Una analisi dell’opera poetica
“Canti di Castelvecchio”
di Giovanni Pascoli.
Un’altra grande opera poetica di Giovanni Pascoli è “Canti di Castelvecchio”. Il libro fu pubblicato per la prima volta nell’aprile del 1903 e la seconda edizione è dell’agosto dello stesso anno. La terza edizione è del 1905 accresciuta di tre poesie; la quarta edizione è del 1907 con l’aggiunta della poesia “Viatico”; la quinta è del 1910 ed in questa apparve in appendice “Diario autunnale” e la sesta uscì nel 1912 e fu l’ultima curata dal poeta ed uscita postuma. Infine la settima edizione uscì nel 1914 a cura della sorella Maria, la quale aggiunse altre due poesie: “Il compagno dei taglialegna” (poesia nr. 4) e “La capinera” (poesia nr. 21). L’opera è dedicata alla madre “A Caterina Alloccatelli Vincenzi mia madre”. Il motto latino è uguale a quello di Myricae, Arbusta iuvant humilesque myricae. La maggior parte delle poesie fu scritta tra il 1896 e il 1903. La posizione delle poesie non segue l’ordine cronologico, ma un ordine logico del poeta che le ha sistemate secondo un ordine di temi e di forma. La raccolta contiene una prefazione che spiega e chiarisce le intenzioni e il significato dell’opera: “Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre myricae autunnali… Mettano queste poesie i loro rosei calicetti intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più di un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo; io appoggiavo la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a vedere soffiare i lampi di caldo sull’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì” (da Canti di Castelvecchio – Edizione Bur – Biblioteca universale Rizzoli – Pag. 57 – 58). La raccolta poetica è divisa in tre grandi parti: la prima parte comprende 59 poesie ed è la parte più nutrita di poesie. La prima poesia è “La Poesia”; l’ultima poesia, n° 59 è “In ritardo”. Segue la seconda parte intitolata “Il ritorno a San Mauro” composta da 9 poesie dalla n° 60 la bellissima “Le rane” alla poesia n° 68 la sorprendente “Tra San Mauro e Savignano”. Segue il Diario autunnale, poesie scritte nel 1907 a Bologna, ma non aggiungono niente alla già perfetta bellezza delle due prime parti dell’opera poetica.
I temi di “Canti di Castelvecchio”
Il primo grande tema dei “Canti di Castelvecchio” è il primo canto che ha per titolo “La poesia”, considerata come una consolazione per gli uomini. Essa è come una lampada che illumina la via degli uomini: “Io sono la lampada che arde / soave… lontano risplende l’ardore/ mio casto all’errante che trita/ notturno, piangendo nel cuore, / la pallida via della vita:/ s’arresta; ma vede il mio raggio, / che gli arde nell’anima blando, / riprende l’oscuro viaggio / cantando”.
Il secondo grande tema dei “Canti di Castelvecchio” è la descrizione dei versi di alcuni uccelli e del loro significato sociale e simbolico, come nel secondo canto che ha per titolo “La partenza del boscaiolo”. Pascoli definì queste poesie “canzoni uccelline”. La prima poesia è dedicata alla cinciallegra che dà a loro il segno della partenza dei boscaioli cioè i modenesi che partivano per l’Africa, cantando tient’a su. Segue lo scricciolo che con il suo verso trr trr trr tert tirit annunzia l’inverno.
Il terzo grande tema è la nebbia come nel terzo canto che ha per titolo “Nebbia” (poesia numero 6), intesa simbolicamente, come la volontà del poeta di dimenticare il dolore del passato e accontentarsi solo del presente.
Il quarto grande tema è la madre del poeta, che continua il dialogo iniziato già con Myricae. Il primo canto è la bellissima poesia “La voce” (poesia numero 15), ed è la voce che il poeta sente dentro di sé, la quale gli viene sempre in aiuto e già una volta lo ha fatto desistere dall’intenzione di buttarsi dal ponte del fiume Reno vicino Bologna. La voce chiama il poeta Zvanì che era il diminutivo di Giovanni in romagnolo. Questa voce coccolava e cullava il poeta, quand’ero piccolo e lo pregava di “vivere e d’essere buono!”
