suo campicello e la sua modesta abitazione; se sente ribollire l’acqua del pozzo allora sveglia i suoi figli e sua moglie per scappare insieme dalla lava, che giungendo, si solidifica sopra i suoi beni. Anche il forestiero, che guarda dalla piazza di Pompei la cima del Vulcano, vede il bagliore della lava che attraversa la città, come una torcia sinistra che attraversa i palazzi vuoti e rosseggia in tutti i luoghi intorno ad essa. Intanto i popoli scompaiono, le lingue spariscono e la natura ignara dell’umanità e del passare del tempo si evolve così lentamente che sembra stare immobile. Ma l’umanità in mezzo a tanta indifferenza della natura si proclama eterna.
Nell’ultima strofa il poeta, dopo aver supposto, nelle strofe precedenti, la stoltezza e la superbia dell’umanità, quasi per un senso di orgoglio, si ravvisa, e con un colpo di bontà, si rivolge di nuovo alla Ginestra che di fronte alla distruzione passata, imminente e futura, diviene l’allegoria del poeta stesso e dell’umanità, la quale, solo comportandosi come la Ginestra, potrà sopravvivere alla natura. La Ginestra sarà annientata dalla potenza distruttrice della lava, ma si piegherà senza invocare la misericordia del vulcano, né si eleverà con forsennato orgoglio di fronte alla natura, perché da essa sarà annientata e perché sa che, né da Dio, né da sé stessa, ha ricevuto l’immortalità, a differenza dell’uomo che ha la presunzione di credersi immortale.

Il messaggio della Canzone libera “La Ginestra”.

Io, Biagio Carrubba, credo che questa nota positiva sia veramente troppo poco nel gran mare del pessimismo della filosofia leopardiana. Io credo invece che il messaggio centrale della “Ginestra” sia questo: l’uomo deve combattere la natura, ma già sa che perderà la guerra, perché sarà distrutto da essa. L’umanità è e resterà sempre infelice fino al giorno della distruzione totale e definitiva della terra, che nessun Dio potrà mai salvare, oppure solo un Dio potrà salvarla. Se c’è molta retorica in questa canzone è proprio in questa parte del componimento poetico, che al Leopardi serve soprattutto per mettere in primo piano le sue tesi.

La tesi della canzone libera “La Ginestra”.

La tesi della canzone libera è scritta e sintetizzata nell’ultima strofa: gli uomini devono comportarsi come l’umile Ginestra. Come la Ginestra affronterà la propria morte, né senza codardia, né senza forsennato orgoglio, così l’umanità dovrà affrontare la propria distruzione, né senza viltà, né senza folle orgoglio. Anch’io, Biagio Carrubba, trovo questo tema della resistenza alla natura molto eroico e titanico, ma credo che solo Dio ci potrà salvare dalla immensa potenza distruttrice della natura. Oggi l’umanità sta distruggendo la natura, ma la natura, morendo, distruggerà l’umanità se Dio non interverrà per salvarla da una fatale distruzione ed imminente catastrofe naturale. Già sono presenti tutti i fenomeni naturali che si stanno trasformando nell’inquinamento mondiale per distruggere la natura e con essa l’intera umanità.

Contesto sociale, culturale, filosofico e letterario della “Ginestra”.

Il contesto sociale della Ginestra è quello inserito nella civiltà di Napoli della prima metà del 1800, cioè una delle città più povere d’Europa. Regnavano i Borboni, che fecero poca cosa per riportare il Sud al livello del Nord. Predominavano l’agricoltura e l’artigianato, mancava completamente l’industria, ormai completamente avviata nel Nord-Europa. Anche la posizione sociale del Leopardi era precaria, un intellettuale isolato dal resto d’Italia e in totale disaccordo con il resto degli intellettuali moderati cattolici italiani. Il Leopardi, disoccupato ma figlio di un conte, viveva anche con l’aiuto economico dei suoi genitori e con l’assistenza affettuosa della famiglia di Antonio Ranieri. Emozionante e commovente è l’opera pietosa, e quasi materna, di Paolina Ranieri che lo assistette fino alla fine dei suoi giorni.

Analisi della forma.

Il genere della poesia “La Ginestra”.

Il genere della poesia è senza dubbio quello di una poesia simbolica e metaforica. Ma, La Ginestra, è anche un componimento di argomento filosofico, sociale, formale, satirico, etico e con una forte rilevanza utopistica. La poesia ha la caratteristica di essere un soliloquio, anzi è più un colloquio tra il poeta e la Ginestra, nel quale il poeta adotta il discorso libero indiretto, a focalizzazione zero, e ciò gli permette di esprimere le sue idee filosofiche attraverso i personaggi della canzone libera.

