
Il romanzo “LA LUNA E I FALÒ” racconta la storia di un uomo che era ritornato in un paese delle Langhe tra Canelli, Barbaresco e Alba. Lui sapeva, con certezza, di non essere nato in quel paese perché non conosceva né i genitori né il luogo di nascita e quindi era un bastardo. Conobbe la verità quando all’età di dieci anni morì la sua matrigna e così scoprì che le due ragazze non erano sue sorelle. Era ritornato in questo paese l’anno prima ed aveva iniziato a girare il casotto della Gaminella dove era rimasto fino a tredici anni e si incontrava con Nuto, il suo migliore amico, che aveva conosciuto alla cascina della Mora. Lui aveva creduto che questo paese, Santo Stefano, dove non era nato, era stato tutto il suo mondo e considerava le collinette di Canelli come le porte del mondo. Il protagonista era andato ad abitare nell’albergo di Santo Stefano dove ormai nessuno lo conosceva e si incontrava spesso con Nuto che, dopo dieci anni in cui aveva suonato il clarino, aveva smesso e ormai faceva solo il falegname e abitava nella casa del salto. Il protagonista aveva sentito parlare di Nuto, anche negli Usa, come un bravo suonatore di clarino. Nuto diceva al protagonista che ogni persona ha il proprio destino e a tutti succede qualcosa. Un giorno il protagonista incontrò Valino, il mezzadro che abitava nel casotto della Gaminella. Valino era un tipo fosco e di poche parole. Qualche giorno dopo il protagonista andò nel casotto di Valino e vide un ragazzetto che avrà avuto dieci anni e che rideva. Questo ragazzetto gli fece ricordare lui alla sua stessa età. Il protagonista si rende conto che il paesaggio era sempre uguale ma era lui ad essere cambiato dopo la lunga emigrazione. Molte volte il protagonista parlava con Cinto, il ragazzetto sciancato, figlio di Valino, perché gli faceva piacere parlare con lui dato che gli ricordava sempre la sua infanzia da bastardo nel casotto della Gaminella. Nuto gli ripeteva che il mondo è malfatto e che interessa a tutti cambiarlo. Un giorno il protagonista chiede a Cinto se per la festa di San Giovanni facessero ancora i falò come succedeva ai suoi tempi e Cinto gli rispose che ormai erano sporadici. Poi chiese a Nuto se lui credeva nell’importanza della luna nell’agricoltura. Nuto rispose che bisognava crederci per forza perché certe cose non riescono a luna piena. Il protagonista quando attraversava i suoi luoghi nativi ricordava con piacere la sua infanzia trascorsa lì e ricordava che sulle colline il tempo non passa mai. Il protagonista si ricordò anche di una escursione notturna lungo le strade degli Usa quando gli si impannò il camioncino e rimase solo per tutta la sera in aperta prateria e guardando la luna ne ebbe paura. In quei giorni a Gaminella trovarono i cadaveri di due repubblichini e il prete fece una omelia contro i partigiani. Il protagonista chiese a Nuto come fosse morta Santa, la terza figlia di Sor Matteo ma Nuto disse solo che era morta in modo tragico senza svelare l’epilogo finale. Quando era negli Usa, il protagonista sognava che un giorno, quando sarebbe ritornato, avrebbe ritrovato le mani e le voci delle donne che aveva lasciato e in particolare quelle delle due figlie di Sor Matteo. Poi il protagonista ricorda di quando il suo patrigno aveva venduto la Gaminella e lui, a tredici anni, era andato ad abitare e lavorare nella cascina della Mora. Qui un’altra servitrice, Emilia, gli aveva affibbiato il soprannome di Anguilla. Anguilla nella sua nuova dimora, alla mora, si trovava bene perché aveva imparato un nuovo mestiere, quello di contadino, e aveva conosciuto le bellissime figlie di Sor Matteo, Irene la bionda e Silvia la bruna. Un giorno il protagonista andò a trovare, insieme a Nuto, la moglie di Valino ed entrò, finalmente, dentro il casotto della Gaminella. Il protagonista racconta ancora le molte occasioni che aveva trascorso con Nuto, il giovane falegname, che veniva a suonare nella cascina della Mora. Sor Matteo, qualche anno dopo, cominciò a pagare la giornata al protagonista che, a tutti gli effetti, diventò un lavoratore a tutto campo della cascina. Un giorno Cinto andò a trovare il protagonista all’albergo del paese. Il protagonista gli comprò un coltellino e dentro di sé provava un sentimento di invidia per l’età di Cinto e avrebbe voluto rivedere il mondo con gli occhi del ragazzo. Tra i bei ricordi della Mora, il protagonista ricorda quando con Nuto andavano sotto i coppi del tetto della cascina a sfogliare