TRAMA DEL BREVE E BEL ROMANZO
“DICERIA DELL’UNTORE” DI G. BUFALINO.
Capitolo I. Le prime settimane di ricovero alla Rocca.
In questo capitolo, il protagonista, ovvero Bufalino, racconta e descrive le sensazioni, i sentimenti e le riflessioni che faceva durante le prime settimane di ricovero, alla Rocca, un sanatorio presso Palermo nell’estate del 1946. Sapeva che era malato, ma non si rassegnava alla malattia. Benché consapevole e rassegnato nel suo stato di malato e cosciente della fine certa che lo attendeva, il protagonista rifletteva con sé stesso e si diceva: “Non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire (pag. 9)”. Non si arrendeva alla malattia e nutriva speranze di guarigione e pensava: “Spiavo di soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alzavo le braccia solo per finta (pag. 9)”. Se ne stava rinchiuso nella sua stanza 7bis e così avrebbe evitato “Di colluttare, oltre che con la mia, con la dannazione e salvezza degli altri tutti: del dottore, del frate, della ragazza! (pag. 10)”.
Capitolo II. Mariano Grifeo Cardona di Canicarao, il Gran Magro.
Il Gran Magro era il soprannome del primario del reparto dei malati di tubercolosi. Il protagonista diventò, ben presto, amico del gran Magro. “Spesso, dopo cena, quando fummo diventati amici, me lo vedevo apparire al capezzale, senza camice, in piedi, chiuse sul pomo del bastone due mani di perfida esiguità (pag. 12)”. Il gran Magro volle fare amicizia con il protagonista perché era l’unico che sapeva giocare a scacchi. E insieme giocarono qualche partita a scacchi: “È un matto da manuale, spiegavo al mio compagno, rassegnatamente (pag. 13)”. Il Gran Mago parlava spesso di Dio: “Esiste, gridava, esiste: non c’è colpa senza colpevole! (pag. 13)”. E continuava dicendo: “No, ragadi siamo, ragadi sopra il grugnoculo di Dio, caccole di una talpa enorme quanto tutto, carni crescenti, pustole, scrofole, malignerie che finiscono in oma, glaucomi, fibromi, blastomi… (pag. 15)”. Poi il Gran Magro abbandonava di gran fretta il protagonista e se ne andava lasciandolo solo. La sera, alla Rocca, si spegnevano le luci e rimaneva al buio. Il protagonista pensava tra sé: “Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita (pag. 16)”.
Capitolo III. I suoi compagni di malattia.
Dopo alcune settimane di solitudine, il protagonista scese “fra la gente, in fretta, perché ero troppo vigliacco per morire a rate (pag. 22)”. Conobbe e fece amicizia con alcuni malati dell’ospedale tra cui: Angelo Sciumè, il colonnello Pasquale Iozzia, Giovanni Pizzorno, Adelmo Scalia, Sebastiano Mancuso, Luigi De Felice, Luigi Prestifilippo, il Gran Magro e Marta Levi. “Luigi, il pensieroso, coniava una freddura che mi commuove: Rosso di sera, bel tempo si spera (pag. 18)”. “Luigi l’Allegro, diceva: arrivano i nostri, ride imitando con le labbra i tatatà della mitraglia e addio, poveri cocchi (pag. 18)”. “Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo tra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama (pag. 19)”. Il primo a morire fu Giovanni Pizzorno, perito agrario di Cefalù, “Ignaro che qualcuno nel suo arcano regime l’aveva privilegiato su tutti, e che sarebbe stato il primo a morire (pag. 20)”. Con questi compagni di prigionia, “cascami della storia, uno sfrido umano (pag. 21)”, il protagonista condivise ogni giorno i dolori e le gioie di ognuno di loro “e dal loro consorzio non volli più disertare (pag. 22)”.
Capitolo IV. Le escursioni a Palermo.
