Una analisi della bella canzone poetica “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”

Share Button

Una analisi della bella canzone poetica
“Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”

I
Una breve biografia di Francesco Petrarca.

Francesco Petrarca nacque ad Arezzo il 20 luglio del 1304, figlio del notaio ser Pietro Parenzo, detto Petracco. Nel 1312 il padre si trasferisce ad Avignone. Dall’1320 al 1326 Francesco Petrarca studia diritto all’università di Bologna. Nel 1326 ritorna ad Avignone, dove il 6 aprile del 1327 incontra Laura nella chiesa di Santa Chiara. Nel 1330 diventa prete prendendo gli ordini minori, obbligandosi al celibato. Nel 1330 prende servizio come cappellano del Cardinale Giovanni Colonna. Nel 1337 nasce il primo figlio naturale, Giovanni. Nel 1338 comincia a comporre le sue opere in latino: “De viris illustribus” e “L’Africa”. L’8 aprile del 1341 è incoronato poeta a Roma, dopo aver sostenuto un esame sulla poesia dinanzi al re Roberto d’Angiò. Nel 1342 dà inizio alla prima forma ordinata e selezionata del “Canzoniere”. Nel 1342-3 scrive il “Secretum” un’opera in latino. Nel 1343 gli nasce la seconda figlia naturale, Francesca. Nel 1345-7 soggiorna fra Parma e Selvapiana. Scrive il “De vita solitaria”, il “Bucolicum carmen” e progetta il “De otio religioso”. Nel 1348 riceve la notizia della morte di Laura. Nel 1351 riceve la visita del Boccaccio, che gli offre una cattedra nello studio fiorentino. Nel 1351 dà inizio alle rime della cosiddetta “trasfigurazione di Laura”. Nel 1353 si stabilisce a Milano, ospite dell’arcivescovo Giovanni Visconti, signore della città. Lavora per i Visconti. Nel 1361 apprende la morte del figlio Giovanni. Nel 1362 si trasferisce a Venezia, dove nel 1366 va ad abitare con sua figlia Francesca e con la nipotina Eletta. Nasce il secondo nipote Francesco. Nel 1366 intraprende la quinta redazione del “Canzoniere”. Nel 1370 si trasferisce ad Arquà sui colli Euganei, presso Verona. Nel 1371 la figlia Francesca con il marito e la nipote Eletta vanno a vivere con lui ad Arquà. Nel 1373 scrive la mirabile senile XVII, vera professione di fede nella poesia. Prepara una nuova copia del “Canzoniere”: è l’ottava redazione del liber. Nel 1374 continua la stesura della nona redazione del “Canzoniere”. Il 18 luglio il poeta, colpito da uno dei suoi attacchi di febbre, muore poco dopo la mezzanotte. Petrarca fu esperto conoscitore delle opere di autori latini da Orazio a Cicerone, da Seneca a San Agostino e molto fervida fu la sua attività nella scoperta dei classici. Nel 1333 a Liegi il Petrarca scoprì l’orazione Pro Archia di Cicerone e nel 1345 nella Capitolare di Verona contribuì a diffondere le lettere Ad Atticum, Ad Brutum, Ad Quintum fratem, che lasciarono una profonda traccia nella nuova cultura umanistica che nasceva in Italia. Petrarca, appassionato cultore dei classici, in essi riconobbe la centralità dell’uomo e della sua dignità intellettuale, al contrario di quanto era avvenuto nella cultura medioevale, nella quale l’umano era subordinato alla trascendenza. Petrarca con il suo lavoro di filologo preannunciò e rivalutò la cultura umanista la quale rivalutava l’autonomia dell’individuo, la sua capacità di azione e di giudizio, e la vita terrena avrebbe acquistato bellezza e dignità per sé, sganciata dalle ricompense promesse nell’aldilà. Egli fu interessato alla coscienza individuale, alla morale, la scienza del bene. Nel corso del trecento l’interesse per la cultura del mondo classico si diffuse nelle corti dei principi e dei signori delle maggiori città italiane. La vita terrena non fu più vista soltanto come un momento di passaggio verso la vita eterna e le riflessioni dei filosofi si concentrarono sul significato e sul valore dell’esistenza dell’uomo. Proprio perché poneva l’attenzione sull’uomo, questa nuova tendenza fu chiamata Umanesimo. Gli umanisti affermarono il diritto dell’uomo a realizzare nel mondo la propria personalità. Di Umanesimo si parla per indicare un filone di studio e di pensiero indirizzati alla conoscenza dei classici e una riflessione storica, filosofica, e letteraria concentrata sui valori dell’uomo e sulla sua esistenza terrena. Gli intellettuali cortigiani erano i più numerosi ed erano dei letterati di professione, accolti e ospitati come tali dai signori. Le caratteristiche dei nuovi letterati erano queste: 1) I nuovi intellettuali miravano a stabilire rapporti del tutto personali con i signori: i signori offrivano ospitalità e protezione; gli scrittori ripagavano i Signori con il lustro e con il prestigio conferito dalla loro residenza nelle corti e dall’assolvimento di alcuni incarichi prestigiosi: ambascerie, direzione della segreteria del signore.