vecchi libri. Il protagonista, nella sua gioventù, guardava sempre con ammirazione le due figlie di Sor Matteo e le seguiva. Un giorno, estasiato dalla bellezza della giovane donna, guardò Irene attraversare il torrente Belbo per cogliere dei fiori gialli per Santa, la terza figlia di Sor Matteo avuta dalla seconda moglie. A diciotto anni il protagonista andò a Genova per il servizio militare e conobbe una ragazza che diventò la sua fidanzata. Ma il protagonista si ricordò anche di un’altra ragazza americana, Rosanne, che aveva conosciuto in America, la quale gli aveva consigliato di produrre il liquore, clandestinamente, e questa operazione vietata, che lui fece, lo fece diventare un ricco commerciante italiano. Ma anche la relazione con Rosanne finì. Poi il protagonista capì anche che le due figlie maggiori di Sor Matteo erano inquiete e non soddisfatte della vita che conducevano perché la contessa della cascina del Nido, a volte, non le invitava nel suo palazzo quando organizzava feste da ballo. Le due giovani donne soffrivano molto, quando non venivano invitate dalla vecchia contessa. Due giovani del luogo cominciarono a frequentare Irene e Silvia, anche se il Sor Matteo non li vedeva di buon occhio. Il protagonista, attento alla vita delle due giovani donne, veniva a conoscere le storie degli amori delle due ragazze dagli altri servitori. Silvia aveva perso la testa per un uomo di Crevalcuore che la portava in giro in moto. Irene invece era innamorata di un nipote della contessa, Cesarino, che era indifferente alla ragazza. Intanto Irene si era ammalata di tifo. Quando guarì seppe che Cesarino, il nipote della contessa, era andato a Genova. Nuto chiese ad Anguilla come mai fosse andato in America. Il protagonista gli risponde che la sua voglia di andare via non era tanto dovuta all’attrattiva per gli Usa bensì alla rabbia di non essere nessuno e visto che era già arrivato a Genova per il militare voleva ormai anche attraversare il mare. Il protagonista racconta all’amico che quando arrivò a Genova conobbe altri compagni della sua età che in qualche modo gli fecero conoscere una realtà politica, alternativa al fascismo, con cui lui si legò per un breve periodo. Quando poi alcuni suoi compagni furono arrestati la sua fidanzata di Genova gli procurò un posto di lavoro su una nave che andava in America. Quindi il suo emigrare negli Usa fu più un fatto casuale che un fatto preordinato ed intenzionale. Intanto Cinto veniva verso di loro, zoppicando e mugolando, e gli disse che suo padre Valino aveva incendiato il casotto ed ucciso Rosina, la mamma di Cinto, e la mamma di lei. Anguilla e Nuto andarono subito alla Gaminella e videro effettivamente che tutto era bruciato e notarono del fumo ancora fuoriuscire. Cinto raccontò che la madama della villa era andata nel casotto di Valino e pretendeva la metà del raccolto. Vi fu un grosso litigio tra Valino e la madama e il Valino dopo avere dato metà del raccolto andò via da casa. Ritornò la sera, arrabbiatissimo, e cominciò a picchiare e a scalciare Rosina e la madre di lei fino ad ucciderle. Poi cercò anche di acchiappare Cinto che riuscì a scappare. Diede fuoco al fienile e alla paglia e richiamò Cinto che nel frattempo si era nascosto sulla riva del fiume. Cinto dopo un po’ rientrò e vide pendere i piedi del padre sotto la volta del noce. Un giorno Silvia fu abbandonata da Matteo, il giovane di Crevalcuore, e si mise con un altro giovane. Dopo questa breve storia, Silvia ebbe un’altra breve avventura con un cinquantenne di Milano, Lugli, che la abbandonò lasciandola all’improvviso. Silvia cercò di rintracciarlo andando fino a Genova ma qui, non trovandolo, rimase sola. Sor Matteo dopo un mese andò a riprendere la figlia che era rimasta incinta ad insaputa del padre. Sor Matteo, ritornato a casa, seppe che Silvia era incinta e fu colpito da un ictus. La figlia, qualche giorno dopo, andò di nascosto ad abortire. Silvia ritornò a casa e qualche giorno dopo morì per le conseguenze dell’aborto. Sor Matteo ormai usciva solo nel terrazzo mentre Arturo ritornò a frequentare la casa solo per interesse e riuscì a sposare Irene che non lo aveva mai amato. Irene accettò di sposare Arturo soltanto per andarsene da casa e per non sentire i brontoli della matrigna. Arturo portò Irene a vivere a Nizza in una stanza dove la batteva. Il protagonista poi racconta anche un giorno di festa quando aveva accompagnato le due sorelle in un paese vicino. Le