Qualche volta i malati, dopo che uscivano puliti dalla cura, se ne andavano in città, per ricrearsi un po’. Anche il protagonista se ne andava al porto di Palermo per incontrare qualche donna del luogo e distrarsi e sfogarsi un po’ della vita monotona e grigia dell’ospedale. “Oppure si finiva nel quartiere del porto, a cercarsene una qualunque, ma di carne vera. Bisognava pure ogni tanto, era anche il consiglio del Gran Magro (pag. 26)”.
Qualche volta il protagonista andava da solo a trovare qualche donna nelle strade del porto, pagando qualche cosa in più per avere un extra. Al suo ritorno alla Rocca raccontava tutto ai suoi amici: “Era bellissima, ha gridato, non fingeva, vi dico; che donna; andateci amici… (pag. 27)”.
Capitolo V. Padre Vittorio.
Il protagonista conosce anche un prete, Padre Vittorio, cappellano militare, che proveniva dal Veneto, dalle parti di Trento, forse perché voleva vivere una missione “per la quale gli pareva ci volesse uno scenario di crete e ulivi, una Giudea tutta triboli, come certe chiuse di qui, che uno scisma di venti minuziosamente dilania (pagg. 29 – 30)”. Molte volte entrambi discutevano su Dio e sulla Rivelazione (pag. 30). Padre Vittorio voleva convincere il protagonista ad avere fede in Dio, invece il protagonista gli faceva, sempre, delle obiezioni sulle letture del Vangelo: “Fu un duello di ciechi, m’accorgo ora. Di spadaccini ciechi che si inseguono e si cercano impunemente, con fendenti all’impazzata, sulle tavole di un palcoscenico (pag. 30)”. Il protagonista scoprì, dopo la morte di Padre Vittorio, un diario di lui dove lesse molte frasi e meditazioni del prete, come queste: “La morte è un taglialegna, ma la foresta è immortale (pag. 32). La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente (pag. 34)”.
Capitolo VI. Il primo incontro con Marta Blundo.
Il Gran Magro, oltre ad essere il dottore del reparto, era anche il regista e il direttore del teatro dell’ospedale, per il quale egli trovava gli attori e sceglieva i testi teatrali e, anche, i racconti da recitare sul palcoscenico. Il protagonista, spinto dal suo carattere di volpino e di cialtrone (pag. 36), una sera, poiché voleva conoscere qualche donna, scese nel teatro dell’ospedale e vide che sul palcoscenico si stava esibendo una giovane donna in un ballo accompagnato da una musica. La giovane donna mostrava fatica a saltare, a piroettare e a girare accompagnandosi con la musica, ma il Gran Magro la incitava a continuare a ballare fino allo stremo. Alla fine dello spettacolo tutti applaudirono la ballerina e il protagonista, preso da una forte passione verso di lei, andò a trovarla, subito, nel suo stanzino, dove si stava cambiando l’abito di scena, una divisa multicolori (pag. 40). Il protagonista allora le disse: “Marta, devi uscire con me. Le intimai. Ti resta poco tempo, ci resta poco tempo. E abbiamo 20 anni (pag. 40)”. Poco dopo arrivò, di gran fretta, il Gran Magro, il quale allontanò il protagonista dalla ballerina e gli disse: “Quella, strichten verboten! (Quella non si tocca!). E non fiatarmi addosso, Almaviva tossicoloso (pagg. 40 – 41)”.
Capitolo VII. L’amore per Marta.