II
Introduzione alla poesia. “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”

I comuni italiani furono caratterizzati da una notevole vivacità economica e nello stesso tempo da una scarsa stabilità politica. Contro questi conflitti neppure la nomina dei podestà si dimostrò efficace. Una dopo l’altra le città finirono per affidare il potere a un solo uomo, il signore, che generalmente lo trasmise ai propri eredi. Cessarono così di esistere i comuni, che furono sostituiti da un diverso sistema di governo: la signoria. Molti signori chiamarono a palazzo letterati e artisti, organizzando una corte, simile a quella dei sovrani: questa organizzazione politica prese il nome di Principato. Tra le signorie che si affermarono in molte città del centro e del nord vi furono i Della Scala a Verona (1269), i Gonzaga a Mantova ((1328), i Carrara a Padova (1318), i Visconti a Milano (1277). Il tema della poesia è l’esortazione del poeta ai Signori principi italiani perché liberino l’Italia dalla piaga delle continue guerre e gli ridonino la pace allontanando le compagnie tedesche di ventura, pericolose e malsicure. Il poeta accusa i signori principi italiani che le loro ambizioni di potere dividono ancora di più l’Italia, volendo conquistare il comune vicino più piccolo o più debole. Ma questa guerra fratricida non fa vedere le lagrime del popolo doloroso, il quale aspetta solo da essi la pace. Il poeta conclude dicendo che poiché la vita fugge e la morte arriva velocemente sulle palle, essi farebbero meglio a salvarsi l’anima. È meglio a spendere il tempo non in guerre, ma è meglio dedicarsi ad opere belle e di pace affinché ciascuno si goda la propria vita e gli si aprano le porte del cielo.

Testo della poesia “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”

Il componimento poetico è il n. 128 dell’intera opera poetica. Fu scritto, probabilmente, all’inizio del 1345, durante la guerra tra gli Estensi di Urbino e i Visconti di Mantova.

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo vedo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che’ miei sospir sian quali
spera ‘l Tevero e l’Arno
e ‘l Po, dove doglioso e grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che ti condusse in terra
ti volga al tuo diletto almo paese.
Vedi, segnor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra,
e i cor, ch’ndura e serra
Marte superbo e fero,
apri tu, Padre e ‘intenerisci e snoda;
ivi fa che ‘l tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
Perché ‘l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga;
poco vedete e parvi veder molto,
ché ‘n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
colui è più da suoi nemici avvolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avvene, or chi fia che ne scampi?