Il quinto grande tema è la visione della terra nei confronti dell’universo. La terra è piccola come un granello di sabbia a confronto dell’infinita grandezza e moltitudine degli astri. Questo tema ha molta importanza nella produzione poetica del Pascoli e ritorna in più occasioni. Il primo poemetto su questo tema è “Il ciocco” (canto numero 17).
Il sesto grande tema è il ricordo dei morti che ritornano a parlare con i vivi. Poi seguono altri canti di argomento vario, come la “Bicicletta” (poesia nr. 29), altri dedicati alle usanze e ai costumi di Castelvecchio, altri dedicate a uccelli come “Passeri a sera” (poesia nr. 35), “L’usignolo e i suoi rivali” (poesia nr. 32), altri dedicati a piante come “La vite” (poesia nr. 27), “La canzone dell’Ulivo” (poesia nr. 34), “Il gelsomino notturno” (poesia nr.36), che è il canto più simbolico di tutta la raccolta poetica, altri ispirati da animali come “Il poeta solitario” (poesia nr. 37) e “La guazza” (poesia nr. 38) fino ad arrivare al canto “L’ora di Barga” (canto nr. 41). Questo canto è molto bello e merita un approfondimento particolare; fu pubblicato per la prima volta sul “Marzocco” del 30 dicembre del 1900, dedicato a Emma Corcos, un’amica del poeta, moglie del pittore Vittorio Corcos. Ora io, Biagio Carrubba, credo invece che la voce dell’orologio non sia quella della Morte, bensì sia la voce della Madre che lo chiama alla vita. È dunque un canto che si ricollega al canto “La voce” dove la madre lo chiama a vivere e ad amare “quelli ch’amano ed amo” e cioè sua sorella Maria e forse il cane Gulì. Questo Canto è costruito sulla filigrana del Leopardi, ma termina con la voce della madre del Pascoli.
Il settimo tema è la fede che il Pascoli cerca disperatamente ma che non trova come nel Canto “Il viatico” (poesia numero 42), tema che verrà ripreso nella prefazione ad “Odi ed Inni”. In questo canto, Pascoli sembra avvicinarsi alla fede cristiana, anche se in altri testi se ne allontana. È questa la caratteristica del Pascoli sulla fede: passa da un atteggiamento di scetticismo a un comportamento di accettazione come in questo canto. Il viatico è l’eucaristia, cioè l’ostia consacrata che simboleggia la fede che serve al cristiano per arrivare a Dio. Il Pascoli esplicita l’etimologia di viatico cioè provvista per il viaggio.
L’ottavo tema è “La fonte di Castelvecchio” (poesia numero 44). Un canto molto bello nel quale Pascoli mette in versi la trasformazione di una sorgente che scorre pura nella Fonte di Castelvecchio, dove vanno le fanciulle a prendere l’acqua. Alla sua fonte, nelle alte montagne, la sorgente scorre libera e sgorga facile, mentre dopo che è stata incanalata dentro il piombo dei tubi, piange e gorgoglia, come dentro una prigione. Essa scorre libera e dà l’acqua fresca a un fanciullo che coglie macole e more e riempie di acqua il secchio della bianca Matta dei Beghelli che aveva due cose al mondo, acqua ed aria; dopo la canalizzazione dell’acqua della fonte gli resta solo l’aria.
