INTRODUZIONE AL
“CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL ‘ASIA”.
(CANTO N. XXIII) DI G. LEOPARDI.
Io, Biagio Carrubba, immagino che Leopardi abbia chiamato “CANTI” la sua opera poetica perché quando nella primavera del 1831 pubblicò la prima edizione a Firenze, l’ultima poesia che aveva scritto era stata “CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE VAGANTE DELL’ASIA” nel quale il poeta si era identificato e trasfigurato nel pastore nomade ed ignorante dell’Asia. Il pastore errante, con la sua voce soave e lieve, chiede alla luna il perché della vita, del dolore, del tempo, della noia, dell’universo e, dato che la luna, (forse) pur conoscendo le risposte, non può parlare, allora Leopardi dà l’unica risposta possibile al pastore conscio solo del suo dolore e della sua noia: la vita è per lui inspiegabile ed è, solamente, infelicità e dolore e, forse lo è anche per gli altri uomini, come affermano gli ultimi versi del Canto: “O forse erra dal vero/ mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:/ forse in qual forma, in quale/ stato che sia, dentro covile o cuna,/ è funesto a chi nasce il dì natale”, cioè la mia opinione (il mio pensiero) non sia lontano di molto dalla verità delle cose, guardando anche il dolore degli altri, per cui affermo che la nascita, in quale forma sia e in quale genere sia, o dentro un covile o una culla, è funesta per chi nasce. Questa poesia fu composta dal Leopardi tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 a Recanati. Il motivo della composizione del canto fu offerto e propiziato, al Leopardi dalla lettura del libro, intitolato “Viaggio d’Oremburg a Bukara, di un autore russo Meyenderff, il quale riferiva di lontani popoli dell’Asia, dove i pastori “passano la notte su di una pietra a guardare la luna, e improvvisano parole assai tristi su arie che non lo sono meno”.
Il Leopardi, prendendo spunto da questo scenario lunare e solitario, compose il canto, e fa esporre al pastore solitario i suoi interrogativi esistenziali e denuncia le lamentele per le tristi condizioni dell’umanità. Il tema generale della poesia è, per l’appunto, la triste solitudine del pastore che chiede spiegazione alla luna, la quale però rimane silenziosa, muta, intatta, vergine e candida. In questo senso la voce poetica e filosofica di Leopardi esprime e manifesta, ancora oggi, i dubbi e le domande che si pone tutta l’umanità, ma alle quali nessuno trova le risposte. Il canto esprime, ancora oggi, i giusti sentimenti e risentimenti del pastore – poeta contro un Dio (che lui chiama natura) invisibile ed introvabile diverso da quello che dovrebbe essere un buon Dio che non avrebbe bisogno di nascondersi o di non farsi trovare. Dunque il Canto di Leopardi esprime ancora oggi, con una forza tumultuosa ed impetuosa, tutta la sua rabbia, la sua disperazione, la sua tristezza per la sua personale condizione esistenziale (del Leopardi) ed enuncia, così, tutte le sue accuse contro le ingiustizie naturali e contro il mistero dell’universo: “Questo io sono e sento, / che degli eterni giri, / che dell’esser mio frale, / qualche bene o contento / avrà fors’altri; a me la vita è male”. (Versi 100 – 104). La stessa conclusione del Canto “È funesto a chi nasce il dì natale” non è altro che la traduzione poetica della frase latina “Melius est dies mortis die nativitatis”. Il Canto è diviso in sei strofe per un totale di 143 versi con rime libere, ma con qualche rime nel mezzo e ogni strofa termina con ale. Il grande critico Luigi Russo così conclude la sua introduzione al canto: “l’ultima stanza, brevissima rispetto alle altre, ha l’aria del commiato della canzone petrarchesca. E tutto è orchestrato con prodigiosa sapienza letteraria che dà il senso della cantilena pastorale trasferita e modulata in un altissimo canto”. Un’altra notazione importante, che io, Biagio Carrubba, voglio fare sul titolo della canzone libera è questa: la parola Canto non indica qui un inno o una lode alla natura ma è sinonimo di invettiva contro il mistero dell’Universo. Quindi richiama il titolo di Ultimo Canto di Saffo dove il canto era anch’esso una invettiva contro la natura e contro gli Dei che stabiliscono la sorte e il destino degli uomini. Anzi, io, Biagio Carrubba, dico che la parola Canto è usata qui da Leopardi come sarcasmo verso la natura e la Luna, “Solinga, eterna e peregrina” che diventa anch’essa un elemento infelice, come tutti gli altri elementi dell’Universo. (Pessimismo cosmico, riportato in molte considerazioni e riflessioni sia nello Zibaldone, nelle Operette Morali e sia nelle altre Canzoni libere dei Canti).