Ben provvide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi e la tedesca rabbia;
ma ‘l desir cieco encontra ‘l suo ben fermo
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge e mansuete gregge
s’annidan sì che sempre il miglior geme;
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sì il fianco
che memoria de l’opra anco non langue,
quando assetato e stanco
non più bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ‘l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ‘l cielo in odio n’aggia:
vostra mercè, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, e le fortune afflitte e sparte
perseguire, e ‘n disparte
cercar gente e gradire
che sparga ‘l sangue e venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui né per disprezzo.

Né v’accorgete ancor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ‘l danno.
Ma ‘l vostro sangue piove
più largamente, ch”altr’ira vi sferza.
Da la mattina a terza
di voi pensate e vederete come
tien caro altrui chi tien sé così vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano, senza soggetto;
ché ‘l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intelletto,
peccato è nostro e non natural cosa.

Non è questo ‘l terren ch’i toccai pria?
Non è questo il mio nido,
ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria ch’io mi fido,
madre benigna e pia,
che copre l’un e l’altro mio parente?
Per Dio, questo la mente
talor vi mova, e con pietade guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; e pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertù contro furore
prenderà l’arme e fia ‘l combatter corto;
ché l’antico valore
ne l’italici cor non è ancor morto.

Signor, mirate come ‘l tempo vola
e sì come la vita
fugge, e la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui, pensate a la partita,
ché l’alma ignuda e sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno,
venti contrari a la vita serena,
e quel che ‘n altrui pena
tempo si spende, in qualche atto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche onesto studio si converta,
così qua giù si gode
e la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché tra gente altera ir ti convene,
e le voglie son piene
già de l’usanza pessima e antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra magnanimi pochi a chi ‘l ben piace.
Di’ lor: “-Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace-”.

Parafrasi della canzone poetica
“Italia mia, ben che ‘l parlare sia indarno”

I

Italia mia, benché il parlare sia inutile
per guarire le tue ferite mortali,
che io vedo così profonde nel tuo bel corpo,
mi piace credere, almeno, che i miei lamenti siano quelli
che spera di ascoltarli, chi vive presso il Tevere e l’Arno
e il Po dove io doloroso e triste ora siedo.
O Dio, reggitore del cielo, io chiedo
che la pietà che ti condusse in terra
ora ti faccia volgere (lo sguardo)
al santo e prediletto paese.
Vedi, Dio benefico, come guerre
così feroci nascono da quali futili motivi:
e tu, o Padre, che intenerisci e apri i cuori,
mentre Marte, superbo e feroce,
li indurisce e li chiude, fai che la tua verità,
chiunque io sia, si oda tramite la mia voce.

II

Chiedo
a voi, Signori principi, a cui la sorte ha posto il governo
(nelle vostre mani) delle belle province italiane,
delle quale non pare sentiate nessuna pietà,
che cosa fanno in Italia tante armi straniere?
Forse sperate che il verde territorio italiano
si tinga del rosso del sangue tedesco?
Una vana illusione vi sorregge:
vedete poco, ma vi sembra di vedere molto;
perché cercate amore e fedeltà in cuori venali:
chi possiede più truppe mercenarie
colui è più circondato da nemici.
Oh soldataglie tedesche raccolte,
da quali terre impervie e lontane venite
per inondare di sangue i nostri dolci campi!
Se questo ci capita con le nostre stesse mani
Ora chi, fra gli italiani, riuscirà a salvarsi?

III

La Natura provvide bene al nostro territorio,
quando mise la catena montuosa delle Alpi
fra noi e la ferocia tedesca:
ma la cieca cupidigia contro i propri interessi,
si è tanta adoperata
che ha procurato la cecità nel territorio sano.
Ora dentro l’Italia stanno
i tedeschi selvaggi e gli italiani mansueti
così che i migliori italiani gemono;
e ciò ci proviene dal popolo tedesco,
un popolo senza leggi; e ciò procura, altresì,
un maggior dolore agli italiani perché
(la banda dei mercenari tedeschi) discende e
proviene da quel popolo di tedeschi
(battuti, sconfitti, umiliati e sottomessi dai romani)
al quale, come si legge nella storia,
Mario aprì il fianco, da dove fuoriuscì tanto sangue che,
ancora oggi, il ricordo della vittoria
non diminuisce e tanto che, quando lui,
Mario, stanco e assetato,
bevve dal fiume non più acqua ma sangue.