La metrica della poesia “La Ginestra”.

La Ginestra è una canzone libera di 317 versi endecasillabi e settenari (183 endecasillabi e 134 settenari) divisi in sette strofe di lunghezza assai irregolare, ma comunque eccezionalmente estese. Libere le rime e le altre figure foniche, piuttosto frequenti e tuttavia dislocate in posizione poco notevole; ogni strofa è tuttavia chiusa da rima e da un verso endecasillabo.

Le figure retoriche della poesia.

Le figure retoriche sono molte: l’allegoria, gli enjambement, gli anacoluti, gli iperbati, le allitterazioni, le metafore, le similitudini.

Il tono emotivo della poesia.

Il tono emotivo della poesia è ricco di sentimenti che attraversano la canzone libera. Si va dal vocativo iniziale, odorata ginestra, con il quale il poeta mostra la funzione consolatoria del fiore che con il suo profumo rallegra i luoghi desolati del Vulcano. Si passa subito dopo al rimpianto di tempi più felici e di spazi più ameni e floridi ai tempi dell’impero romano. Ma subito dopo inizia l’ironia e il sarcasmo del poeta contro i moderati liberali cattolici, che sottovalutano la crudeltà della dura nutrice. Si passa poi al tono emotivo della realtà della condizione umana, malata e miserevole e successivamente al tono utopico della fratellanza umana. Il tono emotivo diventa quindi sublime nel descrivere l’infinito universo, ma finisce con il sentimento dello scherno e delle domande dubbiose. Si perviene quindi alla descrizione del tempo presente di Pompei per finire nella visione apocalittica della Ginestra che soccomberà alla potenza distruttiva della natura. Vi è dunque un campionario di sentimenti che rendono la canzone molto malinconica e pessimistica, ma vi è anche un voler resistere alla natura e ciò rivela un pessimismo del poeta, non rassegnato ma combattivo e solidale.

La lexis della poesia.

A livello di lexis la poesia è stata definita anti-idillica, poesia di pensiero, che si serve della disarmonia e dell’asprezza come forme espressive del nuovo atteggiamento morale del poeta. Alla poetica anti-idillica corrispondono parole con suono aspro, che accentuano la desolazione della natura e la tecnica di ampi periodi. Io, Biagio Carruba, credo che la lexis sia il valore più suggestivo e affascinate della canzone; al di là del ragionamento filosofico del Leopardi, che condivido in parte, ciò che mi affascina della Ginestra è proprio la lexis che ha una forza di suggestione tremenda e terribile. La lexis ha un fascino tutto particolare a cui quasi nessuno riesce a sottrarsi; fascino dovuto alla asciuttezza del linguaggio poetico, alla varia ed originale disposizione dei sintagmi, alla varietà delle espressioni poetiche, ma anche alla profondità del pensiero filosofico che racchiude una parte di verità.

Il linguaggio poetico della poesia.

Il linguaggio poetico della poesia si basa sul sapiente uso della retorica classica: dagli iperbati alle rime, dalle metafore alle similitudini. Eppure il linguaggio poetico leopardiano ha qualcosa di più: ha il fascino della forza argomentatrice e della verità del ragionamento basato sulla filosofia del poeta. Il linguaggio poetico del Leopardi è la sintesi di una creatività unica: esso è il risultato di un ricco vocabolario classico unito ai sentimenti del genio romantico che aspira alla Sehnsucht e che mostra un titanismo alferiano. Da questa miscela nasce, e deriva, il linguaggio incantevole e magico della poesia leopardiana, un linguaggio poetico ricco di patos e sentimento, ma pieno anche della disperazione esistenziale del poeta. Una disperazione che, dapprima, porta il poeta ad amare la natura, ma che in un secondo momento lo porta alla coscienza della propria infelicità e quindi a disprezzare ed odiare la natura. La bellezza della poesia del Leopardi sta tutta qui: essa esprime la rabbia degli uomini, e del poeta in particolare, contro la natura cieca e sorda. Nei primi canti, la poesia di Leopardi era una poesia lirica, struggente, malinconica, ma non rabbiosa e accusatoria come invece diventa negli ultimi canti. Infatti Leopardi dà alla “Ginestra” la funzione di accusare e di arringare contro la natura che crea l’infelicità degli uomini.

Aspetti estetici della poesia “LA GINESTRA”.

