Introduzione al Canto “ULTIMO CANTO DI SAFFO”. Canzone IX di G. Leopardi.

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Introduzione al Canto “ULTIMO CANTO DI SAFFO”.
Canzone IX di G. Leopardi.

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Il Leopardi compose questo canto dal 13 al 19 maggio del 1822, come si legge nella postilla, che insieme alla premessa, accompagna il testo autografo. Molte letture e molti fattori concorsero alla maturazione e stesura del canto: in primis le letture di Ovidio. Nella premessa del 1822 che accompagnava il testo originario Leopardi spiega la genesi della canzone. “Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, epist. 15, v. 31 segg.”. La lettura di Ovidio fece scoprire a Leopardi che lui aveva lo stesso problema della poetessa greca Saffo. Poi nel 1825 Leopardi, nel preambolo alla nuova edizione del libro e alla poesia, il poeta cita le prose di romanzi quali “La Delphine” e “La Corinne” di M. Stael. In questo scritto Leopardi chiarisce in modo chiaro e netto il tema della canzone in cui precisa che: “Una di queste canzoni che è intitolata Ultimo canto di Saffo intende rappresentare l’infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”. Oltre a ciò concorse, alla scrittura della poesia, la parallela e simmetrica situazione esistenziale con la poetessa greca Saffo con la loro comune situazione fisica cioè quella di avere un alto e raro ingegno poetico posto in un corpo sgraziato e giovane. Ed è proprio su questo aspetto che il Leopardi si sofferma nell’Annuncio delle canzoni del 1825 L’anno prima Leopardi aveva scritto il “Bruto minore” che aveva ed ha molti elementi in comune con questo canto dedicato ed ispirato dalla Saffo. In queste due opere del Leopardi, i protagonisti, Bruto minore e Saffo, rinunciano entrambi alla vita per protestare ed elevare la loro sfida al destino crudele e agli empi Dei. Come dice Ugo Dotti: “Il suicidio è qui avvertito, come nel Bruto Minore, quale sdegnosa testimonianza dell’unica possibilità in mano all’uomo di protestare contro la cieca violenza del destino” (da Giacomo Leopardi – Canti – A cura di Ugo Dotti – Feltrinelli Editore – Pag. 285). Ma il tono è ben diverso nei due canti: Bruto grida e sfida gli dei, mentre la Saffo esprime “l’ultima effusione del cuore” (U. Dotti) pag. 42; ma la differenza sta, soprattutto, nell’iniziativa e nella forza morale della poetessa, che scenderà nel silenzioso e spaventevole Tartaro per emendare il crudele errore fatto dal cieco dispensatore dei casi. Io, Biagio Carruba, penso che proprio questo motivo renda Saffo più umana e delicata e più pietosa verso gli infelici rispetto a Bruto. Ma il tema dominate del canto è l’infelicità che pervade sia il canto sia tutta la vita di Saffo, che non può uscire dal proprio corpo se non con il suicidio. Leopardi era anche ben consapevole della impossibilità di uscire dall’infelicità come aveva scritto nello Zibaldone il 10 dicembre 1821: “La cagione di questi sentimenti, è quell’infinito che contiene in sé stesso l’idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più” (pagina dello Zibaldone originario 2243 – Citazione presa da Leopardi Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pagina 462). Infelicità dovuta alla bruttezza che esclude Saffo come dice U. Dotti: “dall’amante compagnia, dall’amore e dalle sue conseguenti, se pur provvisorie, sembianze di felicità” (pag. 40). E siccome tutto questo il Leopardi lo sentiva con la stessa intensità e nello stesso modo allora ecco che il poeta immette nel canto il suo “Io lirico” identificandosi e sovrapponendosi alla Saffo nei momenti cruciali del canto. Saffo parla in prima persona dal verso 1 al verso 6; dal verso 7 fino al verso 36 parla in nome degli infelici di chi sente i “disperati affetti”; dal verso 37 riparla a nome personale fino al verso 47, quando, Leopardi, per bocca di Saffo, parla in prima persona e cioè comincia a dare le risposte alle domande poste dalla Saffo, nei primi versi, fino al verso 54; dopo di che la Saffo riprende a parlare per sé stessa dal verso 55 al verso 72. Ma accanto a questo tema universale il Leopardi ne sviluppa altri che erano in comune con la poetessa: “la sventura della giovinezza tradita, la qualità dell’ingegno incompreso ed infine la voce “antica” che si eleva a compianto di una condizione che si ripete nel presente, vale a dire in Leopardi stesso” (pag. 42) (U. Dotti). Ma come scrive ancora U. Dotti: “nella quarta ed ultima strofa la tensione lirica tende con decisione ad attingere, come è stato ben detto, “dati universali e obiettivi della condizione umana: la crudele cecità del destino, l’impossibilità che il valore interiore si affermi per sé stesso sulla terra, la brevità dei “dilettosi errori”, l’indecifrabile enigma dell’universo” (pag. 43). Il finale dell’ultima strofa è struggente e malinconico e come dice ancora una volta U. Dotti: “Sarà da osservare come i tre soggetti, tutti e tre composti da un aggettivo anteposto al sostantivo, non valgono soltanto ad “addensare un’atmosfera di arcana e deserta solitudine” (Fubini), ma accompagnino, per così dire, la poetessa nella sua lenta “discesa” verso la morte” (pag. 287). Il canto è composto da 4 strofe di 18 versi endecasillabi tranne il penultimo settenario che fa rima con l’ultimo.

