GLI EPIGRAMMI PIU’BELLI (3) DI MARCUS VALERIUS MARTIALIS

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GLI EPIGRAMMI PIU’BELLI (3)
DI MARCUS VALERIUS MARTIALIS

3

Gli epigrammi più belli
sul tema de “L’elogio funebre
per amici e schiavetti carissimi al poeta”
di Marcus Valerius Martialis,
poeta latino di origine spagnola
vissuto nel I secolo d.C. a Roma

Ancora oggi la lettura degli epigrammi del poeta spagnolo Marcus Valerius Martialis aumenta la suggestione di essi sul mio animo poiché sono vivamente colpito ed affascinato dalla loro bellezza e dalla loro raffinatezza. La loro impressione su di me diventa sempre più forte ed intensa cosicché continuo a leggerli sempre con più piacere, con più voglia e con più accanimento. Questa volta, io Biagio Carrubba, ho selezionato, fra tutti gli epigrammi di Marziale, quelli che hanno per tema centrale e specifico, il tema de “L’elogio funebre per i suoi amici e per i suoi schiavetti che furono carissimi al poeta”. È un tema caro e prezioso al poeta latino che esprime e mostra la sua sensibilità e la sua generosità in molti modi, con molti toni ed esprime le sue vive emozioni. In questi epigrammi dei distici elegiaci c’è molta mestizia e molta tristezza modulata ed espressa in modi diversi ed in generi metrici vari. Il poeta mostra anche tanta speranza e serenità di animo per le piccole anime morte prematuramente e andate nell’Ade, nelle gelide acque dello Stige. La leggiadria di questi epicedi è evidente ed emozionante perché esprimono una leggerezza notevole ed una soavità piacevole; mostrano quanto era profondo il lamento, il dolore e il lutto del poeta. Credo, infatti, che in questi epigrammi Marziale elabori, con calma apparente, il proprio lutto provocato dalla morte improvvisa e prematura dei suoi giovani amici. Credo, inoltre, che il poeta trasformi il dolore in una consolazione pacificata conforme alla religione politeista del suo tempo. Io, B. C., reputo, dunque, che i sentimenti ed il dolore espressi da Marziale, pure attraversando molti secoli, siano ancora ben presenti a noi e al nostro tempo. Continuo a consigliare la lettura di questi bei epigrammi perché li trovo, ancora oggi, suggestionanti, turbanti, impressionanti e suggestivi nelle loro immagini e nei loro toni sconfortanti.

1

Da “Epigrammi, Liber Primus”, epigr. 88.
“Oh Alcimo, strappato al padrone nei tuoi giovani anni,
che la terra Labicana copre con le sue leggere zolle,
accetta non blocchi traballanti di pesante marmo pario,
destinati a crollare, che una vana fatica innalza
in onore dei morti, ma accetta questo pieghevole bosso,
e (accetta) la fitta ombra di questi tralci,
e (accetta) questo prato rugiadoso, che verdeggia
per le mie lacrime. Accettali, oh caro fanciullo,
come testimonianza del mio dolore:
è questo un onore che vivrà per te in eterno.
Quando Lachesi avrà finito di filare l’ultimo filo
della mia vita, dispongo che il mio cenere
riposi allo stesso modo.”

2

Da “Epigrammi, Liber Primus”, epigr. 101.
“Il giovane Demetrio, la mano fedele collaboratrice
dei miei studi, preziosa per il padrone e nota
agli Imperatori, è venuto a mancare nel fiore
della sua giovinezza: aveva aggiunto quattro anni
ai tre lustri. Affinché non scendesse, da schiavo,
alle ombre Stigie per la tremenda malattia
che lo opprimeva e lo bruciava, io provvidi
in tempo e rimisi in lui, malato, ogni mio diritto
di padrone: per questo mio dono era degno
di riacquistare la salute. Comprese, morendo,
il premio che gli veniva dato e mi chiamò patrono,
mentre stava per scendere, libero, alle acque degli Inferi.

