“ASPASIA MON AMOUR” di Giacomo Leopardi, riduzione scenica di Biagio Carrubba.

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“ASPASIA MON AMOUR” di Giacomo Leopardi, riduzione scenica di Biagio Carrubba.

Le cinque bellissime poesie del “Ciclo di Aspasia” sono state scritte dal Leopardi in relazione alla sua struggente passione amorosa per la bella signora fiorentina Fanny Ronchivecchi, sposata con il naturalista Antonio Targioni. Esse rappresentano un periodo ben preciso della vita del poeta, dal 1830 al 1834-1835, e sanno descrivere in maniera sublime tutto il processo del suo innamoramento, del suo amore, e le forti emozioni che egli provò suscitate e provocate dal comportamento di indifferenza o dagli atteggiamenti per lo meno ambigui della signora.
La prima poesia, “IL PENSIERO DOMINANTE”, esprime tutto il potere dell’amore che il poeta subisce alla maniera dei poeti stilnovisti. La seconda poesia, “AMORE E MORTE”, esprime l’idea che l’”Amore” non è l’unico signore ad aiutare gli uomini sulla terra, ma ha una sorella, la “Morte”, la quale è una bellissima donna che libera da ogni male. La terza poesia, “CONSALVO”, esprime il più grande desiderio del poeta verso la bellissima Fanny e cioè il desiderio di ricevere da lei un bacio. Ma siccome il poeta non ha il coraggio di chiederglielo allora si nasconde sotto le spoglie di Consalvo e glielo dice immaginando di essere lui in punta di morte; Consalvo-Leopardi immagina pure che Elvira-Fanny gli dia più di mille baci, che gli allevieranno il momento del trapasso. La quarta poesia, “A SE STESSO”, è brevissima, ma molto intensa ed esprime la presa di coscienza del poeta sull’impossibilità di quell’amore irrealizzabile. Il poeta capisce che quindi è necessario accettare la triste e dura realtà di ritornare ad essere, e sentirsi di nuovo, solo in questo universo, ma dice anche che la vita e l’universo intero, non sono altro che “un’infinita vanità del tutto”. La quinta ed ultima poesia, “ASPASIA”, esprime il congedo definitivo da Fanny, ancora viva e bella, ma ormai lontana da lui e dal suo cuore. L’epilogo di Aspasia esprime il cambiamento del poeta, da uomo pieno di illusioni e di speranze nell’amore e nei suoi benefici, diventa un uomo neghittoso, indifferente, immobile e cinico a cui non resta altro che un sorriso cinico e beffardo con il quale andare avanti nell’esistenza tutto raccolto sulla “ferma sponda dell’intelletto” affinché non si abbandoni allo sterile sconforto, ma affinché possa ritrovare la forza di procedere nella nuova esistenza di Napoli. Ora tutto ciò, come è ben evidente, costituisce un dramma interiore che si può ridurre ad un \a tragedia in 5 atti, nella quale le 5 poesie, una dopo l’altra, ci raccontano la storia drammatica di questo amore non corrisposto, anzi silenzioso poiché tutto si svolge nella mente del poeta. Le 5 poesie costituiscono la sceneggiatura, i vari monologhi, gli sfoghi, le riflessioni del poeta sulla vita e sull’amore. La trama della tragedia inizia con l’incontro del poeta con la bellissima Fanny, poi si prosegue con l’innamoramento del poeta e la sua passione per la bella donna, il dramma di non poter dichiarare il suo amore e la presenza del suo migliore amico Antonio Ranieri, che è, invece, l’oggetto di desiderio della bella Fanny. La tragedia dispiega la delusione amorosa provata dal poeta e il fallimento del suo tentativo di amare una bella donna per ricevere almeno un bacio nella vita. Il poeta nella tragedia si traveste in Consalvo, che in punto di morte chiede ed ottiene da Elvira il tanto sognato e desiderato bacio, a differenza della triste realtà nella quale il povero Leopardi non ha neppure il coraggio di chiedere il bacio e quindi esce dalla casa della bella Fanny Targioni Tozzetti afflitto, sconsolato, deluso, amareggiato e solitario. Il dramma finale consiste nel congedo del poeta da Fanny e il cambiamento di Leopardi che, ormai deluso da tutto e da tutti, diventa cinico, indifferente, distante ed ironico verso “l’infinita vanità del tutto”. Ma oltre a questo tema dominante, il poeta espone anche le sue idee sulla storia, sul suo tempo, sulle vane speranze che gli uomini ripongono nel paradiso come insegna la religione.

Atto I:

Inizia il dramma. Il trentaduenne poeta Giacomo Leopardi, di nobile famiglia ma che viveva con pochi soldi, si trasferisce a Firenze, dove conosce e frequenta la casa della bella gentildonna Fanny Ronchivecchi sposata al dottore Antonio Targioni Tozzetti. Il giovane poeta, già famoso per le sue belle poesie e per il suo fisico minuto e ingobbito, è aperto alla vita, è combattivo, è forte di un nuovo fervore di vita e cerca l’amore di una donna, che fino ad allora aveva desiderato, ma mai avuto. La signora Fanny, invece, era una donna cordiale, galante verso i suoi spasimanti che andavano e venivano nel salotto della sua casa. Il poeta a poco a poco si innamora della bella signora e nella lettera del 5 dicembre del 1831, che le invia da Roma, le dichiara, tra le righe, il suo amore; ma Fanny aveva gli occhi solo per gli altri e in particolare per Antonio Ranieri, grande amico di Leopardi ed innamorato dell’attrice Maria Signorini, sposata con il signor Pelzet. Ecco uno stralcio della lettera che Leopardi inviò a Fanny Targioni Tozzetti nella quale il poeta esprime, celati, i suoi sentimenti: “Cara Fanny. Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma infine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benché forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri si, perché di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri, del vostro silenzio…Ma io ho ben torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che ancora voi siete inclinata alla malinconia, ma come sono state e comunque saranno in eterno tutte le anime gentili e di ingegno. Ma con tutta sincerità, e nonostante la mia filosofia nera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga, cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. Addio cara Fanny: salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarvi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi. Il vostro Leopardi”. (Da LEOPARDI Mammut vol. I pag. 1406). Ma è già incominciato il dramma personale del poeta perché egli vive questa passione in silenzio e non osa confessare il suo amore alla bella donna e il pensiero di lei diventa dominante nella sua mente. L’intreccio dei sentimenti si complica perché Fanny si invaghisce di Antonio, amico del poeta, e per avere notizie su Ranieri ne parla con Leopardi. In questo turbinio di sentimenti, il più debole ed indifeso tra i tre è il poeta che vive una situazione psicologia fragile e appassionata perché è imprigionato e dominato da una passione travolgente ed esaltante per Fanny e si sente scosso dalle sue sensazioni interne, dalle pulsioni sessuali e dall’amore estatico e nobile che la bella donna gli fa nascere nel suo amino fragile, nobile e sconvolto. Il giovane poeta in questa situazione ingarbugliata, quando rientra nella sua triste, povera e solitaria casa, conscio della propria infelicità e disperazione, sublima i propri sentimenti scrivendo la prima poesia del Ciclo di Aspasia, cioè il primo atto del dramma, nel quale il poeta si rende conto che è dominato dall’amore e dal pensiero di lei.

Testo della poesia “IL PENSIERO DOMINANTE”.

Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lugubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Di tua natura arcana
chi non favella? Il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.

Come solinga è fatta
la mente mia d’allora
che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d’intorno intorno al par del lampo
gli altri pensieri miei
tutti si dileguàr. Siccome torre
in solitario campo,
tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Che divenute son, fuor di te solo,
tutte l’opre terrene,
tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
gli ozi, i commerci usati,
e di vano piacer la vana spene,
allato a quella gioia,
gioia celeste che da te mi viene!

Come da’ nudi sassi
dello scabro Apennino
a un campo verde che lontan sorrida
volge gli occhi bramoso il pellegrino;
tal io dal secco ed aspro
mondano conversar vogliosamente,
quasi in lieto giardino, a te ritorno,
e ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Quasi incredibil parmi
che la vita infelice e il mondo sciocco
già per gran tempo assai
senza te sopportai;
quasi intender non posso
come d’altri desiri,
fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri.

Giammai d’allor che in pria
questa vita che sia per prova intesi,
timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
quella che il mondo inetto,
talor lodando, ognora abborre e trema,
necessitade estrema;
e se periglio appar, con un sorriso
le sue minacce a contemplar m’affiso.

Sempre i codardi, e l’alme
ingenerose, abbiette
ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
subito i sensi miei;
move l’alma ogni esempio
dell’umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
che di vote speranze si nutrica,
vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l’util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
maggior mi sento. A scherno
ho gli umani giudizi; e il vario volgo
a’ bei pensieri infesto,
e degno tuo disprezzator, calpesto.

A quello onde tu movi,
quale affetto non cede?
anzi qual altro affetto
se non quell’uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
studio d’onor, di regno,
che sono altro che voglie
al paragon di lui? Solo un affetto
vive tra noi: quest’uno,
prepotente signore,
dieder l’eterne leggi all’uman core.

Pregio non ha, non ha ragion la vita
se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz’altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
provar gli umani affanni,
e sostener molt’anni
questa vita mortal, fu non indegno;
ed ancor tornerei,
così qual son de’ nostri mali esperto,
verso un tal segno a incominciare il corso:
che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
giammai finor sì stanco
per lo mortal deserto
non venni a te, che queste nostre pene
vincer non mi paresse un tanto bene.

Che mondo mai, che nova
immensità, che paradiso è quello
là dove spesso il tuo stupendo incanto
parmi innalzar! dov’io,
sott’altra luce che l’usata errando,
il mio terreno stato
e tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
degl’immortali. Ahi finalmente un sogno
in molta parte onde s’abbella il vero
sei tu, dolce pensiero;
sogno e palese error. Ma di natura,
infra i leggiadri errori,
divina sei; perché sì viva e forte,
che incontro al ver tenacemente dura,
e spesso al ver s’adegua,
nè si dilegua pria, che in grembo a morte.

E tu per certo, o mio pensier, tu solo
vitale ai giorni miei,
cagion diletta d’infiniti affanni,
meco sarai per morte a un tempo spento:
ch’a vivi segni dentro l’alma io sento
che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
soleami il vero aspetto
più sempre infievolir. Quanto più torno
a riveder colei
della qual teco ragionando io vivo,
cresce quel gran diletto,
cresce quel gran delirio, ond’io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
quasi una finta imago
il tuo volto imitar. Tu sola fonte
d’ogni altra leggiadria,
sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria,
di qual mia seria cura ultimo obbietto
non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
la tua sovrana imago
quante volte mancò? Bella qual sogno,
angelica sembianza,
nella terrena stanza,
nell’alte vie dell’universo intero,
che chiedo io mai, che spero
altro che gli occhi tuoi veder più vago?
altro più dolce aver che il tuo pensiero?

Parafrasi e costruzione diretta della poesia: “IL PENSIERO DOMINANTE”.

Pensiero dolcissimo, possente,
dominatore della mia mente;
terribile, ma dolce
dono del cielo;
compagno dei miei tristi giorni,
pensiero, che torni così spesso
nella mia mente.

Chi non parla della
tua misteriosa natura?
Chi non sentì il suo potere?
Eppure ogni volta il sentimento amoroso
si fa sentire, ed esso stimola la lingua
a parlare e sembra nuovo
per chi ascolta ciò che esso dice.