In questo capitolo, il protagonista racconta e spiega com’era nato il suo amore per Marta. Il protagonista pensava che: “Poiché, insomma, non s’accomodava con l’economia del mio tempo il prolungarsi di uno stato d’estasi e vitanuova, quando a me, al contrario, serviva solo un corpo da consumare subito, prima che il nostro vagone piombato si fermasse al deposito della stazione d’arrivo (pag. 42)”. Allora chiese ad Adelina, la giovane malata che stava con Luigi l’Allegro, notizie su Marta. E Adelina gli disse che Marta era di Sondalo e che prima aveva ballato alla Scala. “Del resto se ne dicono tante. Dicono di un capitano Esse Esse, di una villa su un lago. E cose peggiori. Certo i capelli le sono ricresciuti da poco sul capo rasato (pag. 43)”. Da allora in poi l’amore per Marta, nel protagonista, invece di scemare, aumentò sempre di più. Un giorno ebbe l’occasione di sottrarre due lastre delle radiografie di Marta e allora il protagonista si rese conto del danno irreversibile ai suoi polmoni. Mentre stava guardando le lastre, arrivò, all’improvviso, padre Vittorio, con il quale ebbe la solita discussione su Dio e sulla Fede. Alle richieste di padre Vittorio, il protagonista rispondeva con altre obiezioni: “Ci scambiavamo queste battute senza collera, ormai, ma anzi con un affetto nella voce, da avversari che sanno, ciascuno per la sua parte, d’essere nel giusto soltanto a metà (pag. 47)”.
Il prete confessò al protagonista che la consunzione che si portava nella carne lo rendeva infelice. (Pag. 48). Allora il protagonista per tranquillizzarlo gli disse: “Ve n’andrete con Lui, ve ne sono garante, coi sandali leggeri sull’acqua (pag. 48)”.
Capitolo VIII. Il ritorno al suo paese.
Padre Vittorio morì pochi giorni dopo. Intanto luglio avanzava e anche l’estate si faceva più calda. L’amore per Marta aumentava sempre di più, tanto che le lastre di lei divennero per il protagonista “Una sorta di inaudito feticcio amoroso (pag. 51)”. Il protagonista allora decise, per dimenticarla, di ritornare al suo paese. Qui incontrò i suoi genitori, ormai invecchiati, e ritrovò la sua stanza rimasta intatta e uguale al momento della sua partenza. Ritrovò anche i vecchi amici, ma subito dopo si rese conto che la sua vita era dentro il ricovero della Rocca, perché pensò: “Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande (pag. 54)”. Siccome, dunque, non gli riusciva vivere con gli altri, decise di ritornare alla Rocca. Pensò “Basta, basta, dissi ad alta voce. Devo ritornare alla Rocca, il mio posto non è qui (pag. 55)”.
Capitolo IX. Il primo pomeriggio con Marta a Palermo.
Dopo il rientro alla Rocca, il protagonista scrisse una lettera a Marta e gliela mandò con il fanciullo Adelmo, il quale gli riportò, subito dopo, la risposta di Marta, scritta sulla stessa lettera, che gli diceva: “Domenica scendo in città, col primo tram del pomeriggio (pag. 58)”. Si incontrarono la domenica successiva, trascorsero il pomeriggio in città e girarono per le strade. Marta gli parlò di sé e della sua vita prima di finire all’ospedale. Tra un attacco di tosse e l’altro Marta gli disse: “A me è sempre piaciuto contraffarmi e mentire, mi informò con lealtà (pag. 61)”. La sera andarono in un quartiere abbandonato di Palermo per scambiarsi qualche effusione amorosa, ma furono scoperti da una torma di miserabili, che li guardava insistentemente. Così dovettero scappare in altre strade. A sera tardi rientrarono alla Rocca. Marta gli disse che lei non credeva di essere malata dicendogli: “Io non ci credo sempre, specialmente la sera, prima di addormentarmi, quando faccio pace col mondo e lo saluto: buona notte, vestiti, seggiole, macchie sul muro; buona notte, tutte le cose (pag. 64)”.
Capitolo X. L’incontro e lo scontro con Sebastiano.
