IL BELLISSIMO INNO ALLA VITA E IL TEMA DEL DOLORE UNIVERSALE DI G. LEOPARDI.

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IL BELLISSIMO INNO ALLA VITA E IL
TEMA DEL DOLORE UNIVERSALE DI G. LEOPARDI.

Il 1823 è l’ultimo anno in cui Leopardi crede ancora in una natura positiva e alla vita come scrive nelle bellissime pagine 3813 – 3815 che, per la loro bellezza ed importanza, si possono definire come il più bello inno alla vita: “L’amor della vita, il piacere delle sensazioni vive, dell’aspetto della vita ec. delle quali cose altrove è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, sono termini contraddittorii. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e procurerebbe contro sé stessa. S’ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s’ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785, principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), né amerebbe il suo maggior possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl’individui e nella specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa né fine più naturale, né più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l’esistenza e la vita, la quale è quasi tutt’uno colla stessa natura, né amore più naturale, né naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà né diversi generi di cose esistenti. Quindi ell’è in certo modo la vita o l’esistenza stessa, siccome l’infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perché vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch’è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggiore vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt’uno colla natura, la vita divisa ne’ particolari è tutt’uno co’ rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama sé stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L’essere esistente non può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch’ei possa, in veruno istante dell’esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può odiar sé stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch’ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch’egli possa onninamente amare. Sicché l’uomo, l’animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch’egli ama sé stesso. (31 ott. 1823)” (Tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pag. 748).

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Il tema del dolore universale.

G. Leopardi afferma che non c’è né ombra né speranza di salvezza per ogni essere vivente; l’esempio più famoso che Leopardi porta è il tema della sofferenza diffusa in tutti gli esseri viventi come ha scritto in questo passo dello Zibaldone nelle pagine 4176 e 4177: “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance (sofferenza), qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là uno zeffiretto va stracciando un fiore, volta con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19 aprile 1826). Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è triste e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere (Bologna. 22 apr. 1826)”. (Tratto dallo Zibaldone – I Mammut – Newton Editore, vol. II Pagg. 854 – 855).

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Modica 11/ 09/ 2018                                                                                            Prof. Biagio Carrubba

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