3

Da “Epigrammi, Liber Primus”, epigr. 114.
“Questo giardino vicino a te, oh Faustino,
questo piccolo campo e questi umidi prati
sono proprietà di Fenio Telesforo.
Qui egli ha sepolto le ceneri della figlia
e ha consacrato il nome di Antulla,
che tu leggi -ma era più adatto che ad essere letto
qui sulla tomba fosse stato il nome del padre-.
Sarebbe stato più giusto che alle ombre Stigie
fosse sceso il padre: ma poiché ciò non fu permesso,
egli (il padre) possa vivere, almeno, per onorare queste ossa.

4

Da “Epigrammi, Liber Primus”, epigr. 116.
“Questo boschetto e questi bei campi di un terreno
ben coltivato, Fenio li ha consacrati
a eterno onore di una morta.
In questo sepolcro è sepolta Antulla,
rapita ai suoi, prematuramente.
L’uno e l’altro genitore si uniranno
ad Antulla in questo sepolcro.
Se qualcuno desidera questo campicello,
lo avverto di non sperarlo.
Esso servirà per sempre ai suoi padroni.”

5

Da “Epigrammi, Liber Quintus”, epigr. 34.
“Oh padre Frontone, oh madre Flaccilla
(già discesi nell’Ade),
vi raccomando questa bambina,
mia boccuccia e mia delizia,
affinché la piccola Erotion
non tremi di terrore davanti alle nere ombre
e alle mostruose fauci del cane tartareo.
Avrebbe compiuto appena il sesto inverno,
se fosse vissuta almeno altri sei giorni.
In compagnia di così vecchi protettori,
lei giochi spensierata e pronunzi il mio nome
con la sua bocca balbettante.
E la dura zolla non copra le sue delicate ossa;
e tu, oh terra, non esserle pesante:
infatti lei non lo è stata per te.”

6

Da “Epigrammi, Liber Quintus”, epigr. 37.
“(È morta Erotion), la bambina la cui voce,
per me, era più dolce del canto di un vecchio cigno;
era, per me, più tenera di un’agnella del Galeso Falantino;
era, per me, più delicata di una conchiglia dello stagno Lucrino
a cui non avresti preferito le perle eritree,
né la zanna della belva indiana, né la neve
appena caduta, né il giglio immacolato;
era lei che con la sua chioma vinceva il vello
delle pecore betiche, i capelli annodati
dei Germani e lo splendore dell’oro;
era lei che dalla boccuccia emanava il profumo
dei roseti di Pesto ed il profumo del primo miele dei favi attici
e il profumo di pezzetti d’ambra strappati dalle mani,
al cui confronto il pavone era brutto, lo scoiattolo era
privo di grazia e la fenice era un uccello comune.
La piccola Erotion, che la dura legge del più crudele destino
mi ha rapito nel sesto anno, e non ancora compiuto,
è ancora tiepida sul rogo intatto.
Lei era il mio amore, era la mia gioia ed era il mio svago.
E Peto non vorrebbe che io fossi triste, egli che, battendosi,
ad un tempo il petto e, strappandosi, i capelli mi dice:
“Non ti vergogni di piangere la morte
di una schiavetta? Io ho seppellito la moglie,
una donna illustre, superbe, nobile e ricca e tuttavia vivo”.
Chi potrebbe essere più forte del nostro Peto?
Ha ereditato venti milioni di sesterzi e tuttavia vive.”

7

Da “Epigrammi, Liber Sextus”, epigr. 28.
“Sotto questo marmo, lungo la Via Flaminia,
giace Glaucia, il liberto di Meliore da tutti conosciuto,
la cui morte fu pianta da tutta Roma,
breve delizia del caro patrono, fanciullo di casti costumi,
d’intatto pudore, di vivo ingegno e di incomparabile bellezza.
Aveva appena aggiunto un anno ai dodici già compiuti.
Possa tu, oh passeggero, che piangi su tale destino
non piangere mai.”