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Premessa al testo della poesia.

Il poeta presenta e descrive Saffo, che ormai si trova in cima al monte Leucade, decisa e pronta a suicidarsi, cioè a buttarsi giù dal monte nel mar Ionio. Saffo, guardando il sorgere dell’alba, prorompe nel suo sfogo dopo che per tanti anni ha represso il suo dolore per l’abbandono del bellissimo giovane Faone. Quindi durante la notte è salita sulla cima del monte, ed è in procinto di suicidarsi. Ricorda, con nostalgia, l’amore con il giovane Faone, ma ora è rimasta sola, decisa a suicidarsi. Il suo stato d’animo è furente e furioso, ma lo spettacolo naturale di quiete dell’alba che ha davanti a sé, non la calma né la frena dalla sua intenzione. Anzi essa dichiara che ormai l’unico spettacolo naturale che le è congeniale è quello della natura tempestosa che assomiglia al suo animo furioso. Quindi il titolo “ULTIMO CANTO DI SAFFO” si contrappone al modo di dire ULTIMO CANTO DEL CIGNO, nel quale secondo la legenda, per tradizione, si intente che il cigno, prima di morire, intonerebbe un canto estremamente dolce. Invece lo sfogo di Saffo è estremamente duro contro gli dei e contro il suo crudele destino.

Testo della poesia “ULTIMO CANTO DI SAFFO”.

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, 5
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto 10
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta 15
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta 20
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose 25
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi 30
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge, 35
E preme in fuga l’odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara 40
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi 45
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre, 50
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto 55
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse, 60
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto 65
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno 70
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.

Parafrasi e costruzione diretta della poesia “ULTIMO CANTO DI SAFFO”.

1ª strofa.
Oh quieta notte e pallido raggio
della evanescente luna; e tu stella di venere
che annunci il giorno fra la silenziosa selva
da sopra la rupe; voi foste ai miei occhi
dilettose e care sembianze,
fino a quando non vissi le furie dell’amore
e il mio spietato destino; il dolce spettacolo
della natura non rallegra gli animi infelici.
Una felicità inconsueta ravviva noi (animi infelici),
quando l’onda dei venti turbina nell’aria limpida,
e quando il tuono, tuonando sopra di noi,
squarcia l’aria tenebrosa del cielo.
A noi piace stare tra le nebbie e ci piace
andare per le colline e per le profonde valli,
a noi piace vedere la disordinata fuga delle greggi impaurite,
a noi piace sentire il fragore e il movimento dell’onda
di un fiume in piena presso la pericolosa sponda.