Il nono tema è la riconciliazione del Poeta con la natura come descritto con lo splendido canto “La mia sera” (poesia numero 46), nel quale il poeta dopo aver descritto un giorno di pioggia e di lampi, la sera, vede uscire le rondini gioiose e rumorose che volano nel cielo puro e pulito. Durante la sera, il poeta, sente anche il sussurro delle campane che lo riporta al tempo della sua fanciullezza quando sentiva la voce della madre che lo cullava e poi il poeta si addormentava sul far della sera. Il ritorno alla madre s’accompagna, come al solito, con l’annullamento della coscienza. Dopo vari canti che rievocano l’uccisione del padre, c’è il canto “Il mendico” (poesia numero 53), un vero e proprio capolavoro poetico. Questo canto, finito di scrivere il 10 agosto 1899, è un canto sarcastico ed amaro contro la Dea fortuna che costringe il Mendico al suicidio. È un canto intriso di pietà e di tristezza, che lo fa avvicinare molto al pessimismo leopardiano. Seguono altri canti sparsi e vari come “Ov’è” (poesia numero 54), “La servetta di monte” (poesia numero 55) fino ad arrivare al famoso e celebre canto “La Cavalla storna” (poesia numero 58), che descrive il dolore del poeta mai estinto e la ferita nell’anima mai guarita. L’ultimo canto, “In ritardo” (poesia numero 59), chiude la prima grande parte. La seconda parte dei Canti di Castelvecchio comprende le poesie unite nel ciclo “Il ritorno a San Mauro”. Pascoli scrisse queste poesie in occasioni delle nozze Tosi-Briolini. Sul Marzocco del 18 aprile 1897 apparvero tre liriche: “Le rane”, “La messa” e “La tessitrice”. Seguì nello stesso mese un opuscolo che conteneva “Casa mia”: a questi quattro canti ne aggiunge altri 5 e tutti insieme furono pubblicati nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio. Il tema unitario e di fondo dell’intero ciclo è l’immaginazione e la rievocazione di un ritorno del poeta nel suo paese natale a San Mauro. Pascoli ritornò effettivamente in Romagna, ospite della sorella Ida a Santa Giustina di Rimini e fu anche a San Mauro il 2 maggio del 1897, riportandone una viva impressione, attestata dalla lettera del 10 maggio ai “concittadini di San Mauro”: “O cari fratelli, io mi trovo gli occhi ancora bagnati delle lacrime di quel giorno, di quel 2 maggio indimenticabile! Vi rivedo, vi risento; e rivedo la casetta dove sono nato e risento il dolce invito che veniva da morti e da vivi, da uomini e da cose, l’invito a rimanere e riposare, finalmente, dove rimangono e riposano quelli che ho amati”.
Nel primo canto “Le rane”, Pascoli immagina di ritornare nel suo dolce paese lontano e di risentire le rane che gracchiano nei fossi delle acque piovane e gli sembra di sentire un ronzio di campane che gli sussurra: “Ritorna! Rimane! / Riposa! / E sento nel lume sereno/ lo strepere nero del treno / che non s’allontana, e che va / cercando, cercando mai sempre / ciò che non è mai, ciò che sempre / sarà…”
Nel secondo canto, “La messa”, Pascoli immagina di ascoltare la campanella della chiesa che lo invita ad assistere alla messa, dove sentirà gli stessi suoni soavi e dolci che accompagnarono la morte della madre che non vide i suoi figli che aveva lontani.