II
Parafrasi e costruzione diretta della poesia
“CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA”
Che fai tu, luna, nel cielo? Dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera e sali in alto nel cielo
contemplando la terra, quindi tramonti.
Ancora non sei appagata
di ripercorrere le eterne vie del cielo?
Ancora non ti è venuta a noia, sei ancora contenta
di osservare i monti della terra?
La vita del pastore
assomiglia alla tua.
Egli si alza al mattino
conduce il gregge per i campi e vede
greggi, fontane ed erba;
poi stanco si riposa la sera:
e non desidera niente altro.
Dimmi, o luna, che cosa vale
al pastore la sua vita?
A che vale la tua vita e quella degli altri astri?
Dimmi, dove conduce la mia breve vita e
dove porta il tuo corso immortale?
La vita degli uomini assomiglia
ad un vecchietto, canuto e infermo,
che mezzo vestito e mezzo scalzo,
se ne va per montagne e per valli
portandosi sulle spalle un fascio di legna.
Poi sotto il vento e la pioggia
cade, risorge e va sempre più in fretta e
si appresta per arrivare colà,
nell’orrido abisso, dove
precipitando oblia ogni cosa.
Vergine luna, la vita umana
È in tale stato e condizione?
L’uomo nasce a fatica
e già il parto è pieno di pericoli;
tanto che i genitori consolano
il bambino dell’essere nato.
Ma perché dare alla luce?
Se la vita è una disgrazia
perché continuare a viverla?
Perché mantenere in vita
chi poi deve essere consolato?
Intatta luna, la vita umana
è così, ma tu non sei mortale,
e forse le mie parole ti importano poco.
Tu, luna, solitaria, eterna, viaggiatrice,
sei così pensosa e forse intendi che cosa sia
la vita terrena, il nostro soffrire,
il morire e scomparire dalla terra.
Tu certamente conosci
il perché delle cose e vedi il frutto
del mattino e della sera.
Tu certo sai a chi sorride la primavera,
a chi giova l’estate e l’inverno.
Tu sai mille cose e ne scopri altre mille.
Spesso quando ti guardo nel cielo
o seguirmi con il mio gregge,
io, quando ti vedo, mi chiedo: “Perché tante stelle nel cielo,
che fa l’aria infinita, e che vuol dire questa
solitudine immensa? Ed io chi sono?”.
Io non riesco a comprendere e a spiegarmi
il perché della terra smisurata e superba,
il perché della natura e degli astri
che tornano sempre colà da dove sono partiti.
Ma tu, giovinetta immortale, certo
comprendi e sai tutto.
Io so, della mia vita, soltanto, questo:
che gli eterni giri degli astri
forse qualche un altro ne avrà beneficio
io, invece, non ne ho perché a me la vita è male.
O greggia mia, io ti invidio, oh te beata,
perché tu non conosci
né il dolore né il tedio.
Io, invece, quando seggo
sopra l’erba mi assale la noia,
e un fastidio mi ingombra la mente e
un pungolo mi sprona per tutto l’essere
cosicché non trovo né pace dentro di me
né un luogo vicino.
Allora dimmi perché
ogni animale quando giace
se ne sta tranquillo
e, invece, se io giaccio in riposo,
il tedio m’assale?
Forse se potessi volare
di nube in nube e se potessi
contare le stelle ad una ad una
e se potessi vagare come il tuono
da una montagna ad un’altra montagna,
forse sarei felice, dolce mia gregge,
forse sarei felice, candida luna.
Ma, forse, il mio pensiero
non si allontana dal vero,
quando guardo il destino degli altri,
per cui affermo che la nascita,
in quale forma sia e in quale genere sia,
o dentro un covile o una culla,
è funesta per chi nasce.
III
Commento mio personale alla canzone libera.
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA.
I motivi della bellezza del Canto sono parecchi e notevoli. Ne elenco alcuni.
Il primo motivo di bellezza è l’impareggiabile descrizione della “smisurata e superba” Terra e del “quel profondo / infinito sereno” dell’Universo.
Il secondo motivo di bellezza è la sequenza delle innumerevoli domande che il poeta – pastore rivolge alla Luna che rimane impassibile e indifferente al dolore e alle richieste del pastore – poeta.
Il terzo motivo di bellezza è il tono malinconico e mesto di tutto il Canto che il poeta – pastore esprime e che acquista così il sapore di una cantilena personale o di una salmodia biblica.