IV

Taccio di Cesare, il quale insanguinò
ogni spiaggia con il loro sangue ancora vivo,
che fece uscire dalle loro vene.
Ora pare, non so per quali stelle maligne,
che Dio ci abbia in odio:
la colpa è vostra, o principi, a cui fu affidato il governo
dei vostri comuni e delle vostre signorie.
Le vostre ambizioni contrastanti
danneggiano la più bella terra del mondo.
Quale colpa, quale giudizio o quale destino,
vi induce a opprimere i principati vicini e più deboli
a perseguitare i beni diminuiti e dispersi?
e perché assoldate i mercenari tedeschi?
forse sperate che essi spargano sangue italiano
forse sperate che essi vendano la loro anima per denaro?
Io parlo per dire la verità,
non parlo per odio verso alcuni principi
né parlo per disprezzare altri signori.

V

Voi, Signori Principi, non vi accorgete
che le soldataglie tedesche, in diverse prove,
alzano le mani in segno di resa e
scappano di fronte alla morte?
La beffa, a mio parere, è peggiore del danno.
Ma io spero che il vostro sangue, invece, sgorga
copioso, affinché una forza più violenta vi spinga a combattere.
Dalla mattina alla terza ora del giorno
pensate e vedete chi stima gli altri poco
chi stima poco sé stesso.
Latino sangue nobile, italico,
liberati da questo peso rovinoso:
Principi non fatevi un idolo falso,
dei mercenari tedeschi perché non hanno consistenza;
perché la ferocia dei tedeschi, gente ritrosa e irosa,
si vince soltanto con l’ingegno e la nobiltà.
La viltà è colpa nostra e non è cosa naturale.

VI

Non è questa la terra che toccai per la prima volta?
Non è questa la casa, dove io fui nutrito così dolcemente?
Non è questa la patria a cui io mi affido?
madre benigna e pia;
chi chiuse nella tomba i miei genitori?
Per amor di Dio, talora questo vi commuova, o principi,
e guardate con pietà le lagrime del popolo afflitto, il quale,
dopo Dio, solo da voi, Signori Principi, attende la pace;
e qualora voi mostriate qualche segno di pietà,
allora la virtù prenderà le armi contro la ferocia,
e il combattimento sarà breve
perché l’antico valore di Marte, ancora,
non è morto nei cuori italici.

VII

Signori Principi, guardate come il tempo vola,
e come la vita fugge via velocemente
e come la morte ci sta sopra le spalle.
Voi ora siete qui: pensate alla partenza dalla vita;
perché l’anima conviene che arrivi
libera e pura a quel pauroso momento.
Nel vivere, nell’attraversare e nel lasciare questa terra
vi piaccia deporre l’odio e l’invidia,
che sono passioni contrarie alla vita serena.
E quel tempo che si spende per recare danno
agli altri è meglio che sia trasformato
in qualche atto pratico, o di arte,
in qualche atto di lode o di studio,
cosicché la vita e l’amore si possano godere in terra,
cosicché la via del Cielo si apra ai fautori della Pace.

VIII

Io, o canzone, ti ordino di dire, cortesemente,
la tua verità, perché è necessario che tu vada
tra gente altere e ambiziosa,
la quale, per antica e pessima usanza,
è nemica da sempre della verità.
Tu, o canzone troverai buona accoglienza,
soltanto, fra pochi generosi a cui piace il Bene.
Tu, o canzone, di’ a costoro: A chi mi ascolta,
“Chi mi protegge? Chi mi assicura la pace?”
Io vado cercando fra i Principi italiani,
e, gridando, invoco da loro: “Pace, pace, pace”.

Finale.