La mia mente si è fatta vuota
da quando tu (pensiero di Fanny) domini e stai da solo
in mezzo ad essa. Gli altri pensieri
si dileguarono tutti di un tratto.
E tu sei rimasto solo, gigante,
in mezzo ad essa, come una torre
in un solitario terreno.

Per il poeta tutte le altre azioni quotidiane sono diventate poca cosa.

Le mie azioni giornaliere,
la mia vita intera
sono diventate poco o niente
alla mia vista, ad eccezione di te.
Gli svaghi, le compagnie e
la vana speranza di un remoto piacere
sono diventati niente in confronto della
gioia che mi viene da te, o pensiero amoroso.

Come il viandante che viaggia
nel roccioso Appennino, sorride
alla vista di un campo verde,
così io, dopo un conversare mondano,
ritorno a te con desiderio,
e la tua presenza rinforza i miei sensi.

Mi sembra quasi incredibile
che io sia riuscito a sopportare,
per un tempo così lungo,
la mia vita infelice e la gente sciocca.
Mi sembra quasi incredibile
che altri possano avere
altri desideri che non somiglino a te.

Ed in ultimo il poeta parla anche del tema a lui più caro e cioè della morte e già delinea la soluzione finale del dramma e cioè il suo comportamento cinico.

Da quando per la prima volta
compresi, per esperienza diretta,
che cosa è la vita,
la paura della morte non
mi strinse il petto.
Oggi la morte, che la gente
talora loda, ma sempre aborre e teme,
mi pare un gioco;
e se un pericolo appare
mi fermo a contemplare
le sue minacce con un sorriso.

Ma anche l’età presente con la sua folla variopinta di persone diventa poca cosa.

Ho sempre avuto in gran dispregio
le persone volgari e abbiette.
Ora ogni atto indegno mi ferisce l’anima e
ogni azione di inciviltà mi smuove
subito l’anima a sdegno.
Io sono più grande
di questa società superba,
che si nutre di chiacchiere ed
è nemica delle virtù;
è stupida perché insegue l’utile,
e per questo non vede che la vita
diventa sempre più inutile.
Ho in grande scherno i pregiudizi umani,
e calpesto il volgo, ostile
ai bei pensieri e tuo disprezzatore.

Quale sentimento è uguale al sentimento
amoroso, dal quale tu, o pensiero mio, discendi?
Anzi nessun altro sentimento dovrebbe vivere
tra i mortali?
L’avidità, la superbia, l’odio, il disprezzo,
la ricerca di onore, la ricerca di potere
che cosa sono rispetto a te se non altro che
voglie e bassi appetiti?
Solo il sentimento dell’amore,
che le eterne leggi della natura
hanno dato agli uomini,
dovrebbe vivere tra di noi.

A questo punto il poeta capisce che l’amore è il sentimento più bello, più nobile, più importante per tutti gli uomini, tanto che esso costituisce la sola discolpa al destino che pose gli uomini a soffrire su questa terra e tanto che solo per gli uomini più nobili e gentili la vita è più bella della morte.

La vita non ha valore, non ha senso
se non per te, o pensiero d’amore,
dato che tu sei tutto per gli uomini.
Tu sei stato la sola discolpa al fato,
che pose gli uomini in terra
a soffrire senza una ricompensa;
tu sei il solo sentimento
grazie al quale solo agli uomini
puri e non vili, la vita è più bella della morte.

Questa ultima affermazione richiama ovviamente la bellissima poesia di Mimnermo, che sintetizza tutta la concezione filosofica del Leopardi.

Testo della poesia “AL MODO DELLE FOGLIE” di Mimnermo.

Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
E ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età
ignorando il bene e il male per dono dei celesti.
Ma le nere dee ci stanno sempre a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto della giovinezza,
come la luce di un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.

Ma è proprio su questo tema di scelta, cioè sull’amore che il poeta dichiara la sua voglia di vivere, pur vivendo una vita infelice.

Vivere, per cogliere le tue gioie,
o pensiero amoroso, non è cosa indegna,
anche se bisogna provare gli umani affanni,
anche se bisogna sopportare
per molti anni la vita mortale;
anche io ritornerei di nuovo a vivere,
benché sono esperto dei mali terreni,
per raggiungere le gioie dell’amore:
sebbene tra l’aridità della vita e tra i morsi delle vipere,
non sono arrivato fin a oggi tanto disperato
da non credere che il tuo bene non
potesse vincere le pene degli uomini.

Il poeta, dunque, preso dal pensiero amoroso gli sembra impossibile che abbia potuto sopportare la sua vita infelice e gli sembra incredibile come gli altri possano desiderare altro che non sia l’amore.

Che meraviglioso mondo,
che straordinaria immensità,
che paradiso è quello là,
dove spesso il tuo stupendo incanto
mi pare che mi innalzi!
Dove io (nel pensiero dominante),
perdendo il modo di vedere consueto,
vedo sotto una luce diversa il mio stato terreno,
e dimentico la dolorosa verità dell’esistenza!
Questi sono, credo, i sogni degli immortali.
Ma in ultimo, tu, o pensiero amoroso,
sei un sogno con il quale la realtà si fa bella;
tu, o pensiero amoroso, sei un sogno e
una erronea illusione. Ma tu sei di natura divina
tra suadenti illusioni, perché essa è così viva e
forte e resiste alla realtà e spesso si
confonde con essa e non scompare che con la morte.

E tu, o pensiero mio,
che sei vitale ai miei giorni,
che sei motivo di gioia di infiniti affanni,
morirai con me spento dalla morte:
perché io sento, da indizi chiari, che tu
sarai il mio signore per molti anni.
Il vero aspetto di altre donne
infievoliva le altre mie dolci
illusioni d’amore.

Ma il poeta esprime anche che cosa prova quando ripensa alla bella donna.