8

Da “Epigrammi, Liber Sextus”, epigr. 29.
“Glaucia, non era uno dei tanti schiavi della casa,
né era mai stato esposto sul palco da un avaro mercante,
ma era un fanciullo degno del puro amore del padrone;
e benché non potesse ancora comprendere la generosità
del suo signore, era già liberto di Meliore.
Ciò gli fu concesso per i suoi costumi e per la sua bellezza.
Chi più dolce di lui? Quale viso più bello del suo, degno di Apollo.
Le creature superiori hanno breve vita e raramente invecchiano.
Augurati che non piaccia troppo ciò che tu ami.”

9

Da “Epigrammi, Liber Sextus”, epigr. 85.
“Ecco, si pubblica il mio sesto libro, oh Camonio Rufo,
né il libro può sperare te fra i suoi lettori, oh amico.
L’empia Cappadocia, da te visitata sotto un cattivo auspicio,
rende il tuo cenere e le tue ossa al padre.
Piangi, o Bologna, privata del tuo Rufo,
e il compianto risuoni per tutta l’Emilia.
Ahimè, qual era la sua pietà, quanto giovane egli è morto!
Aveva appena visto la quinta Olimpiade.
Oh Rufo, tu che solevi recitare a memoria le nostre poesiole
e ricordare per intero i nostri scherzosi componimenti,
accetta insieme al pianto il breve carme
dell’amico addolorato, e stimalo un tributo
di incenso che egli ti invia da lontano.”

10

Da “Epigrammi, Liber Septimus”, epigr. 96.
“Io, il piccolo Urbico, a cui la potente Roma
ha dato la famiglia e il nome, sono qui sepolto,
motivo di pianto per Basso. Mi mancavano
sei mesi perché compissi i primi tre anni,
quando le crudeli dee tagliarono,
per mia sventura, il filo della mia vita.
Che mi giovarono la bellezza, il balbettìo e l’età?
Tu che leggi questa epigrafe versa lacrime sulla mia tomba:
cosicché colui a cui tu augurerai di sopravviverti
non scenda alle acque del Lete, se non più vecchio di Nestore.”

11

Da “Epigrammi, Liber Nonus”, epigr. 30.
“Antistio Rustico è morto nel crudele paese di Cappadocia.
Oh Terra colpevole di un triste delitto!
Nigrina ha riportato nel seno le ossa del caro marito,
lamentandosi che il viaggio era troppo corto.
E deponendo la venerata urna nel tumulo,
per cui sentiva invidia, le sembrò di essere
stata privata due volte del marito morto.”

12

Da “Epigrammi, Liber Nonus”, epigr. 76.
“Questo volto che voi vedete è quello del mio caro Camonio:
questo fu il viso e il primo aspetto di lui bambino.
Questo volto era cresciuto, divenendo più forte
per i suoi vent’anni: la barba godeva di tingere le gote
e la sua bionda lanuggine tagliata una sola volta
aveva or non è molto cosparso il filo del rasoio.
Una della Parche provò invidia e affrettando
lo svolgimento della conocchia tagliò lo stame,
e (la Parca) portò l’urna al padre e il cenere da lontano.
Ma affinché non sia soltanto il quadro a parlare
del bimbo, questa immagine racchiusa nei miei versi
sarà più duratura.”

13

Da “Epigrammi, Liber Decimus”, epigr. 26.
“Oh Varo, poco fa famoso nelle città egiziane
per il latino ramo di vite e comandante degno
di esser ricordato dai tuoi cento uomini, tu,
promesso invano ai cittadini di Roma,
adesso giaci, ombra ospite del lido egiziano.
Non ci fu consentito di bagnare con le nostre lacrime
il tuo freddo viso, né di spandere abbondante incenso
sul mesto rogo. Ma io ti dò, col mio carme che non perirà,
una fame eterna. Puoi forse, oh perfido Nilo,
impedire anche questo?”

14

Da “Epigrammi, Liber Decimus”, epigr. 50.
“Rompa la Vittoria nel suo dolore le palme idumee;
batti, oh Favore, il nudo petto con mano crudele;
l’Onore muti il suo abito e tu, oh Gloria,
afflitta getta alle inique fiamme, come offerta,
la tua chioma ornata di corona.
Oh, delitto! Tu muori, oh Scorpo, strappato
alla vita nel fiore della giovinezza,
e aggioghi così presto i neri cavalli.
Quella meta, verso cui sempre ti affrettavi
col tuo cocchio e rapidamente raggiungevi,
perché ti è stata posta tanto vicina nella vita?”