Nel terzo canto, “La tessitrice”, Pascoli immagina di sedersi su una panchetta vicino ad una spola. E qui immagina lo venga a trovare un suo lontano amore (L’aspetto immateriale del personaggio sconsiglia ogni tentativo di identificazione biografica, più o meno interessata (si è voluto fare il nome di una fanciulla di San Mauro, Erminia Tognacci, morta prematuramente a Rimini il 9 aprile 1878), la quale gli dice che ormai vive solo nel cuore del poeta). Nei tre canti seguenti Pascoli immagina di parlare con la madre davanti la loro casa natale, ricca di piante e fiori “M’era la casa avanti / tacita al vespro puro, / tutta fiorita al muro / di rose rampicanti.” L’ultimo di questi tre canti, è il bellissimo canto “Commiato”, nel quale Pascoli dice alla madre di voler andare con lei nel camposanto, ma lei lo rincuora a rimanere e vivere sulla terra e di essere buono e forte. Il poeta immagina di ascoltare le ninne nanne che la madre gli cantava quand’era piccolo e così lui riacquisterà quella fede ha perso da grande ma che riacquisterà per “sperare! A sperare e ora e nell’ora / così bella che a te conduce! / O madre, fa che io creda ancora / in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce! O madre, a me non dire, Addio, / se di là è, se teco è Dio!”. Segue il bel canto “Giovannino”, poi “Il bolide” e la seconda parte termina con il bel canto “Tra San Mauro e Savignano”, nel quale Pascoli chiude l’intera opera cominciata con Myricae. Egli immagina il padre che accoglie il poeta morto, ma il padre si sbaglia, perché chi muore è il suo assassino e dopo che si accorge che a morire non è suo figlio, si rivolge al poeta che un giorno gli darà la vita e la pace che l’assassino gli aveva tolto: “Oh! Se qui, con soavi inni, a’ suoi morti / ch’egli amò tanto, il popol suo mai, / in un giorno d’amor, non lo riporti; / io là sarò, col figlio mio sepolto, / che mi ridona ciò che gli donai, / che m’ha dato ciò che tu m’hai tolto! – Oh padre! Gli astri … Vega, Aquila, Arturo / splendeano sopra il camposanto oscuro”. Segue l’appendice “Diario Autunnale” e altre poesie sparse.
Il messaggio dei “Canti di Castelvecchio”
“Canti di Castelvecchio” è un’opera complessa e multiforme, sia per la ricchezza dei contenuti sia per la variabilità delle forme metriche. Molti canti hanno una valenza simbolica e allegorica per cui l’intera opera acquista una poli semanticità difficile da interpretare, cioè si presta a diverse e varie interpretazioni e siccome il senso del messaggio è complesso, allora bisogna sceglierne alcuni. Io, Biagio Carrubba, credo che il messaggio dominante sia quello della dimensione regressiva del poeta nei confronti della vita e l’annullamento della sua coscienza verso la fanciullezza, età di serenità e che lo porta a contatto con la madre. La fanciullezza e il contatto con la madre costituiscono i momenti di felicità del poeta. Dopo di che la sua vita fu un esilio su questa terra e un tormento. Secondo me, questo ritorno, descritto in tanti canti, tra le braccia della madre per ritrovare la felicità perduta è un fatto antropologico e ancestrale che coinvolge ogni uomo. Credo che ogni uomo adulto desideri ritornare all’infanzia tra le braccia della madre per goderne la protezione e l’amore, e il distacco da essa costituisce sempre un trauma per ognuno, tanto più per il poeta che al distacco di lei associò la morte del padre. Ma accanto a questo messaggio fondamentale ve ne sono altri, come la pace della natura e la serenità della campagna, descritti e vissuti dal poeta in maniera impeccabile, come scrive Pascoli al suo amico Caselli nella lettera del 7 agosto del 1902: “C’è, vedrai, nei Canti, un ordine latente, che non devi rivelare: prima emozioni, sensazioni, affetti, d’inverno, poi di primavera, poi d’estate, poi d’autunno, poi ancora un po’ di inverno mistico, poi un po’ di primavera triste, e finis”.
Le tesi dei Canti di Castelvecchio
Data la poli semanticità dei messaggi anche la tesi dell’opera diventa complessa e articolata e si frantuma in molteplici tesi, tutte particolari e valide. Molti canti assumono una valenza simbolica e fonosimbolica è ciò fa aumentare la varietà e complessità dell’opera. Alcune tesi importanti, comunque, sono:
1) La ricerca di una Fede che avvicini il poeta a Dio.
2) L’affetto, per non dire amore morboso, per la sorella Mariù.
3) L’importanza della poesia, come consolazione positiva nella vita.
4) L’amore per la campagna e per la natura.
5) La speranza di una volontà e consapevolezza di Dio sulla sorte di ogni uomo come scrive nel canto “Le Ciaramelle”: “O Ciaramelle degli anni primi, /d’avanti il giorno, d’avanti il vero, /or che le stelle son là sublimi, /consce del nostro breve mistero”.
