Gli aspetti religiosi e psicologici del libro
“Se questo è un uomo” di Primo Levi.
I
Io, B. C., elenco, con tristezza e mestizia, con serietà e criticità, quali sono, secondo me, gli aspetti più intimi, più elaborati e più filosofici che creano la preziosità e la beltà del libro.
L’aspetto religioso del libro e il rapporto di P. Levi con Dio.
Levi, stranamente, parla poco dei prigionieri che morivano e non invocano Dio, pur conoscendo la Bibbia e il suo rapporto con è detto solo una volta e solo per smentirlo: “Oggi io penso che se non per altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza; ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi” (pagina 140). Su questo punto Levi fu per tutta la vita un ateo e lo disse e lo dimostrò in molte occasioni della sua vita: da giovane e da adulto. Nel 1985 nell’intervista con Greer afferma: “Non ho alcuna religione. Poiché i miei genitori sono ebrei, mi sono costruito una cultura ebraica, ma molto tardi, dopo la guerra. Quando sono ritornato, mi sono ritrovato in possesso di una cultura supplementare e ho cercato di svilupparla. Ma non è mai stato così per la religione. È come se il mio senso religioso sia stato amputato. Non ne ho avuto uno. Possiedo ciò che Freud ha definito il senso oceanico. Se pensi all’universo, diventi religioso, ma ciò non mi crea alcun problema” (Dal libro Primo Levi. Opere vol. I e vol. II a cura di Marco Belpoliti Volume I. Cronologia pagina LXXVI. Nuova Universale Einaudi Editori). Nel 1986 nella intervista a Roth afferma: “Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che puro ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” (Volume I. Cronologia pagina LXXXI). Ma è nell’ultima sua opera I sommersi e i salvati che Levi dimostra la sua coerenza con l’ateismo di tutta la sua vita. Nel capitolo L’intellettuale ad Auschwitz, Levi con una forza d’animo d’ateo convinto e coerente in una pagina lucida e ferma, quasi incredibile, l’unica volta che sentì il bisogno di rivolgersi a Dio ma che eliminò subito per non essere ipocrita con sé stesso: “Come Amery, anch’io sono entrato in Lager come non credente (O ateo?), e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora, mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? Perché i bambini in gas? Devo ammettere tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire lucidamente l’imminenza della morte; quando, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare davanti alla “commissione” che con una occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forza per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non-credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare” (Da I Sommersi e i salvati nuova edizione Einaudi tascabili a cura di David Bidussa Pagine 117 – 118).
II
L’aspetto psicologico del libro: la descrizione esterna ed interna dei compagni di viaggio e di lavoro nel lager.
Levi descrive, non solo il mondo esterno del Lager, ma anche e soprattutto il mondo interiore dei suoi amici e dei conoscenti che Levi a mano a mano ha incontrato nel viaggio di andata (e poi nel viaggio di ritorno) e durante la prigionia nel lager. Ha descritto anche qualche tedesco con il quale ha avuto un rapporto comunicativo importante. Levi ci immerge così dentro il Lager, non soltanto dall’esterno, ma sapendo cogliere i momenti interni di alcuni suoi conoscenti. Levi non fa solo una analisi socio-biologica, considerando il comportamento degli uomini all’interno del Lager come scrive all’inizio del nono capitolo: “Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costume, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore ai bisogni: è quanto di più rigoroso per uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa sia acquisito nel comportamento dell’animale-uomo alla lotta per la vita” (pagina 79). Ma l’aspetto più affascinate e bello del libro è anche la capacità di levi di farci entrare nel mondo dei sentimenti, delle reazioni e dei pensieri dei vari personaggi vicino a lui e ci descrive tutti i mezzi e le astuzie per uscire vivi dal Lager. Da questo punto di vista, Levi ci fa vedere la vita del lager come se noi fossimo li con lui in quell’anno o come se vedessimo un film, nel quale assistiamo e conosciamo la vita interiore di molti prigionieri che condividevano la vita del Lager. La nostra rassegna dei personaggi segue il viaggio di Levi: dal momento della cattura al momento della liberazione, seguendo il percorso dei vari capitoli indicando per ogni capitolo i personaggi maggiori e più importanti, quelli descritti con maggiore efficacia e con maggiore obiettività. Il primo personaggio è Levi stesso. Nel primo capitolo Levi si auto descrive: “Ero stato catturato dalla Milizia Fascista il 13 dicembre 1943. Avevo 24 anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione” (pagina 11). Appena arrivati sulla banchina della stazione ferroviaria a Birkenau, poco distante da Auschwitz, Levi descrive l’impassibile comportamento delle SS che sorvegliavano i nuovi arrivati. Esse mostravano “Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno” (pag.17). E