Invece, quanto più ripenso a colei
della quale io ragiono con te, o pensiero mio,
tanto più cresce il mio gran diletto,
tanto più cresce il mio delirio, per il quale io respiro.
Angelica bellezza!
Mi sembra che ogni bel viso,
dovunque io guardi,
sia una finta immagine che
voglia imitare il tuo bel volto.
Tu, o angelica bellezza, sei la
sola fonte di ogni altra bellezza,
e mi sembra che tu sia la sola vera bellezza.

Da quando ti vidi per la prima volta,
tu non sei diventata l’unico scopo
dei miei seri interessi?
Quanto tempo del giorno è trascorso,
che io non pensai a te?
Quante volte la tua sovrana immagine
venne meno ai miei sogni?
Angelica immagine,
bella come un sogno,
sia sulla terra,
sia nelle alte vie dell’universo,
che spero altro più bello
che vedere i tuoi occhi?
Che spero altro più dolce
che avere il tuo pensiero?

 Atto II.

Il secondo atto del dramma sviluppa proprio il tema della morte. A mano a mano che il poeta diventa consapevole che il suo amore non può essere corrisposto dalla bella signora, che non mostra nessun atteggiamento amoroso verso di lui, egli pensa più insistentemente alla morte cioè l’altra grande soluzione che lo può far uscire dalla sua totale infelicità. Ma è proprio nella raffigurazione della morte che si rivela la genialità del Leopardi, il quale rappresenta la morte, non come fanno gli uomini della terra in forma terribile e dolorosa, ma come una bella fanciulla o meglio ancora come una madre dolce e affettuosa che accoglie nel suo vergineo seno i suoi figli. Il poeta inizia il secondo atto dicendo che l’amore e la morte sono le cose più belle per gli uomini ed insieme sorvolano la vita umana. Ugo Dotti esprime così questo concetto: “Il Fato concede alla sventurata umanità due unici conforti – Amore e Morte – che potenziano l’uomo dandogli consapevolezza di sé; che si rimandano l’uno all’altro, e concludono esemplarmente il pellegrinaggio terreno” (Da Giacomo Leopardi – Canti- Feltrinelli editore – A cura di Ugo Dotti – pag. 115).

Testo della poesia “AMORE E MORTE”.

Muor giovane colui ch’al cielo è caro
MENANDRO.

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
dolce a veder, non quale
la si dipinge la codarda gente,
gode il fanciullo Amore
accompagnar sovente;
e sorvolano insiem la via mortale,
primi conforti d’ogni saggio core.
Né cor fu mai più saggio
che percosso d’amor, né mai più forte
sprezzò l’infausta vita,
né per altro signore
come per questo a perigliar fu pronto:
ch’ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
o si ridesta; e sapiente in opre,
non in pensiero invan, siccome suole,
divien l’umana prole.

Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come, non so: ma tale
d’amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
allor questo deserto: a se la terra
forse il mortale inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicità che il suo pensier figura:
ma per cagion di lei grave procella
presentendo in suo cor, brama quiete,
brama raccorsi in porto
dinanzi al fier disio,
che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge
la formidabil possa,
e fulmina nel cor l’invitta cura,
quante volte implorata
con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall’affannoso amante!
quante la sera, e quante
abbandonando all’alba il corpo stanco,
se beato chiamò s’indi giammai
non rilevasse il fianco,
né tornasse a veder l’amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
al canto che conduce
la gente morta al sempiterno obblio,
con più sospiri ardenti
dall’imo petto invidiò colui
che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
l’uom della villa, ignaro
d’ogni virtù che da saper deriva,
fin la donzella timidetta e schiva,
che già di morte al nome
sentì rizzar le chiome,
osa alla tomba, alle funeree bende
fermar lo sguardo di costanza pieno,
osa ferro e veleno
meditar lungamente,
e nell’indotta mente
la gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
d’amor la disciplina. Anco sovente,
a tal venuto il gran travaglio interno
che sostener nol può forza mortale,
o cede il corpo frale
ai terribili moti, e in questa forma
pel fraterno poter Morte prevale;
o così sprona Amor là nel profondo,
che da se stessi il villanello ignaro,
la tenera donzella
con la man violenta
pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
a cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,
agli animosi ingegni
l’uno o l’altro di voi conceda il fato,
dolci signori, amici
all’umana famiglia,
al cui poter nessun poter somiglia
nell’immenso universo, e non l’avanza,
se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
sempre onorata invoco,
bella Morte, pietosa
tu sola al mondo dei terreni affanni,
se celebrata mai
fosti da me, s’al tuo divino stato
l’onte del volgo ingrato
ricompensar tentai,
non tardar più, t’inchina
a disusati preghi,
chiudi alla luce omai
questi occhi tristi, o dell’età reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
che tu le penne al mio pregar dispieghi,
erta la fronte, armato,
e renitente al fato,
la man che flagellando si colora
nel mio sangue innocente
non ricolmar di lode,
non benedir, com’usa
per antica viltà l’umana gente;
ogni vana speranza onde consola
se coi fanciulli il mondo,
ogni conforto stolto
gittar da me; null’altro in alcun tempo
sperar, se non te sola;
solo aspettar sereno
quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
nel tuo virgineo seno.

Parafrasi della poesia “AMORE E MORTE”.

La sorte generò ad un tempo
l’Amore e la Morte.
La terra e le stelle
non hanno altre cose più belle.
Il bene nasce dall’Amore,
e anche il piacere maggiore,
che si trova nell’universo,
nasce dall’Amore.
La Morte annulla ogni male
e ogni dolore.
O Morte, tu sei una bellissima fanciulla,
sei bella a vedersi, e non sei brutta
come ti raffigura la gente.

Dopo aver esposto l’amore e la morte, come bellissimi fratelli, il poeta invoca la morte per dar fine alla sua infelice vita; ma la morte non lo troverà depresso, a testa bassa, perché il poeta non ha paura di lei, anzi, sarà contento perché così potrà appoggiare il suo volto nel suo virgineo seno.