6) La consapevolezza della piccolezza della terra nei confronti della grandezza dell’universo come scrive nel canto “Il bolide”: “E la terra sentii nell’Universo. /Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. /E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella”. Ecco il commento del Nava: “Il Pascoli ha certo avuto presente il noto passo in cui Dante vede dall’alto la terra, ma diversamente da lui, non si sente collocato in un osservatorio privilegiato, bensì si vede “piccolo e sperso” su un corpo celeste” (da Canti di Castelvecchio BUR a cura di Giuseppe Nava – Pagina 399 – 400).
7) La consapevolezza che su questa terra tutto è vano, come scrive nel canto “Giovannino”: “- O fior caduto alla mia vita nuova! – io rispondeva – o raggio del mattino – Io persi quello che non più si trova, e vano è stato il mio cammino. A notte io vedo, stanco pellegrino, che deviai su l’alba del mio dì!”.
8) La consapevolezza che ha il poeta con il sesso, sentito ambiguamente come violenza e come creatore di vita nuova, come scrive nel canto “Il gelsomino notturno”, dove è evidente un rapporto ambivalente con la vita sessuale.
9) La ricerca del Pascoli di una bella e serena morte dopo una vita vissuta miseramente, come scrive nel canto “Il Mendico”: “Ho immaginato il mio mendico che cuce e gli si rompe il filo e sente l’appressare della morte e canta la morte che è dolce quando fu amara la vita”.
10) Ma io, Biagio Carrubba, credo che la tesi implicita dei canti sia questa: L’impossibilità di ritornare nel grembo materno per trovare la felicità perduta, costringe l’uomo a trovare l’amore in un’altra donna, che in parte dia l’amore materno perso e, dall’altra parte, dia un nuovo amore attraverso nuovi figli. Quando tutto questo non avviene la vita dell’uomo diventa triste e solitaria e amara e sarcastica come nel canto “Il Mendico”; la vita, diventa inoltre, anche depressiva e nostalgica per la mancanza di figli come Pascoli rimpiange per sé nel canto “Addio” (poesia numero 56 della prima parte). Pascoli non ebbe nella sua vita, nessun amore forte, né figli, né relazioni sessuali; la sua vita fu quindi una vita umana povera e priva di affetto ma sublimata e sublimata interamente nella poesia.
Contesto sociale, culturale, filosofico e letterario dei “Canti di Castelvecchio”
Contesto sociale. I Canti di Castelvecchio furono scritti in gran parte proprio a Castelvecchio di Barga e in parte a Messina. Pascoli era un professore universitario, ma a Barga, nella sua proprietà fondiaria faceva anche il contadino. E si può dire che i Canti di Castelvecchio esprimono chiaramente queste due componenti di Pascoli: da un lato l’amore per la campagna di Barga e dall’altro lato l’amore verso la cultura umanistica letteraria fondata sulla cultura classica (greca e latina) e sulla letteratura italiana. Il Pascoli esprime la sua condizione di piccolo proprietario terriero che vive del suo lavoro di contadino e difende la piccola proprietà contadina.
Contesto culturale. I Canti di Castelvecchio mostrano tutta la cultura del poeta: dalla conoscenza delle usanze e tradizioni di Barga alla cultura ornitologica degli uccelli acquisita da vari manuali, dalla conoscenza di testi di astronomia e di psicologia positivistica alla conoscenza di testi indiani, come la Bagavadgita, un cui esemplare, tradotto e commentato dal glottologo e indianista Michele Kerbaker (1835 – 1914) figura nella biblioteca di Castelvecchio. Pascoli aveva tradotto anche le poesie di Edgar Poe e conosceva anche le poesie di V. Hugo e altri poeti inglesi.
Contesto filosofico. I canti di Castelvecchio esprimono tutta la Weltanschauung di Pascoli, basata su una cultura filosofica classica che va da Platone allo stoicismo latino. La Weltanschauung del Pascoli comprendeva anche la ricerca della fede, ma il poeta, in molte poesie, aveva molte volte dubitato di Dio, dimostrandosi uno scettico.
