Introduzione al libro poetico “LA VITA NON È SOGNO” di Salvatore Quasimodo.

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Introduzione al libro poetico (parte centrale).
“LA VITA NON È SOGNO” di Salvatore Quasimodo.

Nella prima poesia LAMENTO PER IL SUD, Quasimodo vede ora il Sud non come una terra felice, un eden a cui vuole ritornare, ma ora Quasimodo vede il Sud per quello che è: un territorio e una regione piena di povertà e di ingiustizia sociale, perché dominata dalla malaria, dall’arretratezza economica e dai fanciulli disoccupati che sono costretti a vivere, all’addiaccio, in mezzo alle montagne. E qui Quasimodo, descrivendo questa scena, sembra anticipare la strage di Portella della Ginestra. Ecco i versi di questa inaudita e inedita strage: “Per questo i fanciulli tornano sui monti, / costringono i cavalli sotto coltri di stelle, / mangiano fiori d’acacia lungo le piste / nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. / Più nessuno mi porterà nel Sud”. La poesia è stata scritta il 13 febbraio 1947 e quindi qualche mese prima della strage che avvenne il I maggio 1947. Quasimodo già preavvertiva la disumana strage e l’orrenda ingiustizia perpetrata dal bandito ed assassino Salvatore Giuliano e dalla sua banda. Poi il 12 – 14 maggio 1947 Quasimodo scrisse un famoso articolo nel quale descriveva lo stupido massacro dei contadini e del dolore perpetrato nel popolo delle madri e parenti dei contadini e concludeva l’articolo con questo bel finale: “Guardate il viso di queste madri e ricordate che la Sicilia è, anche, terra italiana, fate davvero che a – colpo omicida non si renda colpo omicida – (Sono antiche parole ricantate da Eschilo). A Portella della Ginestra ricade ancora il silenzio. Ma i suoi morti continuano davvero ad abitare coi vivi, il dolore del distacco, il lamento del primo maggio vuole la sua quiete, perché quella frequenza sia dolce e rassegnata. Innocente è sempre in Sicilia chi cade da oscura violenza e un innocente non ha bisogno né di conforto né di elogio ma di giustizia”. Dall’opera A colpo omicida e altri scritti pagine 69 – 70. Il primo maggio 1947, a Portella della Ginestra, presso la piana degli Albanesi, la banda Salvatore Giuliano assalì una folla contadina riunitasi per comizio, uccidendo 12 persone. Di fronte a questo Sud depresso e pieno di ingiustizia il poeta conclude la poesia esprimendo il suo risentimento e sentimento amaro perché impotente: “E questa sera carica d’inverno / è ancora nostra, e qui ripeto a te / il mio assurdo contrappunto / di dolcezze e di furori / un lamento d’amore senza amore”.
Questa poesia mostra, in modo concreto, la svolta quasimodiana verso temi sociali italiani, e vede la sua situazione privata, ormai, definitivamente, stabile a Milano.

Nella seconda poesia EPITAFFIO PER BICE DONETTI, Quasimodo esprime tutta la sua gratitudine e la sua riconoscenza verso la prima moglie Bice Donetti, “La donna emiliana da me amata / nel tempo triste della giovinezza”. E implora la gente che passa dalla sua tomba “A fermarsi un minuto a salutare / quella che non si dolse mai dell’uomo / che qui rimane, odiato, coi suoi versi, / uno come tanti, operaio di sogni”.

Nella terza poesia DIALOGO, Quasimodo esprime, attraverso il riferimento ad Orfeo, il ritorno dalla guerra e cerca anche lui la sua Euridice. Ecco come descrive la sua guerra: “I vivi hanno perduto per sempre / la strada dei morti e stanno in disparte”. Ma per fortuna la sua Euridice è viva e lui la ritrova. Ed ecco il finale della poesia: “E qui / l’Olona scorre tranquillo, non albero / si muove dal suo pozzo di radici. / O non eri Euridice? Non eri Euridice! / Euridice è viva. Euridice! Euridice!”, mentre nel mito di Orfeo e di Euridice, Orfeo perde la sua Euridice perché si volta all’uscita dell’Ade e non la ritrova più.