E tu, o, morte bella ed onorata,
che io ti chiamo già fin dalla mia fanciullezza,
pietosa degli affanni umani,
dopo che io ti ho celebrata, e ho
cercato di compensarti degli insulti
che ti manda la gente ingrata,
esaudisci le mie preghiere e
chiudi questi miei occhi tristi,
o regina del tempo.
Troverai, certo, me qualsiasi
sia il momento che tu verrai da me,
con la testa alzata, indomito,
e resistente all’infelicità;
troverai me che non benedico
la mano del fato che si colora
del mio sangue innocente;
troverai me che non ti riempio di lodi
come gli uomini usano fare
per antica consuetudine e viltà;
troverai me che getto via
ogni vana speranza con cui
gli uomini si consolano
come i fanciulli;
troverai me che aspetto solo te;
troverai me che solo e sereno,
aspetto quel giorno che, addormentato, affinché
possa piegare il mio capo
sul tuo virgineo seno.

Atto III.

Nel terzo atto il poeta raggiunge il momento più struggente ed esaltante della sua disperazione. Leopardi ha cercato di manifestare il suo amore verso la signora con i suoi atti, con il suo volto turbato e con gli occhi, ma Fanny non l’ha mai voluto capire. Il poeta, afflitto dall’amore e dal desiderio carnale, vorrebbe un bacio dalla bella signora, ma non osa chiederlo. Il Leopardi, allora, riprendendo la storia “Il conquisto di Granada” di Girolamo Graziani (1604 – 1675), scrive il monologo del terzo atto nascondendosi sotto le spoglie di Consalvo, il quale, ormai sopraffatto dalla morte, chiede un bacio ad Elvira.

Testo della poesia “CONSALVO”.

Presso alla fin di sua dimora in terra,
giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
del suo destino; or già non più, che a mezzo
il quinto lustro, gli pendea sul capo
il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
così giacea nel funeral suo giorno
dai più diletti amici in terra al alungo andar nessuno
resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era a fianco, da pietà condotta
a consolare il suo deserto stato,
quella che sola e sempre eragli a mente,
per divina beltà famosa Elvira;
conscia del suo poter,conscia che un guardo
suo lieto,un detto d’alcun dolce asperso,
ben mille volte ripetuto e mille
nel costante pensier, sostegno e cibo
esser solea dell’infelice amante:
benchè nulla d’amor parola udita
avess’ella da lui. Sempre in quell’alma
era del gran desio stato più forte
un sovrano timor. Così l’avea
fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
alla sua lingua. Poiché certi i segni
sentendo di quel dì che l’uom discioglie,
lei, già mossa a partir, presa per mano,
e quella man bianchissima stringendo,
disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza:
Elvira,addio. Non ti vedrò, ch’io creda,
un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
qual maggior grazia mai delle tue cure
dar possa il labbro mio. Premio daratti
chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

Impallidia la bella, e il petto anelo
udendo le si fea: che sempre stringe
all’uomo il cor dogliosamente, ancora
ch’estranio sia, chi si diparte e dice,
addio per sempre. E contraddir voleva,
dissimulando l’appresar del fato,
al moribondo. Ma il suo dir prevenne
quegli, e soggiunse: desiata. E molto,
come sai, ripregata a me discende,
non temuta, la morte; e lieto apparmi
questo feral mio dì. Pesami, è vero,
che te perdo per sempre. Oimè per sempre
parto da te. Mi si divide il core
in questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
in tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga
non si nega a chi muor. Né già vantarmi
potrò del dono, io semispento, a cui
straniera man le labbra oggi fra poco
eternamente chiuderà. Ciò detto
con un sospiro, all’adorata destra
le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto
la bellissima donna; e fiso il guardo,
di mille vezzi afavillante, in quello
tenea dell’infelice, ove l’estrema
lacrima rilucea. Nè dielle il core
di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
rinacerbir col niego; anzi la vinse
misericordia dei ben noti ardori.
E quel volto celeste, e quella bocca,
già tanto desiata, e per molt’anni
argomento di sogno e di sospiro,
dolcemente appressando al volto afflitto
e scolorato dal mortale affanno,
più baci e più, tutta benigna e in vista
d’alta pietà, su le convulse labbra
del trepido, rapido amante impresse.

Che divenisti allor? Quali appariro
vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
ch’ancor tenea, della diletta Elvira
postasi al cor, che gli ultimi battea
palpiti della morte e dell’amore,
oh, disse, Elvira, Elvira mia! Ben sono
in su la terra ancor; ben quelle labbra
fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d’estinto, o sogno, o casa
incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
non ti fu l’amor mio per alcun tempo;
non a te, non altrui; che non si cela
vero amore alla terra. Assai palese
agli atti, al voto sbigottito, agli occhi,
ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
muto sarebbe l’infinito affetto
che governa il cor mio, se non l’avesse
fatto ardito il morir. Morrò contento
del mio destino ormai, né più mi dolgo
ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All’una il ciel mi guida
in sul fior dell’età; assai
fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
solo una volta il lungo amor quieto
e pago avessi tu, fora la terra
fatta quindi per sempre un paradiso
ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
l’abborrita vecchiezza, avrei sofferto
con riposato cor:che a sostenerla
basta sempre il rimembar sarebbe
d’un solo istante, e il dir: felice io fui
sovra tutti i felici. Ahi, ma contanto
esser beato non consente il cielo
a natura terrena. Amat tant’oltre
non è dato con gioia. E ben per patto
in poter del carnefice ai flagelli,
alle ruote, alle faci ito volando
sarei dalle tue braccia; e ben disceso
ne paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
gl’immortali beato, a cui tu schiuda
il sorriso d’amor! Felice appresso
chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è già sogno
come stimai gran tempo, ahi lice in terra
provar felicità. Ciò seppi il giorno
che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
questo m’accadde. E non però quel giorno
con certo cor giammai, fra tante ambasce,
quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce
un altrettale amor. Quanto, deh quanto
dal misero Consalvo in sì gran tempo
chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d’Elvira, in cor gelando,
impallidir; come tremar son uso
all’amaro calcar della tua soglia,
a quella voce angelica, all’aspetto
di quella fronte, io ch’al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d’amor. Passato è il tempo,
né questo dì rimemorar m’è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest’affetto, al mio feretro
dimani all’annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono
mancò lo spirito; e innanzi sera il primo
suo di felicità gli fuggia dal guardo.