La bellezza di questa poesia è innegabile. Essa deriva da molti aspetti: dal suo linguaggio asciutto e vibrante, dal suo pensiero filosofico accusatorio e persecutorio contro l’empia natura, dalla fusione di classicismo latino e greco con gli spunti dei classici della letteratura italiana, dal romanticismo europeo al titanismo leopardiano. Il Leopardi è riuscito a fondere tutti questi elementi in una poderosa opera di patos e di Sehnusucht. Eppure una leggiadria aleggia nel componimento poetico dovuta alla grandiosità dell’opera, all’aspirazione e all’infinità che circolava nell’anima del Leopardi. La canzone offre una bellezza unica e maestosa come quella che è visibile nel “GIUDIZIO UNIVERSALE” di Michelangelo Buonarroti o quella che è udibile nella quinta sinfonia di Beethoven.

Commento e mie valutazioni personali alla poesia.

Ora io, Biagio Carruba, voglio partire proprio da questa valutazione per esprimere il mio giudizio sulla poesia e sulla filosofia del Leopardi. Secondo il Leopardi dunque tutta la storia dell’umanità è una storia inane, cioè è una storia inutile e vacua. La Ginestra termina appunto con un accenno di apocalisse: la distruzione della ginestra ad opera della lava del vulcano cioè della natura da cui nessuno si salverà. Ora vengono in mente sia il finale dell’Operetta morale “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco” sia il finale dell’Operetta morale “Dialogo di un folletto e di uno gnomo” e sia il “Cantico del gallo silvestre” dove il Leopardi aveva rappresentato la fine del mondo in vario modo in ognuno dei quali è escluso l’intervento di Dio. Ora io non condivido per niente il giudizio di Leopardi sulla inanità dell’umanità perché credo, al contrario, che la storia umana abbia un senso e che non sia inane. Anzi, per me, la storia ha e deve avere uno scopo e un fine dettato da Dio, o no? Mi avvicino alle tesi del Vico e di Pascal. L’umanità, secondo me, fa tutti i tentativi per uscire dalla inanità, e lo fa secondo i mezzi fisici ed intellettuali che ha a disposizione. La natura, essendo anch’essa creata, non ha voce in capitolo; essa è si ignorante della vita degli uomini, ma non è la responsabile della loro infelicità. Essa sta a guardare ciò che succede ma non ha colpa dell’infelicità degli uomini, semmai è Dio ad essere responsabile di questo. La natura è bifronte, come il Dio Giano; da una parte ha una faccia benigna e dall’altra una matrigna. Ora disconoscere come fa il Leopardi la faccia benigna e incolpare dell’infelicità umana solo la faccia matrigna è una operazione intellettuale incompleta e parziale. Bisogna riconoscere, invece, le due facce e dare a loro le giuste colpe o i giusti meriti, senza annullarne una. Dunque non è giusto gridare “al lupo al lupo”, come fa Leopardi, solo nei casi che dimostrino la faccia brutta della natura; è altrettanto giusto gridare e ammirare la faccia buona e benigna della natura. Del resto, io credo che, con chi, come Leopardi e Beethoven, è riuscito a scrivere questi capolavori poetici o sinfonie musicali talmente belle, vuol dire che la natura non è stata rea come il poeta afferma. Affermare questa tesi significa non guardare la natura con tutti e due gli occhi e quindi in modo imparziale, ma guardarla, come fa il poeta, con un solo occhio, e sempre lo stesso, e quindi vedere sempre la stessa faccia. Io credo che la verità e la varietà della natura è talmente ampia che ancora rimane molto da scoprire e ammirare.

Gran finale.

Cosa si può volere da una poesia? O meglio ancora da una canzone libera? Io, Biagio Carrubba, penso che la poesia deve permettere al poeta di fare le proprie domande rivolte agli altri e alla società postcontemporanea. In questo senso la poesia, quella bella e profonda, deve acconsentire al poeta di manifestare, esplicitare ed esprimere tutti i suoi sentimenti e le sue idee sulle attuali società postcontemporanee e deve permettere ai lettori di emozionarsi di fronte alle idee e alle interpretazioni del poeta. Quest’ultimo canto del Leopardi “LA GINESTRA” riesce a fare tutto ciò nei confronti della sua epoca e società del 1836. Dunque, io, Biagio Carrubba, prima mi tolgo il cappello, e poi mi inchino di fronte alla magnificenza, alla maestosità, alla peculiarità e alla originalità di questo canto, perché mi ha suscitato tante emozioni frastagliate, deliziose e liete per cui, affermo che come Pasolini fa dire a Totò, nel bellissimo film “Le Nuvole”, “Ah, Straziante meravigliosa bellezza del creato”, così io, di fronte alla straordinaria bellezza della Ginestra di Leopardi, con parole mie, dico: “Ahi straziante meravigliosa bellezza della poesia leopardiana”.

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Modica, 11 settembre 2018                                                                                                                     Prof. Biagio Carrubba

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