“AL CONTE CARLO PEPOLI ” (Epistola poetica n. XIX) di G. Leopardi.

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“AL CONTE CARLO PEPOLI “.
(Epistola poetica n. XIX) di G. Leopardi.

Leopardi compose la poesia “Al Conte Carlo Pepoli” per esaudire l’invito del Conte Pepoli a recitare pubblicamente un suo componimento nel Casino dei Nobili presso l’Accademia dei Felsinei, di cui Pepoli era vicepresidente. Leopardi lesse per la prima volta in pubblico la poesia la sera del lunedì di Pasqua del 28 marzo 1826. Leopardi, nel canto, partendo dalla descrizione della vita nobiliare del Conte, espone il suo pensiero filosofico che aveva già esposto in quegli anni nelle “Operette Morali” (1824). La tesi generale della poesia è l’impossibilità, da parte degli uomini, di raggiungere la felicità, qualsiasi tipo di vita essi conducano; questa tesi Leopardi la stava esplicitando negli stessi mesi (marzo – luglio 1826) nello Zibaldone. Secondo Leopardi in natura non esiste la felicità, come scriverà contemporaneamente in diverse pagine dello Zibaldone. Gli uomini non potranno mai realizzare la felicità e quindi vivono da infelici; la natura ha dato all’uomo una vita piena di bisogni di modo che essi, presi dal lavoro per soddisfare tali bisogni, possano lenire l’ardente desiderio della felicità che inestinguibilmente ritorna sempre a mordere l’uomo e a gettarlo di nuovo nello stato di bisogno e di dolore. Ma Leopardi dice che nessun tipo di lavoro ed occupazione può far raggiungere la felicità, perché questa è sfuggente ed irraggiungibile in natura.
Mentre per Leopardi la vita attiva è insufficiente e carente perché non permette di raggiungere la felicità, io, Biagio Carrubba, giudico positivamente la vita attiva degli uomini perché permette di raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità economica e psicologica che permettono di vivere bene; inoltre chi ha la fortuna di svolgere un lavoro creativo, beneficante ed appagante, riesce a scacciare la noia, il dolore, la disoccupazione e la disperazione di una vita oziosa e parassitaria. Quindi la vita attiva è degna di essere vissuta, anche perché include il sesso che è molto importante per l’equilibrio psicosomatico dell’individuo. Purtroppo Leopardi non godeva del piacere del sesso e allora scriveva queste poesie dettate dalla disperazione per la sua infelice situazione fisica e dalla ispirazione del suo genio poetico. La tesi di Leopardi, allora, si riduce a questa equazione livellante: se tutti gli uomini sono infelici allora io partecipo alla stessa infelicità che colpisce tutti e come si dice “mal comune mezzo gaudio”. Purtroppo in qualsiasi società umana ci sono i felici e gli infelici, i poveri e i ricchi, i poeti e gli ignoranti ma Leopardi, malgrado i suoi problemi fisici, poteva considerarsi un uomo fortunato perché era un sublime poeta, e rimarrà immortale nei secoli. Leopardi conclude la poesia descrivendo il suo rammarico per la sua aridità poetica e il suo conseguente ripiegare per gli studi filosofici. Secondo Ugo Dotti la poesia: “sottintende la cosiddetta conversione leopardiana dal bello al vero…e questo canto al Pepoli… costituisce davvero il terreno per il futuro Risorgimento, se non altro in quanto sottolinea, per la conclamata disperazione nella poesia, la sua miracolosa futura resurrezione. La poesia è morta; viva la poesia” (da Giacomo Leopardi Canti a cura di Ugo Dotti – Feltrinelli editore – pag.72). Io, Biagio Carrubba, condivido la tesi di Ugo Dotti, perché il finale della quinta strofa anticipa, e quasi preannuncia, la grande poesia del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Il desiderio di potere ritornare a scrivere poesie, che il poeta tanto agognava perché si rammaricava di aver perso la vena poetica, per Leopardi era solo auspicabile, ma non era certo che si realizzasse; buon per lui che gli ritornò l’ispirazione poetica e buon per noi che possiamo essere estasiati dalle altre e nuove poesie che scrisse a cominciare dal “Risorgimento” che descrive proprio la sua resurrezione poetica. Come la maggior parte delle poesie di Leopardi anche questa poesia mi piace tanto, mi affascina e mi riempie l’anima di una bellezza poetica infinita. L’epistola poetica fu scritta nel marzo del 1826 ed è composta da 158 endecasillabi sciolti ed è il numero XIX de “I Canti”.

Testo della poesia “Al Conte Carlo Pepoli”.