E così ciò che Leopardi non osa dirle nella realtà glielo dice in poesia.

Parafrasi della poesia “CONSALVO”.

La morte desiderata, e non temuta, come tu sai, tante volte da me pregata scende su di me e lieto mi appare questo giorno funereo. Mi addolora il fatto, Elvira, che vado via da te (sto morendo). Non vedrò più i tuoi occhi e non sentirò più la tua voce. Ma prima di lasciarci in eterno tu, Elvira, non vuoi darmi un bacio? Non si nega una grazia a chi muore. E non posso vantarmi più di questo dono, dato che fra poco una mano estranea mi chiuderà gli occhi per sempre.

E nel sogno del poeta la bellissima Fanny dona al poeta più e più baci.

La bellissima donna stette esitante e pensierosa e fissò lo sguardo
dell’infelice, dove un’ultima lacrima riluceva. Il cuore non le consentì
di respingere la domanda per non rendere ancora più penoso il triste
addio con un diniego; anzi la misericordia dei suoi ardori la vinse.
E lei, abbassando il suo bel volto e la sua bocca, già tanto desiderata e
oggetto di fantasie e di desideri di Consalvo, e avvicinandosi dolcemente al volto
afflitto e pallido per il mortale affanno, tutta benigna, con una
espressione di alta pietà, diede più baci sulle convulse labbra del
trepidante e felice amante.

Il poeta si rende conto che un solo bacio di Fanny gli avrebbe dato la felicità e la sua vita sarebbe diventata tanto bella da poter sopportare la vecchiaia e, pur di avere un bacio di Fanny avrebbe sopportato le pene dell’inferno.

Ah se solo una volta tu avessi acquietato e appagato
il lungo mio amore, allora la terra mi sarebbe diventata un paradiso,
per i miei occhi cambiati in virtù dell’amore.
Con il ricordo del bacio, avrei sopportato con animo sereno,
perfino la terribile vecchiaia, e sarei stato così forte da poter dire:
“io fui felice sopra gli altri. Ma il cielo non consente agli uomini di essere
felici così intensamente e non consente di amare senza gioia.
E, anche se per patto fossi andato nelle fustigazioni del carnefice,
ben contento sarei andato, volando, dalle tue braccia alle ruote della tortura,
nei roghi e sarei disceso nel temuto inferno.

È a questo punto che il poeta capisce che anche per lui sarebbe stato possibile raggiungere la felicità e, con tutta la rabbia possibile per una cosa che poteva essere e invece non è stata invoca:

“O Elvira, o Elvira beato chi riceve il tuo sorriso,
felice chi per te sparge la vita.
È consentito, è consentito agli uomini essere felici.
La felicità non è un sogno, come credetti per gran tempo.
Ah è consentito provare felicità sulla terra.
Ciò seppi il giorno che ti guardai. Tutto ciò accadde con la
mia morte, ma non odio il giorno della mia morte, anche se
passato fra tante agonie”.

Quando svanisce il sogno, il poeta ritorna alla triste realtà della sua vita e all’infelicità del suo amore, né corrisposto né manifestato, e allora si abbandona a chiedere l’ultima supplica:

“Ora tu vivi beata, e abbellisci il mondo con la tua bella persona.
Nessuno ti amerà quanto ti amai io. Non nasce un amore così grande.
Quanto fosti chiamata, amata e pianta dal povero Consalvo-Leopardi.
Come ero uso impallidire quando sentivo il nome di Elvira-Fanny,
e il cuore mi si congelava; come ero uso tremare quando varcavo
la soglia del tuo palazzo, quando sentivo la tua voce angelica,
quando vedevo la tua fronte, io che non tremo neanche dinanzi al morire!
Ma il fiato e la vita vengono meno alle parole d’amore.
Il mio tempo ormai è passato, né posso ricordare questo giorno.
La tua cara immagine parte insieme alla mia vitale fiamma.
Addio. Se questo mio sentimento non ti fu noioso, domani,
al passaggio del mio feretro, all’annottare manda un sospiro
d’amore e di pietà”.

Atto IV.

Nel quarto atto il poeta, dopo essere diventato consapevole della sua infelicità per un amore non corrisposto, scrive l’ultimo monologo rivolto a sé stesso nel quale esprime tutta la sua infelicità e il rancore per tutto l’universo, che è destinato “all’infinita vanità del tutto”.

Testo della poesia “A SÉ STESSO”.

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo.
Che eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
Tacqueta ormai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

Parafrasi della poesia “A SÉ STESSO”.

Tu, stanco cuor mio, ora riposerai.
L’ultima illusione, che io credevo eterna,
è morta. Perì. Sento fortemente che non solo
la speranza è spenta, ma anche il desiderio
delle care illusioni è spento.
Riposa per sempre. Assai
palpitasti. Nessuna cosa terrena
vale i tuoi sentimenti, i tuoi sogni,
né la terra è degna dei tuoi sospiri.
La vita, amara e noiosa, non è altro
che nulla; e il mondo è fango.
Fermati ora. Non sperare più.
Il fato (il Dio del Male) ha donato
agli uomini non altro che il morire.
Ormai (il Dio del Male) odia Te stesso,
la natura, il brutto potere il quale,
invisibilmente, governa
il male a danno degli uomini
e odia l’infinita vanità del tutto.