nella stessa pagina descrive la prima bambina vittima dei nazisti: “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte ai bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegnere Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito di spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte” (pagina 17). Sono descrizioni nitide e vivaci, che fanno venire i brividi alla pelle. Nel secondo capitolo Levi descrive un giovane prigioniero con il quale si vedono per la prima volta: “L’avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. Non ho più rivisto Schlome, ma non posso dimenticare il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti” (pagina 27). In questo stesso capito Levi descrive l’inizio insospettabile della morte: “Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, costituiscano un fattore di secondaria importanza. La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano” (pagina 30). Nel terzo capitolo Levi descrive il sergente Steinlauf il quale gli diceva: “Appunto perché il lager era una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve sopravvivere, per raccontare, portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro assenso” (pagine 35 – 36). Parole di altissima dignità morale e piene di altissimo senso della vita. Nel quarto capitolo levi incontra Walter Bonn, “un olandese civile e abbastanza colto” che gli dimostra l’esistenza dei forni crematori. Nel quinto capitolo Levi descrive il suo inseparabile amico Alberto: “Alberto è il mio migliore amico. Non ha che 22 anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. Sa chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure non è diventato un tristo. Ho sempre visto, ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte” (pagina 51). Nel sesto capitolo, Levi conosce il prigioniero di cuccetta Resnyk che dorme con lui nella stessa cuccetta: “Avere un compagno di letto di statura alta è una sciagura, vuol dire perdere ore di sonno; e a me toccano proprio sempre compagni alti, perché io sono piccolo e due alti insieme non possono dormire. Ma invece si è visto subito che Resnyk, malgrado ciò, non era un cattivo compagno. Parlava poco e cortesemente, era pulito, non russava, non si alzava che due o tre volte per notte e sempre con molta delicatezza” (pagina 58). Nel settimo capitolo, Levi conosce Templer che è l’organizzatore ufficiale del suo Kommando: “Templer è l’organizzatore ufficiale del nostro Kommando: ha per la zuppa dei Civili una sensibilità squisita, come le api per i fiori. Templer, oltre a essere un buon organizzatore, è un eccezionale mangiatore di zuppa, e, cosa unica, è in grado di svuotare l’intestino, volontariamente e preventivamente, in vista di un pasto voluminoso, il che contribuisce alla sua capacità gastrica stupefacente” (pagina 68). Nell’ottavo capitolo, Levi descrive i commerci tra i vari prigionieri e del senso morale che ne derivava, concludendo: “Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato” (pagina 78). Nel nono capitolo, Levi descrive quattro prominenti: Schepschel, Alfred, L. Elias, Henri: “Schepschel non è molto robusto. Né molto coraggioso, né molto malvagio; non è neppure particolarmente astuto, e non ha mai trovato una sistemazione che gli conceda un po’ di respiro, ma è ridotto agli espedienti spiccioli e saltuari. Ciò detto, ci si può sentire portati a pensare a Schepschel con indulgente simpatia, come a un meschino il cui spirito non alberga che umile ed elementare volontà di vita, e che conduceva valorosamente la sua piccola lotta per non soccombere. Ma Schepschel non era un’eccezione, e quando l’occasione si presentò, non esitò a far condannare alla fustigazione Moischl, che gli era stato complice in un furto alla cucina, nella speranza, malamente fondata, di acquistarsi merito agli occhi del Blockaltester, e di portare la sua candidatura al posto di lavoratore delle marmitte” (pagina 84). Levi di Alfred. L. Dice: “Era un uomo robusto sulla cinquantina; non so come fosse stato arrestato, ma in campo era entrato come tutti entravano: nudo, solo e sconosciuto. Il suo piano era di lungo respiro, il che è tanto più notevole in quanto era stato concepito in un ambiente in cui dominava la mentalità del provvisorio; e L. lo attuò con rigida disciplina interiore, senza pietà per sé, né, a maggior ragione, per i compagni che gli attraversavano il cammino” (pagina 85). Levi di Elias Lindzin dice: “Era un nano, non più alto di un metro e mezzo, ma non ho mai visto una muscolatura come la sua…Pare che a lui nulla sia impossibile. Mentre noi portiamo a stento un sacco di cemento, Elias ne porta due, poi tre, poi quattro, mantenendoli in equilibrio non si sa come, e mentre cammina fitto fitto sulle gambe corte e tozze, fa smorfie di sotto il carico, ride, impreca, urla e canta senza requie, come se avesse polmoni di bronzo (pag.86). Elias è sopravvissuto alla distruzione fisica dal di fuori, perché è fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annientamento dal di dentro, perché è un demente” (pagina 