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi 5
L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all’intento 10
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l’alba tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa dirai, da che sua vita 15
È per campar la vita, e per sé sola
La vita all’uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie 20
Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a sé, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista 25
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all’aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
D’esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate 30
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All’umana famiglia; onde agitato 35
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de’ bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Né men vano che a noi, vive nel petto
Desio d’esser beati; a quello intenta 40
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Né la lentezza accagionar dell’ore.
Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave 45
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto, 50
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno
I vòti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l’omicida mano, 55
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci 60
Medicine procaccia, onde quell’una
Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di cavalli, e le frequenti 65
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
Nell’imo petto, grave, salda, immota 70
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante, 75
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L’età spendendo, e mari e poggi errando 80
Tutto l’orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all’uom negl’infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
Su l’alte prue la negra cura, e sotto 85
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed havvi 90
Chi d’altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far sé men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
Perseguitando; e chi la propria gente 95
Conculcando e l’estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l’armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce 100
Regge nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de’ carmi e di ritrar parlando 105
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce
E il nostro proprio error. Ben mille volte 110
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade, 115
Così come solea nell’età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
La favilla che il petto oggi ti scalda, 120
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all’ora estrema 125
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, né degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Né degli augelli mattutini il canto 130
Di primavera, né per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d’arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso, 135
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch’io riponga
L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi 140
Destini investigar delle mortali
E dell’eterne cose; a che prodotta,
A che d’affanni e di miserie carca
L’umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui 145
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d’ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo 150
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago 155
Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d’amor, Diva più cieca.

Parafrasi e costruzione diretta della poesia ” AL CONTE CARLO PEPOLI”.

1ª strofa.
Come sopporti questo affannoso ed inquieto
sonno che noi chiamiamo vita, o Pepoli mio?
Con quali speranze alimenti il tuo cuore?
Con quali pensieri e con quante belle o noiose
opere occupi il tempo libero, grave e faticosa
eredità che ti ha lasciato la tua antica famiglia?
La vita è tutta noia e dolore in qualsiasi
condizione sociale ed economica,
poiché quell’operare, quell’affaticarsi che non ha
come mira uno scopo degno, o che
non è in grado di conseguirlo, allora
è giusto chiamarlo ozioso. La schiera industriosa,
di coloro che spezzano zolle e curano gli alberi e i greggi
di coloro che vedono trascorrere l’alba tranquilla e il pomeriggio,
la giudicherai faticosa, e dirai una cosa
giusta e vera se pensi che la vita biologica presa
in sé stessa non ha molto valore per gli uomini.
Il nocchiero trascorre la sua vita nella noia;
il perenne sudore è noioso nelle officine;
le veglie dei soldati e il pericolo delle guerre sono noiosi;
e l’avido mercante vive nella noia:
la natura umana cerca, aspira e desidera ardentemente
la bella felicità, ma nessuno l’acquista per sé e per gli altri
malgrado la fatica, il lavoro, l’attesa e il pericolo che sostiene.
Eppure la natura aveva preparato per l’infelice vita
diversi bisogni, come rimedi per lenire
il tormentoso desiderio (della felicità)
per il quale gli uomini, già fin dalla creazione
del mondo, desiderarono inutilmente di essere beati;
bisogni, ai quali è necessario provvedere
con lavoro e con preoccupazioni, e
poiché le giornate non possono essere liete,
almeno le giornate degli uomini trascorressero
piene di occupazione e di lavoro,
in modo che il desiderio della felicità
fosse stordito e allontanato e cosicché esso avesse
meno possibilità nel tormentargli il cuore.
Così, anche la sterminata razza degli animali vive,
anche se in modo meno triste rispetto agli uomini,
aspirando, nel proprio cuore, ad ottenere il desiderio
della felicità che non solo è uguale al nostro,
ma non meno giusto del nostro;
mentre la razza animale è intenta a cercare
il necessario alla propria sopravvivenza,
si scopre che essa trascorre il tempo
in modo meno gravoso e meno triste di noi,
né essa accusa il lento trascorrere delle ore.
Ma a noi, che affidiamo il compito materiale
di provvedere alla nostra vita a mani altrui,
resta una più grave necessità, a cui nessuno,
se non noi stessi, può provvedere;
questa necessità, io dico, è quella di riempire la vita
e noi uomini vi adempiamo con noia e con pena;
una necessità crudele, invincibile, che
né un tesoro accumulato, né un’abbondanza di greggi,
né fecondi campi, né reggia, né potere di re
può togliere agli uomini. Ora, se qualcuno,
prendendo a sdegno gli anni vuoti (inutili)
e odiando la bella luce del sole,
non rivolge la mano omicida contro sé stesso,
spinto ad anticipare la morte che tarda;
allora egli, cercando in tutti i lati,
trova mille occupazioni, ma inefficaci, che
sostituiscono male quell’unica occupazione
(la spinta ad agire e ad occupare il tempo attivamente)
che la natura ha predisposto per placare
il duro morso dell’inestinguibile desiderio
che cerca e chiede inutilmente la felicità.

2ª strofa.
La cura eccessiva degli abiti, dei capelli e
degli atteggiamenti e le frivole occupazioni
per i cocchi e per i cavalli e le sale affollate
e le strade rumorose e i giardini, tengono occupato lui
(il nobile disoccupato o il giovin signor del Parini)
e giochi e cene e danze
lo tengono indaffarato notte e giorno;
il sorriso mai non gli diparte dalla bocca;
ahi, ma una Noia invincibile, grave,
ben ferma, immobile, come una colonna d’acciaio,
vive e batte nel suo cuore, contro la quale nulla può,
né il vigore della giovinezza e nemmeno
la dolce parola pronunciata
dalle rosate labbra di una fanciulla
e nulla può anche il tenero e tremante sguardo
di due nere pupille, che è la cosa umana
più degna del cielo riesce a togliere.