Nella quarta poesia COLORE DI PIOGGIA E DI FERRO, Quasimodo esprime la sua forza e la sua rabbia per i morti della guerra e chiede a Truman il perché dei morti innocenti della guerra. E la poesia potrebbe rappresentare la scena allucinante e surreale del mattino del 6 agosto 1945 quando su Hiroshima esplose la bomba atomica. Ed ecco i versi che descrivono quel mattino ignaro a tanti cittadini giapponesi che di lì a poco sarebbero morti bruciati vivi dall’esplosione della bomba atomica: “E il vento s’è levato leggero ogni mattina / e il tempo, colore di pioggia e di ferro / è passato sulle pietre, / sul nostro chiuso ronzio di maledetti. / Ancora la verità è lontana. … Ora, ora prima che altro silenzio / entri negli occhi, prima che altro vento / salga e altra ruggine fiorisca”.

Nella quinta poesia QUASI UN MADRIGALE, Quasimodo esprime il suo amore per la sua donna amata in forma netta e chiara, semplice come quello dei bambini. E invita la sua donna a vivere quell’amore con sincerità e fino in fondo prima che il tempo passi e non ritorni più. La poesia è molto bella. La poesia inizia con la descrizione di una bella giornata d’estate, poi si rivolge alla sua donna amata: “Ma è sempre il nostro giorno / e sempre quel sole che se ne va / con il suo filo del suo raggio affettuoso. / Non ho più ricordi, non voglio ricordare; / la memoria risale alla morte, / la vita è senza fine. Ogni giorno / è nostro” e poi conclude “E l’uomo che in silenzio si avvicina / non nasconde un coltello fra le mani / ma un fiore di geranio”.

Nella sesta poesia ANNO DOMINI MCMXLVII, Quasimodo esprime la sua volontà di pace e anticipa il suo forte sentimento del pacifismo. La poesia è stupenda. Ecco il testo della poesia.

ANNO DOMINI MCMXLVII

Avete finito di battere i tamburi
a cadenza di morte su tutti gli orizzonti
dietro le bare strette alle bandiere,
di rendere piaghe e lacrime a pietà
nelle città distrutte, rovina su rovina.
E più nessuno grida: “Mio Dio
perché mi hai lasciato?”. E non scorre più latte
né sangue dal petto forato. E ora
che avete nascosto i cannoni fra le magnolie,
lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba
al rumore dell’acqua in movimento,
delle foglie di canna fresche tra i capelli
mentre abbracciamo la donna che ci ama.
Che non suoni di colpo avanti notte
l’ora del coprifuoco. Un giorno, un solo
giorno per noi, padroni della terra,
prima che rulli ancora l’aria e il ferro
e una scheggia ci bruci in piena fronte.

Bellissima poesia che esprime il sentimento di pace del poeta.

Nella settima poesia IL MIO PAESE È L’ITALIA, Quasimodo esprime l’amore per l’Italia, ma anche l’importanza dei poeti, i quali non dimenticano gli orrori della seconda guerra mondiale anche perché ancora molti ruderi e molti reticolati testimoniano le tragedie e le vittime di essa. Ecco l’incipit della poesia: “Più i giorni della guerra s’allontanano dispersi / e più ritornano nel cuore dei poeti”. E dopo avere elencato alcuni territori e città distrutte dalla guerra il poeta conclude: “I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili / dei vinti dei perdonati dalla misericordia! / Tutto si travolge ma i morti non si vendono. / Il mio paese è l’Italia, nemico più straniero, / e io canto il suo popolo e anche il pianto / coperto dal rumore del suo mare, / il limpido lutto delle madri, canto la sua vita”.