Contesto letterario. I Canti di Castelvecchio risentono della cultura simbolista che si stava diffondendo in tutta Europa nelle opere di Baudelaire, Verlaine e Mallarmè, anche se non si sa con esattezza se Pascoli conoscesse le loro opere. Pascoli conosceva sicuramente “I Fiori del male”, ma secondo me, Biagio Carrubba, l’influsso di C. Baudelaire è evidente in certe poesie come “Il cieco”. Ma il filo conduttore dei Canti è senza dubbio Giacomo Leopardi.
Analisi della forma
Il genere dei “Canti di Castelvecchio”.
Il genere poetico dei Canti di Castelvecchio è vario: vi sono poesie naturalistiche e vi sono poesie simboliste. Dunque i Canti di Castelvecchio è un’opera composita che racchiude anche liriche autobiografiche e autoanalitiche.
La metrica dei Canti di Castelvecchio.
La metrica dei Canti di Castelvecchio è varia e multiforme: passiamo da strofe di sestine di novenari a sestine di quinari doppi, da strofe saffiche a novenari dattilici. Ogni Canto ha una propria forma metrica ben precisa che lo allontana dal breve componimento di Myricae. Nava scrive: “I Canti segnano uno sviluppo, un salto di qualità rispetto alla prima raccolta, di cui non sempre la critica s’è accorta. Il titolo stesso, Canti, indica un’ambizione di poesia più complessa e distesa delle giovanili “Tamerici”, di cui pure riprende il motto virgiliano” (da Canti di Castelvecchio BUR a cura di Giuseppe Nava – Pagina 9).
Le figure retoriche.
Le figure retoriche sono moltissime: dal fonosimbolismo al simbolismo, dalle onomatopee alla personificazione, dalle metafore alle similitudini, dagli anacoluti alle ellissi, dalle analogie alle sinestesie.
Il tono emotivo.
Il tono emotivo dei Canti di Castelvecchio è vario: si va dal compiacimento della vita di campagna al dolore per la morte del padre; dal sentimento di nostalgia della perduta felicità alla ricerca del tempo presente come nel canto “Nebbia”. Troviamo anche qualche sentimento più leggero e spensierato come nel Canto “I due girovaghi” o nel Canto “La canzone della granata”. Ma quello che prevale è senza dubbio il sentimento della contemplazione che il poeta ha ereditato dalla madre nelle sere estive nel greppo della tenuta. Contemplazione che Pascoli identifica con la predisposizione al poetare. Ma chi contempla non sempre riesce a poetare. Vi è anche un senso di orgoglio del Poeta come nell’ultimo Canto “Tra San Mauro e Savignano” attenuato nelle note.
Il linguaggio poetico dei Canti di Castelvecchio.
Pascoli non abbandona la rima e per questo motivo è un poeta ottocentesco, ma la rinnova dal di dentro con nuove forme di rime e di strofe. Ma ciò che più importa è l’uso di parole fonosimboliche e di onomatopee che fanno del linguaggio poetico pascoliano un linguaggio simbolico. Io credo che il linguaggio poetico di Pascoli sia dovuto all’uso di parole nuove e più vicine al parlato dell’italiano medio di allora e di oggi. Pascoli si accosta al linguaggio dell’italiano corrente di allora, distaccandosi dal linguaggio aulico del Carducci e del Leopardi e avvicinandosi a un linguaggio poetico medio che apre le porte ai poeti crepuscolari.
La lexis dei Canti di Castelvecchio.