3ª strofa.
Altre persone, volendo sfuggire alla triste sorte umana,
consumando la loro vita, percorrendo terre e mari,
errando per mari e per terre, percorrono tutto il mondo,
e raggiungono, esplorando, ogni confine delle terre che
la natura aprì all’uomo negli infiniti campi dell’universo.
Ahi, ahi, la tetra Noia si siede sulla prua, e sotto
ogni clima e sotto ogni cielo si invoca invano
la felicità, ma dappertutto la tristezza vive e regna.

4ª strofa.
C’è chi sceglie per passare la vita le armi,
e bagna la mano nel sangue del fratello per noia;
c’è chi si rallegra dei danni altrui e pensa che
con il fare miseri gli altri, fa meno triste sé stesso,
cosicché procura di passare il tempo nuocendo.
C’è chi sceglie di passare il tempo
distruggendo la virtù, la sapienza e le arti;
c’è chi spende la sua destinata vita
tiranneggiando il proprio popolo o
conquistandone altri, o togliendo
la quiete secolare di popoli di luoghi lontani
con il mercato, con le armi e con le frodi.

5ª strofa.
Un più mite desiderio, un’attività più dolce
guidano te (Carlo Pepoli) nel fiore della tua gioventù,
nella primavera della tua vita;
il primo e massimo dono della giovinezza
guida gli altri, ma esso (il mite desiderio)
è grave, amaro, ostile per chi non ha una patria.
Lo studio della poesia e l’arte di descrivere
con la parola il bello, raro, scarso e fuggitivo,
che appare nel mondo e l’arte di dipingere
quel bello che la vaga fantasia, più benigna
della natura e del destino, produce a noi
in gran quantità, e l’arte di ritrarre l’immaginazione,
spingono e spronano te a coltivare la poesia.
Ben mille volte fortunato
colui che non perde la breve facoltà dell’immaginazione,
per il passare del tempo; fortunato colui a cui gli Dei
concessero di conservare per sempre la gioventù nel cuore;
fortunato colui il quale nell’età adulta e nella vecchiaia,
così come soleva fare nella gioventù,
nell’intimo suo pensiero abbellisce la natura, la morte
e ravviva il deserto della vita. Il destino conceda a te (Carlo Pepoli)
l’ispirazione poetica che oggi ti scalda il cuore e ti faccia domani
amante della poesia fino alla tua tarda vecchiaia.
Io già sento che le dolci illusioni della mia giovinezza
vengono a mancare, e già sento che le preziose immagini,
che io tanto amai, cominciano a dileguarsi dai miei occhi,
e che, nel ricordarle, saranno da me tanto desiderate e
rimpiante fino nell’ultima ora della mia vita.
Orbene, quando il mio cuore sarà del tutto inaridito e freddo,
quando il sereno e solitario sorriso dei soleggiati campi,
quando il canto degli uccelli mattutini di primavera,
quando la tacita luna per le valli e per i campi di un
limpido cielo non commuoveranno più il mio cuore;
quando ogni bellezza di natura o di arte mi sarà diventata
senz’anima e muta;
quando ogni alto sentimento, ogni tenero affetto mi saranno
diventati sconosciuti ed estranei;
quando sarò privato del mio unico conforto (la poesia),
allora sceglierò e mi dedicherò ad altri studi meno dolci,
con i quali io spero di passare l’ingrato tempo
che mi resta ancora da vivere.
Investigherò la triste realtà, gli oscuri destini delle cose
mortali ed eterne; investigherò quale sia il fine per il quale
la stirpe umana è stata creata; indagherò quale sia il motivo
per il quale essa è stata gravata di dolori e di miseria;
investigherò qualche sia l’ultima finalità verso la quale
il fato e la natura spingono la stirpe umana;
investigherò a chi (entità, Dio, fato)
il nostro così grande dolore giovi o diletti;
investigherò con quali leggi e con quali ordini, e quale
sia il fine, verso il quale tenda questo misterioso universo,
il quale i saggi colmano di lodi ed io mi accontento di ammirarlo.

6ª strofa.
Io verrò trascinando il mio tempo in questo filosofare:
poiché il vero, una volta che lo si sia conosciuto,
anche se triste, ha anche i suoi diletti. E talora mentre
ragiono del vero, se i miei pensieri saranno mal graditi
o non accettati dagli altri, non mi dispiacerà,
perché il desiderio di Gloria (la fama)
allora mi sarà scomparso del tutto:
perché so che la dea Gloria non è
soltanto vana, ma è anche più cieca e capricciosa
della Fortuna, del Destino e dell’Amore.

 

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Modica 10/08/2018                                                                                       Prof. Biagio Carrubba

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