Nell’ottava poesia THANATOS ATHANATOS, Quasimodo chiede a Dio che deve dare la risposta agli uomini sulla vita e sulla morte. La poesia inizia con un’apostrofe a Dio “Dio / dei tumori, Dio del fiore vivo” e poi continua “E dovremo consentire alla morte / e su ogni tomba scrivere la sola nostra certezza –THANATOS ATHANATOS”. Cioè l’uomo sa con sicurezza che è destinato alla morte eterna. Ma ora il poeta chiede a Dio di dare delle risposte, e allora il dialogo diventa assurdo perché impossibile. Ma il poeta continua : La vita non è sogno, cioè non è qualcosa di passeggero, qualcosa che non vale niente, anzi la vita è qualcosa che vale molto per cui essa non è sogno che passa senza nessun danno per l’uomo. La vita è tanto bella ma così breve che sembra un sogno. E allora, il poeta conclude la poesia: La vita non è sogno ma qualcosa di vero come l’aria e l’acqua, come il fiume che preme sulla riva. E conclude implorando e invocando il Dio del silenzio ad abbattere la solitudine umana.
L’ottava poesia THANATOS ATHANATOS è stupenda.

Ecco il testo della poesia.

E dovremo dunque negarti, dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all’oscura
pietra “Io sono” e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: “thanatos Athanatos”?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest’uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l’assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l’uomo
E il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.

Ecco il bel commento di Alberto Frattini alla poesia: “L’angoscioso enigma della vita e della morte, il mistero di Dio e dell’oltre, il conflitto tra ragione e pietà, sono i temi portanti di questa lirica, rivelatrice degli strati profondi della poesia quasimodiana”. E così il critico commenta i versi La vita non è sogno: “Questa massima che dà il titolo alla raccolta, esprime una delle più forti convinzioni del poeta, che, cioè, la vita è impegno, lotta, e va vissuta responsabilmente da tutti. Il Quasimodo, capovolgendo una concezione tradizionale che la poesia e l’arte hanno avuto dalla vita, che trova la sua definizione nel titolo di uno dei più famoso drammi di Pedro Calderon de la Barca, La vida es sueno (1636), assegna al poeta un compito profondamente umano, storico”. (Da Poeti Italiani del XX secolo, pag. 674).

Nella nona poesia LETTERA ALLA MADRE, Quasimodo esprime il suo ringraziamento alla madre che abita ormai lontana in Sicilia. Il poeta inizia e parla dei luoghi dove lui ora abita. Egli ora abita in Lombardia, dove si trova bene, anche se non è felice. Descrive il naviglio di Milano e poi scrive alla madre. La madre è meravigliata dalla lettera del figlio e ripensa a “Quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca”. E il poeta ricorda il momento del distacco dalla madre e dalla terra nativa: “Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo / di treni lenti che portavano mandorle e arance / alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, / di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, / questo voglio, dell’ironia che hai messo / sul mio labbro, mite come la tua. / Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori”. E il poeta conclude rivolgendosi alla morte di non toccare “L’orologio in cucina che batte sopra il muro, / tutta la mia infanzia è passata sullo smalto / del suo quadrante, su quei fiori dipinti: / non toccare le mani, il cuore dei vecchi. / Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, / morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater”. Il poeta prega la morte di essere una morte piena di pietà e di pudore e di essere gentile con i vecchi che, ormai, sanno che cosa aspettano. Aspettano proprio la morte, perché sanno che sono vicino al tempo della morte.
Ecco il bel commento di Alberto Frattini a questa poesia: Il poeta invia alla madre sola, lontana, ammalata, questa lettera per consolarla dalla sua solitudine e per aprire il suo animo a colei che sola ha il privilegio di capirlo. Così, la confessione del poeta porta al confronto di due mondi e di due età diverse della sua storia personale: la Sicilia assolata e mitica, dove crebbe fanciullo e da dove “fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca, e il grigio settentrione dove vive; l’infanzia fatta favola irrecuperabile ma consolante, e la maturità segnata di pene e di tormenti”. (Da Poeti Italiani pag. 676).
Ecco come il critico commenta i versi finali della poesia: “Nessuno risponde. La morte non parla, né intende il nostro linguaggio. E il poeta, che l’ha chiamata gentile, ora la invoca, nella sua pietà e discrezione. Il filo misterioso si riallaccia così, dalla morte all’amore, nella figura-emblema, che ha il profumo di una familiare e universale religio: “Dulcissima mater”. (Da Poeti Italiani del XX secolo pag. 678).

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Modica 21/ 08 / 2018                                                                                                                    Prof. Biagio Carrubba

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