Il quarto motivo è dovuto al tipo e al tono di domande che fa il pastore – poeta alla Luna: dapprima il tono è dolce e malinconico, quasi sommesso, ma poi diventa sempre più incalzante, nervoso e irrequieto perché esprime tutto il malessere del poeta che non riceve nessuna risposta dalla Luna.
Il quinto motivo del Canto lo spiega benissimo Ugo Dotti con queste parole: il Canto assume “L’alone di lontana coralità che esso suscita, presentatosi il pastore, sin dall’inizio, come voce di tutta una umanità, voce che chiede ragione del senso non soltanto della propria esistenza, ma dell’esistenza nel suo complesso … per cui la protesta, a questo punto, è autorizzata a farsi universale”. (Da G. Leopardi Canti a cura di Ugo Dotti. Feltrinelli edizioni pagg. 96, 97).
Altri motivi di bellezza sono: la maestria del poeta di adoperare i settenari e gli endecasillabi nelle sei strofe raggiungendo una sintonia e una armonia fra di esse quasi perfetta con il tono triste e mesto del Canto, per cui io, Biagio Carrubba, mi tolgo il cappello perché mi sale nel corpo e nell’anima una stima e una ammirazione elevate nei confronti del Canto e del poeta per cui reputo e sostengo che il Canto esprima il pessimismo cosmico del poeta.
IV
Gran finale.
Sono passati quasi due secoli dalla vita e dalla morte del giovane Leopardi. Oggi l’umanità conosce molte più cose sia sulla natura che sull’Universo. Io, Biagio Carrubba, considerando l’evoluzione e il progresso di questi due secoli penso che la teoria del piacere di Leopardi non sia più attuale nell’odierna società postcontemporanea. A differenza della teoria di Leopardi, io credo, che sebbene la natura offra il piacere in piccole dosi, ciò è sufficiente a far sì che l’uomo provi quel tanto di piacere quotidiano che basta per vivere meglio e superare i dolori della carne e della vita di ogni giorno. Oggi, a distanza di due secoli dalla società di Leopardi, molte cose sono cambiate; per esempio il sesso è oggi riconosciuto ed accettato senza nessun pregiudizio ed è considerato un piacere tanto prezioso e indispensabile per vivere bene. Oggi la scienza moderna consiglia di fare sesso e viviamo in una società dove è avvenuta la rivoluzione sessuale. Voglio dire semplicemente che la natura dà sempre piccole piaceri comunque bastanti per soddisfare il piacere infinito di cui parla Leopardi. Oggi nell’attuale società postmoderna l’uomo è riuscito a creare tanti piccoli e grandi piaceri che vincono le pene e i dolori della natura come ad esempio la televisione ed il cinema che portano in tutte le case un minimo di piacere ed attenuano, anche se in parte, la noia e l’infelicità quotidiana. Ma per godere di questi piaceri bisogna avere tante cose: il lavoro, la salute e una buona posizione sociale. Inoltre è importante che nessuno sia perseguitato dalla sfortuna perché, allora, si cade nella “natura matrigna” e, in questo caso, ha ragione Leopardi; ma se si ha un po’ di fortuna, e un lavoro adeguato, e una vita creativa, allora la vita diventa bella e degna di essere vissuta, e non disprezzata. Io credo che se Leopardi vivesse oggi egli non sarebbe così pessimista come lo era allora; e allora forse si ricrederebbe sulle sue posizioni e diventerebbe probabilmente più ottimista. Io penso che una bella donna, oggi, sarebbe ben disposta ad accettare il poeta per quello che era e lo renderebbe ogni giorno più sereno ed aperto agli altri e un buon medico, con una giusta cura, lo guarirebbe dai suoi molti malanni e lo farebbe vivere molto meglio e più a lungo. Si può dire, senza tema di smentita, che la Natura, oggi, non fa più paura come faceva al tempo di Leopardi. Oggi l’uomo può difendersi da essa con più mezzi e più armi: dalle medicine alle case. In questi ultimi decenni la scienza ha migliorato le proprie conoscenze sulla vita e sul corpo umano. Queste scoperte permetteranno entro alcuni decenni di superare e vincere la terribile vecchiaia. Queste scoperte non significano la vittoria dell’umanità sulla Natura o che essa diventerà più buona ma significano soltanto che l’umanità potrà vivere meglio e più a lungo, forse fino all’immortalità fisica. Già si parla del fatto che la vita umana si allungherà di molto nei prossimi decenni al punto di avere una vita così lunga che qualcuno forse si annoierà a viverla per intero. Ma tutto questo è di là da venire e forse resterà pura utopia.
Modica 01/ 09/ 2018 Prof. Biagio Carrubba
Commenti recenti