88). E conclude: “Ma una cosa ancora vorremmo aggiungere: Elias, per quanto ci è possibile giudicare da di fuori, e per quanto la frase può avere di significato, Elias era verosimilmente un individuo felice” (pagine 86 – 89). Levi di Henri dice: “Non c’è anima così indurita su cui Henri non riesca a far breccia, se ci si mette seriamente. In Lager, e anche in Buna, i suoi protettori sono numerosissimi: soldati inglesi, operi civili, francesi, ucraini, polacchi, politici tedeschi; almeno quattro Blockalteste, un cuoco, perfino una SS. Ma il suo campo preferito è il ka-Be; in Ka-Be Henri ha ingresso libero, il dottor Citron e il dott Weiss sono, più che suoi protettori, suoi amici, e lo ricoverano quando vuole, e con la diagnosi che vuole”. E conclude: “Da tutti i colloqui con Henri, anche dai più cordiali, sono sempre uscito con un leggero sapore di sconfitta; col sospetto confuso di essere stato anch’io, in qualche modo inavvertito, non un uomo di fronte a lui, ma uno strumento nelle sue mani. Oggi so che Henri è vivo. Darei molto per conoscere la sua vita di uomo libero, ma non desidero rivederlo” (pagina 90). Nel decimo capitolo, Levi descrive il dottore tedesco che lo ha interrogato negli esami di chimica. Lo descrive con queste parole: “Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: “Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile” (pagina 95).
Nell’undicesimo capitolo, Levi descrive Jean, un giovane Pikolo: “Ora, Jean, era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non trascurava di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati; d’altra parte, era stato tanto abile e perseverante da affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo” (pagina 99). Nel dodicesimo capitolo, Levi incontra e descrive il suo amico e benefattore Lorenzo: “Un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso” (pagina 107). Nel tredicesimo capitolo, Levi, dopo la selezione di ottobre, descrive Kuhn: “Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn” (pagina 116). Nel quattordicesimo capitolo, Levi incontra e conosce Kraus. Ecco come Levi lo descrive: “Kraus ha sbagliato un colpo, un pacchetto, di mota vola e mi si appiccica sulle ginocchia. Non è la prima volta che succede, senza molta fiducia lo ammonisco di fare attenzione: è ungherese, capisce assai male il tedesco, e non sa una parola di francese. È lungo lungo, ha gli occhiali e una curiosa faccia piccola e storta, quando ride sembra un bambino, e ride spesso” (pagina 118). Nel quindicesimo capitolo, Levi descrive una giovane tedesca: “Se parlassi meglio tedesco, potrei provare a spiegare tutto a Frau Mayer; ma certo non capirebbe, o se fosse così intelligente e così buona da capire, non potrebbe sostenere la mia vicinanza, e mi fuggirebbe, come si fugge il contatto con un malato incurabile o con un condannato a morte. O forse mi regalerebbe un buono per mezzo litro di zuppa civile. Quest’anno è passato presto” (pagine 127 – 128). Nel sedicesimo capitolo, Levi descrive l’impiccagione di un ammutinato: “L’uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta. Si dice che avesse relazioni cogli insorti di Birkenau, che abbia portato armi nel nostro campo, che stesse tramando un ammutinamento simultaneo anche tra di noi. Morrà oggi sotto i nostri occhi: e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria, la morte di uomo che gli è stata riservata, gli frutterà gloria, e non infamia” (pagine 132 – 133). Nel diciassettesimo capitolo, Levi descrive la morte di alcuni prigionieri dopo l’abbandono del campo dei tedeschi. Levi descrive la morte di Lakmaker: “Charles discese da letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, lo ripose di peso nel letto rifatto, nell’unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemprò un po’ di coramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche sé stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva” (pagina 178). Dopo di lui muore anche Somogyi. Ma il finale del libro non riguarda altri morti, bensì Levi descrive gli amici che lo aiutarono negli ultimi 10 giorni: Arthur e Charles: “Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno” (pagina 153). Praticamente con questo finale ha dato inizio al seguito di “Se questo è un uomo”. Levi ha scritto i primi capitoli della Tregua subito dopo la stesura di “Se questo è un uomo”, ma per vari motivi ha scritto “La tregua” solo nel 1962, pubblicato nel 1963. Nell’appendice del 1976 Levi ha commentato con queste la sua esperienza del lager: “Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo mi è stato dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giovato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed al mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l’animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a tutti), ma di sopravvivere allo scopo di preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva a molti al naufragio spirituale” (pagine 177 – 178).
Modica 01 giugno 2019 Prof. Biagio Carrubba
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