Il potere nascosto che governa ogni cosa è il Dio del Male, cioè ”Arimane”, (il Dio del male della religione dell’Iran preislamico) a cui il Leopardi, pochi mesi prima di morire, aveva dedicato un inno, “Ad Arimane”: “Re delle cose, autore del mondo, arcana/malvagità/sommo potere e somma/intelligenza, eterno/datore dei mali e reggitore del moto” e al quale aveva chiesto la morte: “e mai grazia fu chiesta ad Arimane concedimi ch’io non passi il 7° lustro”. Arimane non concesse al Leopardi questa grazia perché, per fortuna, il poeta arrivò quasi alla fine dell’8° lustro ed ebbe così ancora il tempo di comporre gli ultimi, pochi, ma bellissimi canti.

Atto V.

L’ultimo atto del dramma si svolge lontano da Fanny, a Napoli, dove il poeta, da due anni, era andato con il suo amico Antonio Ranieri. A Napoli, qualche anno dopo (o nel 1834 o nel 1835), il Leopardi, fuori dalla tempestosa e sconvolgente esperienza amorosa e con mente più serena, scrive le ultime riflessioni sulla propria vita, ma ritorna, ancora una volta, a ricordare Fanny per darle il giusto posto per quello che era stata e per darle la giusta dimensione dentro di sé. Dopo avere razionalizzato l’esperienza amorosa, il poeta chiude definitivamente il ricordo di Fanny, comportandosi con il classico dei mutamenti interiori che ogni uomo fa dopo una terribile e fallimentare delusione d’amore e cioè la presa d’atto della sua indifferenza verso ogni cosa. Leopardi diventa, e si sente, “sprezzatore del mondo” e gli scappa quel sorriso scettico e beffardo di chi pensa di fregarsene del mondo o quanto meno di allontanarsene per non farsi distruggere totalmente. Penso, che il poeta, per l’ultimo canto, all’inizio, abbia scelto il nome “Aspasia”, perché così si chiamava l’etera (amante) amata da Pericle, per punirla e disprezzarla un po’; ma alla fine del ciclo, credo che il poeta, riabiliti Fanny perché la ricorda con tutta la sua bellezza che superava quella delle altre donne; In definitiva, per Leopardi, la bella Fanny riacquista la sua dimensione umana di donna bella ed esperta seduttrice, come suole accadere tra gli uomini e le donne di questa terra. Il poeta, dopo aver ammesso che, qualche volta, ancora, il volto di Fanny gli ricompare bello e affascinante come sempre, nel suo ricordo, ripercorre l’inizio del suo innamoramento, quando fu ferito dalla freccia dell’amore lanciata d’Amore (ma non da Fanny). Questo fa capire che, ciclicamente, l’attrazione per Fanny non si sarebbe mai sopita.

Testo della poesia “Aspasia”.

Torna dinanzi al mio pensier talora
il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
per abitati lochi a me lampeggia
in altri volti; o per deserti campi,
al dì sereno, alle tacenti stelle,
da soave armonia quasi ridesta,
nell’alma a sgomentarsi ancor vicina
quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
mia delizia ed erinni! E mai non sento
mover profumo di fiorita piaggia,
nè di fiori olezzar vie cittadine,
ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
tutti odorati de’ novelli fiori
di primavera, del color vestita
della bruna viola, a me si offerse
l’angelica tua forma, inchino il fianco
sovra nitide pelli, e circonfusa
d’arcana voluttà; quando tu, dotta
allettatrice, fervidi sonanti
baci scoccavi nelle curve labbra
de’ tuoi bambini, il niveo collo intanto
porgendo, e lor di tue cagioni ignari
con la man leggiadrissima stringevi
al seno ascoso e desiato. Apparve
novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
divino al pensier mio. Così nel fianco
non punto inerme a viva forza impresse
il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
ululando portai finch’a quel giorno
si fu due volte ricondotto il sole.

Raggio divino al mio pensiero apparve,
donna, la tua beltà. Simile effetto
fan la bellezza e i musicali accordi,
ch’alto mistero d’ignorati Elisi
paion sovente rivelar. Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia
della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in se racchiude,
tutta al volto ai costumi alla favella,
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama.
alfin l’errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
la donna a torto. A quella eccelsa imago
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che inspira ai generosi amanti
la sua stessa beltà, donna non pensa,
nè comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. E male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo, al tutto
da natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.

Nè tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me; nè verrà tempo alcuno
che tu l’intenda. In simil guisa ignora
esecutor di musici concenti
quel ch’ei con mano o con la voce adopra
in chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir. Tu vivi,
bella non solo ancor, ma bella tanto,
al parer mio, che tutte l’altre avanzi.
Pur quell’ardor che da te nacque è spento:
perch’io te non amai, ma quella Diva
che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
sua celeste beltà, ch’io, per insino
già dal principio conoscente e chiaro
dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi,
pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
cupido ti seguii finch’ella visse,
ingannato non già, ma dal piacere
di quella dolce somiglianza, un lungo
servaggio ed aspro a tollerar condotto.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
l’altero capo, a cui spontaneo porsi
l’indomito mio cor. Narra che prima,
e spero ultima certo, il ciglio mio
supplichevol vedesti, a te dinanzi
me timido, tremante (ardo in ridirlo
di sdegno e di rossor), me di me privo,
ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
fastidi impallidir, brillare in volto
ad un segno cortese, ad ogni sguardo
mutar forma e color. Cadde l’incanto,
e spezzato con esso, a terra sparso
il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
di tedio, alfin dopo il servire e dopo
un lungo vaneggiar, contento abbraccio
senno con libertà. Che se d’affetti
orba la vita, e di gentili errori,
e’ notte senza stelle a mezzo il verno,
già del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar la terra e il ciel miro e sorrido.