due ragazze erano felici di stare con i loro amici e lui sognava di trovare insieme a quei giovani ed era molto felice di vedere le giovani ragazze ridere e scherzare con gli amici anche se avrebbe voluto essere con loro. Il protagonista raccomandò Cinto a Nuto perché gli insegnasse il mestiere di falegname nella sua bottega. Se il ragazzo fosse riuscito ad imparare bene il mestiere lui, da grande, gli avrebbe trovato un lavoro a Genova. Nuto accettò Cinto nella sua bottega ma sua moglie protestò. Nuto chiese al protagonista quando sarebbe ritornato dagli USA? Anguilla gli rispose che probabilmente sarebbe ritornato l’anno successivo. Il protagonista, parlando con Nuto, rimpiange la triste fine di Irene e Silvia ma era curioso di conoscere i dettagli della fine di Santa, la giovane figlia di Sor Matteo. Nuto preso da un momento di tenerezza e di confessione verso l’amico cominciò a raccontargli che Santa era più bella delle due sorelle maggiori e aveva “gli occhi come il cuore del papavero” (pag. 165). Nuto gli disse che Santa, da giovane, si era trasferita a Canelli, dove si era impiegata nella casa del fascio e girava insieme agli ufficiali per tutti i territori della provincia. Poi arrivò l’estate del 1943 quando cadde il fascismo e a settembre fu istituita la Repubblica di Salò e anche per lei finì la bella vita. Nuto quando passava da Canelli guardava la casa di Santa e una volta lei lo invitò a parlare. Gli confidò notizie riservate sui repubblichini e praticamente cominciò a fare la doppiogiochista raccontando ai partigiani informazioni sui repubblichini. Nuto, nel maggio del 1944, chiamò Baracca per fare entrare Santa tra i partigiani ma lei ritornò dai repubblichini per riferire notizie dei partigiani. Quando Baracca si accorse del doppio gioco decise di giustiziarla in quanto spia. Un giorno di giugno del 1944 Baracca invitò Nuto alla Gaminella per raccontare la verità su Santa e in uno di quei giorni Santa, scappata da Canelli, si trovò alla Gaminella dove Baracca le lesse la sua sentenza di morte. La ragazza fu condotta fuori da due partigiani ma tentò di scappare e fu uccisa da una scarica di mitra che non finiva più. Anguilla chiese a Nuto se un giorno fosse stato possibile ritrovare il corpo di Santa. Nuto rispose che non sarebbe stato possibile perché Baracca fece tagliare molto sarmento nella villa con la quale ricoprirono il corpo di Santa su cui versarono della benzina. A mezzogiorno il rogo già bruciava e tutto era finito in cenere. Ancora dopo qualche anno si vedevano i segni del rogo come i segni che rimangono dal letto di un falò. (Pag. 173).
Il messaggio del romanzo.
Il messaggio del romanzo è dato dalla situazione del protagonista che non è un déraciné ma anzi è un uomo economicamente libero ed integrato nella società italiana e americana. Anguilla accetta le sue origini contadine e del suo territorio e rimane con la sua personalità generosa verso gli altri perché sa di avere ricevuto tanto bene dagli altri a cominciare dai suoi genitori adottivi, da Nuto, dal parroco del paese, dal padrone della Mora, Sor Matteo, dalla fidanzata di Genova che lo aiutò a fuggire in Usa, e da Rosanne, una delle fidanzate americane, che gli suggerì l’idea e il modo di diventare ricco. Il protagonista Anguilla è riconoscente a tutte queste persone e siccome aveva un animo buono ora, dopo il ritorno nel suo paese, quando incontra Cinto, in cui lui rivede sé stesso bambino, riversa sul ragazzetto tutto il bene che lui aveva ricevuto perché non era un ingrato con gli altri e perché non si sentiva un déraciné. Il protagonista quindi conserva ancora la bontà della gente del luogo, dei contadini di allora e quindi aiuta con animo favorevole Cinto che lui considerava un altro sé stesso disagiato e svantaggiato rispetto agli altri. Succede molte volte che un déraciné, divenuto un uomo arricchito, un ricco commerciante, un parvenu, dopo che ha fatto fortuna, disprezza la classe di origine povera perché lui non lo è più e quindi adotta i vizi e i pregiudizi della nuova classe arricchita, disprezzando i poveri. Il messaggio etico, che sfocia nella bellezza del romanzo, consiste nel fatto che Anguilla non dimentica la sua povertà originaria e la sua condizione di bastardo e di servitore ma, dall’alto della sua nuova posizione, aiuta Cinto che si trova nella sua stessa situazione di quando era ragazzo per cui il messaggio etico del libro è quello che ognuno di noi deve sapere amare gli