2ª strofa.
Il tuo manto è bello, o divino cielo,
e tu, o terra rugiadosa, sei bella.
Ahi gli Dei e la sorte crudele non fecero
partecipare in alcun modo alla povera
Saffo di così tanta infinita bellezza.
Io, addetta ai tuoi supremi regni,
come una vile e fastidiosa ospite, e
come un’amante disprezzata, o natura,
rivolgo invano e supplichevole
il mio cuore e i miei occhi
alle tue belle e graziate forme.
Il soleggiato luogo e il mattutino albore
non mi sorride; né il canto dei colorati uccelli
né il mormorio dei faggi mi sorride;
né un luogo mi sorride dove il chiaro rivo
fa scorrere le sue limpide acque e
sottrae, mostrando sdegno,
le sue serpeggianti acque
al mio malfermo piede che
nella fuga urta le profumate rive.

3ª strofa.
Quale colpa, quale misfatto gravissimo
mi rese rea prima della mia nascita
a causa dei quali il Padre del cielo e
il volto della fortuna mi furono ostili?
In che cosa peccai bambina,
quando la vita è priva di misfatti,
cosi ché poi privata della giovinezza e
del fiore della vita, cioè dell’amore (U. Dotti)
tanto che il filo oscuro della mia vita
scorresse (più lento o più rapido?)
nel fuso dell’implacabile Parca?
(Risponde il Leopardi per bocca della Saffo).
La tua bocca fa domande inspiegabili;
una legge misteriosa muove i predestinati eventi;
tutto ciò che accade nell’universo è misterioso,
tranne il nostro dolore.
Noi uomini siamo una specie
disprezzata e nascemmo per dolerci
e la ragione del nostro dolore
è posta sulle ginocchia degli Dei.
Oh desideri, oh speranze,
della mia più verde gioventù!
Giove ha dato dominio duraturo
sulle genti alle forme, alle belle forme;
e la virtù non appare nelle grandi imprese,
né nella dotta poesia né nel canto,
se posta in un corpo disadorno.

4ª strofa.
(Ritorna a parlare Saffo per sé stessa).
Morirò. E dopo che il mio corpo indegno
rimarrà a terra, la mia anima nuda
fuggirà verso Dite, dio degli inferi,
e correggerà il tremendo e crudele errore
del cieco dispensatore dei casi.
E tu, Faone, a cui un lungo amore e
una lunga fedeltà e una inutile passione
mai appagata mi tenne legata,
vivi felice se mai un uomo mortale
è vissuto felice sulla terra.
Giove non mi ha bagnata con il suo
prezioso liquore conservato nella piccola ampolla,
cosi ché le illusioni e i sogni
della mia fanciullezza perirono.
Ogni giorno più lieto della nostra età
per primo fugge. La malattia, la vecchiaia
ed infine la gelida morte subentra.
Ecco, adesso, solo il Tartaro mi resta,
fra i tanti sognati onori e i lusinghevoli sogni
della giovinezza ora troncati dalla realtà e, qui,
dalla morte imminente; e la tenaria Proserpina
e la buia notte e la silenziosa riva già
posseggono il mio alto e raro ingegno.

Finale.

Il finale è molto drammatico perché Leopardi rappresenta e descrive Saffo nel momento in cui si butta, con il suo corpo, giù nel mar Ionio, ma prima di sentire il tonfo nell’acqua e il rumore delle onde, la poetessa greca immagina già che Proserpina, dea degli inferi, che custodisce l’ingresso dell’averno che gli antichi immaginavano che si trovasse presso il capo Tenaro (oggi Matapan, nel Peloponneso meridionale), la notte buia e i fiumi infernali accolgono il poderoso ingegno della poetessa e il suo spirito delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane.
Io, Biagio Carrubba, dopo la lettura e la comprensione dei pensieri espressi in questa canzone del Leopardi, ho provato una grande letizia per l’infinita bellezza poetica del canto, e perché la mia anima è stata ammaliata dalla sua magia, perché sono stato deliziato dal soave e dolce afflato mistico generato e creato dalla sublime poesia contenuta nel canto.

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Modica 31 luglio 2018                                                                Prof. Biagio Carrubba

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