Petrarca fu un vero fautore della Pace, perché non si schierò né dalla parte di un Principe né scelse di stare con un altro Signore; non condannò, i partiti singolarmente, ma deprecò e condannò, in blocco, le guerre fratricide fra tutti i Principi italiani perché portavano morte, rovina e distruzione in tutta l’Italia e portando in Italia bande e soldataglie mercenarie tedesche.
Il Petrarca, con questa canzone, rivendicò per sé stesso e per tutti gli intellettuali della sua epoca la sua autonomia di pensatore politico e proclamò la sua aspirazione a vivere in una Italia libera dai tedeschi ed esortò i Principi italiani ad essere fautori e portatori di Pace. Infatti il Petrarca rivendicò la propria libertas; non volle subordinare la propria attività intellettuale a una committenza esteriore; ma intese rivolgersi a un pubblico nuovo, che non era quello dei mercanti o dei borghesi; e non volle neppure sottomettersi al potere delle Università o della Chiesa, ma lavorò per il pubblico, assai ristretto, dei dotti, dei Signori e delle Signorie che amavano e coltivano le humanae litterae. La cultura nell’epoca delle signorie fu considerata dal Petrarca come un’attività separata, ma in qualche modo autonoma e ausiliaria della politica. Nel 1300 i Signori chiamavano gli Uomini di cultura a svolgere nuove importanti funzioni nella vita civile: non più isolati nei monasteri o nelle università, ma al diretto servizio dei Signori nelle loro corti. Gli intellettuali erano pronti a dare consigli, traendoli dagli insegnamenti degli antichi greci e dei Romani. Gli scritti degli storici, dei filosofi antichi venivano letti con nuovi interesse. Di fatto Petrarca contribuì a gettare le basi della nascente civiltà umanistica, all’interno della quale l’attività artistica e culturale, perché non fu ritenuta inferiore all’impegno politico delle Corti, delle Signorie e dei Principati. Petrarca considerò l’intellettuale preumanista, non più un soggetto relegato a un’attività specifica, e recluso nelle abbazie dei conventi o confinato negli uffici delle Università ed espulso dal mondo attivo della politica. Petrarca, in prima persona e per tutta la sua vita, partecipò e lavorò, attivamente, come politico e letterato, nelle Corti dei Principi e dei Signori, laici e cattolici. A differenza di Dante, Petrarca non considerò negativamente il suo ruolo di intellettuale di corte, anzi Petrarca lavorò ed esercitò la sua attività letteraria come professione, da cui ricavare prestigio e riconoscimenti.

II

Io, B. C., penso che il verso 95 della VI strofa si potrebbe interpretare in due modi: o aggiungendo alla prima metà del verso “della pace” oppure aggiungendo “della guerra”. Quindi il verso completo sarebbe questo: “ché l’antiquo valore della pace” oppure “ché l’antiquo valore della guerra”. Io, Biagio Carrubba, fra le due versioni, scelgo la seconda interpretazione per due motivi. Il primo motivo è dato dal fatto che il Petrarca aveva davanti a sé l’uso delle armi da parte dei Principi italiani che si stavano combattendo fra di loro, come stava accadendo per la conquista della città di Parma. Il secondo motivo è dato, invece, dal riferimento al predominio militare dei Romani, di cui aveva parlato nelle strofe precedenti, e cioè le vittorie di Mario e di Cesare, che avevano imposto l’egemonia dello Stato romano sui Tedeschi e su una buona parte dell’Europa. Questo predominio militaresco romano è confermato dal verso precedente che dice: “prenderà le armi e il combatter sarà corto”. Quindi il Petrarca parla esplicitamente di armi e di guerra e il poeta conclude che il valore bellicoso, ben conosciuto ed esperito di Marte non è ancora morto nel cuore degli italiani, “ne l’italici cor (l’antico valore) non è ancor morto”, contro la ferocia dei mercenari tedeschi.

20190627_103412

Modica 14/08/2019                                                                         Prof. Biagio Carrubba

Edizione definitiva.

Share Button

Replica

Puoi usare questi tag HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>