Parafrasi della poesia “ASPASIA”.

Il tuo volto torna talvolta nel mio pensiero, Aspasia.
Ora lo rivedo, velocemente, in altri volti della città,
ora esso mi è destato dall’armonia di un giorno sereno,
o dalle tacite stelle, e la mia anima è pronta a turbarsi di nuovo.
Quanta adorata è stata questa visione
e un giorno è stata la mia delizia e il mio tormento.
Un profumo che sento emanare dalla fiorita campagna,
o che provenga dalle vie della città,
mi fa ricordare il giorno nel quale io ti vidi,
tutta raccolta nei tuoi appartamenti, odorosi di
fiori appena colti, vestita con una veste di
colore bruno, con il fianco adagiato sopra un divano,
tutta circondata di misteriosa voluttà, e tu,
dotta allettatrice, intanto che baciavi i tuoi figli e
li stringevi con le lue leggiadrissime mani al
tuo seno coperto e desiderato, alzando il tuo bianco collo,
ti muovevi con un fare seduttivo e malizioso.
Allora un nuovo cielo, una nuova terra, un raggio
divino, apparvero al mio pensiero, tanto che io,
ferito dalla tua freccia d’amore, mi innamorai di te.
Dentro di me portai questo amore infelice, ululando,
da quel giorno ad oggi che fanno due anni.

Il poeta continua, distinguendo tra donna ideale e donna reale, dicendo che lui in Fanny aveva amato la donna ideale e poiché, questa ora era morta, lui adesso si sente libero dalla Fanny reale, anche se sapeva che lei continuava a vivere e continuava ad essere tanto bella da superare tutte le altre.

Tu, Aspasia, non puoi immaginare mai quello
che tu stessa hai fatto nascere nel mio pensiero.
Tu non sai quale smisurato amore, quali affanni intensi,
quali indescrivibili sentimenti amorosi,
quali deliri hai fatto scaturire in me e
allo stesso modo un direttore d’orchestra non sa
quali sono gli effetti che egli provoca in chi lo ascolta.
Ora, però, l’idea (ideale), che io amai tanto, di Aspasia è morta.
L’idea è morta per sempre, e di tanto in tanto, mi
suole ritornare e scomparire la sua sbiadita immagine.
Tu, invece, Aspasia reale, vivi e sei sempre tento bella
che superi tutte le altre.
La passione che era nata per te è morta:
perché io amai non te ma l’idea della bellezza
che ha ancora vita nel mio cuore, mentre
il mio cuore è diventato un sepolcro per te.
Io adorai, per molto tempo, la tua ideale bellezza
e mi piacque tanto seguirla che io,
ben consapevole di te, delle tue arti e
delle tue insidie, contemplando nei tuoi occhi reali
i begli occhi della donna ideale, ti ho seguito cupidamente,
finché l’idea di bellezza visse in me;
accettai di obbedire al tuo dominio,
aspro e lungo, non perché ingannato da te,
ma per il dolce piacere che provavo
nel vedere la dolce somiglianza tra lei (l’ideale) e te.

Ma l’ultima parola del poeta è tutta rivolta alla vita splendida e superba di lei e al comportamento sottomesso e timoroso che lui condusse a casa della signora nella speranza di farle nascere quell’amore per lui tanto vagheggiato ed agognato. Il poeta, alla fine del canto, ripensa che la signora Fanny si può vantare di questa vittoria sul poeta (molto facile) e che la sua vendetta è quella di diventare sprezzatore e indifferente a tutto e ridere di tutto, mentre contempla, distaccato, il mare, la terra e il cielo.

Ora tu, Aspasia reale, ti puoi vantare perché
puoi dire che sei stata la sola del tuo sesso:
alla quale io abbassai il mio fiero capo e
alla quale io offrii il mio cuore indomito.
Puoi dire che sei stata la prima donna, e spero
che sarai anche l’ultima, che vedesti il mio sguardo
supplichevole, che vedesti me tremante,
timido (brucio di rabbia e di rossore nel dirlo) e
puoi dire che vedesti me fuori di me,
che spiavo e scrutavo sommessamente
ogni tuo desiderio, ogni tua parola e ogni tuo atto;
puoi dire che mi vedesti impallidire ai tuoi
superbi fastidi, vedesti me brillare nel volto
ad ogni tuo atteggiamento benevolo;
puoi dire che vedesti me mutare forma e colore
ad ogni tuo sguardo.
La suggestione del tuo amore, e della mia passione, è finita,
così come è finito anche il dominio che mi legava a te,
e di questo me ne rallegro.
E dopo il lungo servirti, e dopo il mio lungo vaneggiare,
riacquisto, contento, il senno e la libertà, seppure
essi siano pieni di tedio.
Orbene se la vita, priva d’amore e di illusioni,
è triste, vuota come una notte buia e senza stelle
in pieno inverno, tale sono io, perché sono rimasto solo.
Ma il conforto e la vendetta che io mi prendo
sul mio destino mortale consiste nel fatto che
sono divenuto indifferente ed immobile, e
mentre sto seduto qui a guardare il mare,
la terra e il cielo e sorrido sardonicamente e
sornionamente con i miei ghigni.

Finisce così la storia dell’amore, solo immaginario, del poeta Giacomo Leopardi, il quale ha saputo trovare parole ed espressioni poetiche così belle da scrivere queste stupende poesie che concludono il ciclo su Aspasia. Queste poesie gli fanno vivere uno sconforto d’amore interiore così drammatico che Leopardi ha sublimato e vissuto silenziosamente dentro la sua anima ma lo ha saputo trasformare in questo ciclo di poesie dandocene una rappresentazione stupenda e una tragedia interiore calda ed eterna e di far rivivere a noi tutto il suo dramma interiore.

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Modica 28 luglio 2018                                                                                                                  Prof. Carrubba Biagio

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