15

Da “Epigrammi, Liber Decimus”, epigr. 53
“Sono quel famoso Scorpo, gloria del rumoroso Circo,
oggetto, per te, oh Roma, di applausi e di gioia
per breve tempo, che l’invidiosa Lachesi rapì
a ventisette anni, credendolo un vecchio
per il numero delle vittorie.”

16

Da “Epigrammi, Liber Decimus”, epigr. 63.
“Oh viandante, tu leggi l’iscrizione di questo marmo,
piccolo ma non inferiore al monumento marmoreo
di Mausolo o alle Piramidi.
Ben due volte la mia persona fu ammirata nel romano
Tarento e non ho perduto nessuno dei miei cari prima di morire.
Giunone mi ha concesso cinque figli e altrettante figlie:
le loro mani chiusero i miei occhi.
Ho avuto anche un’altra gloria, che raramente
tocca alle donne sposate: nella mia pudicizia
ho conosciuto un solo pene.”

17

Da “Epigrammi, Liber Undecimus”, epigr. 13.
“Oh viandante, chiunque tu sia che passi per la via Flaminia,
non trascurare questo nobile monumento marmoreo.
In questo sepolcro è sepolto Paride e con lui sono sepolte
le delizie di Roma, le facezie del Nilo, l’arte, la grazia,
lo scherzo e il piacere, l’onore e il dolore
del teatro romano e tutte le Veneri e i Cupidi.”

18

Da “Epigrammi, Liber Undecimus”, epigr. 48.
“Silio, che già possiede la villa del facondo Cicerone,
onora questo sepolcro del sommo Virgilio.
Né Virgilio, né Cicerone avrebbero preferito un diverso erede
e padrone del proprio sepolcro e della propria casa.”

19

Da “Epigrammi, Liber Undecimus”, epigr. 91.
“In questo sepolcro è sepolta Canace, figlia di Eolis,
la piccola morta nel suo settimo anno.
Che delitto, che misfatto!
Oh viandante, che ti affretti a piangere, qui
non è permesso alzare lamenti sulla brevità della sua vita:
più crudele della morte è stato il genere di morte.
Uno schifoso morbo ha straziato il volto e
ha colpito la tenera bocca.
Il crudele male ha distrutto perfino le labbra,
che non poterono essere date intere al nero rogo.
Se la morte voleva arrivare con sì rapido volo,
sarebbe dovuta venire per una strada diversa.
Ma essa si affrettò a chiudere la via della carezzevole voce,
affinché la lingua non impietosisse le inflessibili dèe.”

20

Da “Epigrammi, Liber Duodecimus”, epigr. 52.
“Oh Sempronia, quel tuo Rufo, che soleva
cingere le tempie con la corona poetica,
la cui voce non era meno lodata dagli
impauriti imputati, è sepolto qui, il suo cenere
arde ancora d’amore per te. Nei campi elisi
viene raccontata la tua dolce avventura
e la stessa Tindaride ascolta stupita
il tuo rapimento. Tu, oh Sempronia,
fosti migliore che, abbandonato il rapitore,
tornasti a casa; lei, Elena, invece non volle
tornare dal marito, neppure richiamata.
Menelao ride, ascoltando il racconto
degli amori troiani: il tuo rapimento assolve
il frigio Paride. Quando un giorno quei luoghi,
sede felice dei pii, ti accoglieranno, non vi sarà
nella dimora di Stige un’ombra più nota di te.
Proserpina non guarda di cattivo occhio, ma
ama le donne rapite: questo amore (furtivo)
ti procurerà l’affetto della dea.”

Avete letto, avete meditato sul tema del dolore e della morte. Sono sicuro che ora siete più meditativi e più severi di prima!

 

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Modica, 26 febbraio 2020                                                                                             Prof. Biagio Carrubba

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