altri che rimangono in povertà e in disagio. Questo atteggiamento di empatia e di amore per chi rimane povero e disagiato è il messaggio più forte del romanzo perché bisogna rafforzare e sviluppare la forza di amare coloro che rimangono più sfortunati rispetto a chi riesce a vincere la miseria e la povertà. Anguilla dimostra la sua capacità di amare quando Cinto rimane orfano e il protagonista si mette d’accordo con Nuto per trovargli una sistemazione: “Cinto se lo prese in casa Nuto, per fargli fare il falegname e insegnargli a suonare. Restammo d’accordo che se il ragazzo metteva bene, a suo tempo gli avrei fatto io un posto a Genova”. (Capitolo XXXI – Pag. 163). Accanto a questo messaggio etico c’è un altro messaggio esplicito nel libro che è quello che ognuno di noi deve trovare il coraggio e la forza di abbandonare la terra di origine per far fortuna in un altro ambiente perché se non si esce si rimane chiusi nel proprio territorio e il più delle volte si rimane in condizioni di povertà. Ecco il brano più significativo che esplicita questo messaggio: “Nuto una sera mi domandò com’era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l’occasione e i vent’anni l’avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l’America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia dopo che avevo passato la Bormida, di passare anche il mare”. (Capitolo XXVI – Pagg. 137 – 138). Un proverbio che esprime questo coraggio e forza d’animo da noi afferma che: “Chi esce, riesce”.
La tesi del romanzo.
La tesi del romanzo è il lavoro. Pavese aveva una grande considerazione del lavoro perché secondo lui soltanto il lavoro fa realizzare la personalità degli uomini. Già nel romanzo precedente “Tra donne sole” Pavese aveva messo al centro del romanzo Clelia, una donna che si era fatta da sé con il lavoro. Ne “LA LUNA E I FALÒ” Pavese non sceglie più una donna come protagonista ma un uomo, che identifica in sé stesso, che con il suo lavoro si realizza come afferma il protagonista, parlando di sé stesso: “Far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare così, arricchito, grand’e grosso, libero.” (capitolo VIII – pag. 43). Infatti il protagonista Anguilla dopo essere emigrato in Usa, grazie al suo coraggio, riscatta la sua condizione di disagiato e di povero, diventa un uomo grande e grosso e libero. Pavese difende i personaggi di Clelia e di Anguilla e quindi ribadisce l’importanza del lavoro nelle due lettere che scrisse al suo professore Augusto Monti il 18 gennaio e il 28 gennaio del 1950 e in quella che scrisse al critico Del Sasso. Nella prima lettera del 18 gennaio Pavese scrive: “Lo stesso si dica per le Donne: qui non sono più ragazzi, qui non si canta la scoperta, qui una dura esperienza di persona che lavora, che si è fatta da sé, che basta a sé viene a contatto con che?” Nella seconda lettera il poeta chiarisce: “La garanzia e la speranza della mia futura grandezza (stiamo seri) è una sola: fare bene il lavoro che ci tocca…chi fa bene il suo lavoro ha la coscienza a posto; chi no, no…Il mondo è quello che è e chi non si salva da sé non lo salva nessuno.” La stessa difesa dell’idea del lavoro Pavese la fa nella lettera scritta a Del Sasso giorno 1 marzo del 1950 in cui scrive: “Così per Clelia delle donne: essa è una borghese sdegnata e inquieta che crede in un solo valore, il lavoro, e naturalmente, come borghese non può crederci in modo socialista, cioè liberato ma sempre con una punta di amarezza, di stoicismo”. (tutti i tre lacerti di queste lettere sono tratti dall’opera Il Vizio assurdo di Davide Lajolo – Daniela Piazza Editore – pag. 248 – 249 – 250). Il lavoro diventa l’unica possibilità per il protagonista Anguilla di liberarsi dalla sua condizione originaria (di bastardo e di servitore) e grazie al lavoro diventa imprenditore e padrone di sé stesso e quindi diventa un uomo libero, economicamente e culturalmente, dagli altri. Ma non per questo perde la capacità di amare gli uomini più poveri, deboli e sfortunati nella vita così come lo era stato lui prima di diventare un emigrato negli USA. Quindi il lavoro fa diventare liberi e sicuri di sé stessi: all’autonomia economica corrisponde anche una autonomia di pensiero, di cultura e una posizione di libertà.
Modica, rivisto e riordinato il 06 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba

Modica, 12 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba
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