La lexis dei Canti di Castelvecchio raggiunge in certi Canti un fascino particolare ed originale che poi fanno di questa opera poetica un capolavoro poetico. L’uso insuperabile della rima e delle strofe fa si che la forma prevalga sul contenuto. Si prenda ad esempio “La Fonte di Castelvecchio” dove un linguaggio poetico moderno e medio fa risaltare i sentimenti della fonte che gorgoglia e piange, così che il canto diventa uno dei più belli dell’intera raccolta. Un altro esempio della lexis di Pascoli è il canto “L’ora di Barga” dove un linguaggio poetico medio, ma ricco di anafore e di inversioni, prevale sul contenuto abbastanza ripetuto in altri canti. Qui la chiarezza poetica fa diventare il canto un inno alla vita e alla volontà del poeta di continuare a vivere e ad amare quelli che amano e che ama. Un esempio di linguaggio moderno medio è dato dal canto “La mia sera” dove una lexis chiara e semplice rivela i tanti tormenti e i tanti dolori del poeta e dove un linguaggio onomatopeico fa diventare il canto un’elegia di pace e di ritrovata serenità, se non di ritrovata felicità.
Aspetti estetici dei Canti di Castelvecchio.
Gli aspetti estetici dei Canti di Castelvecchio sono diversi: dalla varietà della metrica alla variabilità delle strofe; dalla varietà dei temi alla volontà del poeta di regredire alla fanciullezza per ritrovare la felicità perduta perdendo la madre. Si può rilevare anche qualche contraddizione tra alcuni temi dei canti: da una parte c’è nel poeta la volontà di voler dimenticare il presente per ritornare al passato, ma anche la volontà di dimenticare il passato per vivere solo il presente. Da una parte cantare la morte che è dolce quando la vita fu amara, e dall’altra parte celebrare la vita che nasce come nel canto “Il gelsomino notturno” o nel canto “Ov’è”. Un’altra contraddizione è quella tra il diniego di Dio e la ricerca della fede, come in “Viatico”, e l’accettazione e la ricerca di Dio come in “Commiato”. Ma al di là di queste contraddizioni c’è nei canti un fascino tutto particolare dovuto alla bellezza della forma e della lexis e alla volontà del poeta di annullarsi nel grembo materno. Un canto bello come “Le rane” esprime la bellezza poetica del ritorno al passato ma la rievocazione di esso come tale non è più riproponibile e allora il poeta accetta il presente e il futuro come in “Nebbia”, “Viatico” e nel bellissimo canto “L’ora di Barga”.
Commento e valutazioni mie personali sui Canti di Castelvecchio.
Io, Biagio Carrubba, trovo i Canti di Castelvecchio un capolavoro poetico; certamente l’opera più riuscita di Pascoli. Forse non raggiunge le altezze poetiche dei Canti di Leopardi, ma certamente è più leggibile di Alcyone del D’Annunzio, pubblicata nello stesso anno dei Canti (1903). Questa opera mi piace perché (come dice il Pascoli) mi ha fatto battere il cuore. Mi piacciono molte poesie e sono rare quelle che non mi piacciono. Mi piacciono di meno le poesie sentimentali o di tardo romanticismo come “Per sempre”; mi piacciono di più le poesie dedicate ai costumi di Barga; mi piacciono moltissimo le poesie che riguardano la descrizione della natura e della campagna; mi piace molto la poesia “La fonte di Castelvecchio”; mi piacciono moltissime le poesie d compartecipazione tra il mondo naturale e lo stato d’animo del poeta come il canto “La mia sera”; mi piace tanto il Canto “L’ora di Barga”. Mi piacciono anche “Il viatico” e “Il mendico”; mi piacciono moltissimo “Le rane” e “Commiato” perché spero anch’io di trovare Dio di là. Anch’io, B. C., spero di dare pace e gloria a mio padre e a mia madre. Io trovo quest’opera poetica appassionante, melanconica, rivolta alla ricerca della felicità perduta e trovo molto bello il lavoro di autoanalisi del Pascoli; inoltre mi piace tanto tutto il lavorio del poeta per trovare nel suo interno la vita contemplativa, che secondo me è la vera vita degli uomini. Se c’è il paradiso, io, B. C., credo che lì faremo una bella vita contemplativa.
Modica, 29 giugno 2019 Prof. Biagio Carrubba
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