Il protagonista e i suoi amici avevano capito che Sebastiano era un malato depresso. Un giorno, il protagonista prese Sebastiano sotto braccio e lo portò in un angolo del sanatorio dove c’era un po’ d’ombra. Sebastiano, guardando il mare all’orizzonte, gli disse che lì, quand’era giovane, si faceva i bagni e aveva i polmoni di un palombaro. Gli disse anche che lui stava, ormai, in ospedale da 4 anni e che non aveva mai toccato una donna in vita sua. Il protagonista cercò di incoraggiarlo e di rassicurarlo, ma poi la discussione degenerò in lite e in una piccola colluttazione tra di loro. Subito dopo si rappacificarono ed entrarono “nel padiglione-teatro” (pag. 73). Videro che c’era un giaciglio sgualcito da una pressura recente di membra. Inoltre osservarono che il giaciglio era pieno di mucillagini e capelli, come un letto di nozze abbandonato all’alba. E Sebastiano gli disse: “Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa (pag. 74)”. Il protagonista non capì: “cosa volesse dire, ma gli misi lo stesso una mano sulla spalla e pietosamente gli dissi: Ti passerà (pag. 74)”.
Capitolo XI. La seconda domenica con Marta, in città.
Il protagonista si incontrò nuovamente con Marta la domenica successiva, il 18 agosto. Trascorsero la giornata parlando e girovagando, finendo sul molo del porto. Questa volta fu il protagonista a raccontare la sua fanciullezza. La sera, al porto, Marta si sedette su una “bitta del molo” (pag. 82). Essi videro una camionetta di finanzieri che trasportava un contrabbandiere e Marta commentò con queste parole: “Hanno preso un contrabbandiere. Commentò lei. E noi che viviamo di frodo, e trasportiamo una morte di frodo, nessuno ci perquisisce (pag. 83)”.
Capitolo XII. La fucilazione dell’Ufficiale tedesco delle S.S.
La sera stessa andarono in una stanza ad ore, dove fecero l’amore: “Il piacere solo mio, non di entrambi, mi parve (pag. 84)” e, intanto, ascoltavano una canzone alla radio. Marta raccontò allora al protagonista la sua infanzia. Da bambina abitava con un suo parente in un casello per treni. Poi, durante la guerra, collaborò con un Ufficiale delle S.S.. Infine furono scoperti dai partigiani che un giorno scoprirono il loro sotterraneo e così fecero prigioniero l’Ufficiale tedesco e subito dopo lo fucilarono sul posto stesso. Lei seguì con gli occhi il suo amante tedesco fino al momento della fucilazione e della morte. Poi lei fuggi in città, ma prima le tagliarono i capelli, come collaborazionista dei tedeschi. In città lei si nascose in diverse pensioni; poi ebbe paura perché i partigiani volevano riprenderla di nuovo, ma essa si rese irreperibile. Poco dopo si ammalò anche lei: “Infine sputai sangue, e l’epilogo si scrisse da sé. (pag. 91)”.
Capitolo XIII. Il protagonista sente di guarire.
“Accadde a questo punto, non ne seppi mai il motivo, che lei si rifiutò di continuare a vedermi (pag. 93)”. Morì il giovane Adelmo e così il protagonista non ebbe più la possibilità di comunicare con Marta. Inoltre il protagonista si rese conto che stava guarendo: “Se n’era andata senza preavviso la febbre, quel tepore, oltraggio e memento di ogni minuto, e mi sentivo stranamente rifiorire, benché il Gran Magro, ogni volta che mi batteva con le nocche sul torace, si calasse sul volto una celata di nume (pag. 94)”. Un giorno trovò sul tavolo un messaggio, sotto forma di poesia, (pag. 95) dove c’era scritto che doveva lasciare in pace Marta. Il protagonista capì dalla calligrafia che il mittente era il Gran Magro. Il protagonista, allora, preso da molta rabbia, andò nella camera del dottore. Lo trovò in uno stato di trascuratezza e di abbandono, ma con un atteggiamento affettuoso e benevolo verso il protagonista che si calmò e ascoltò con attenzione le parole del dottore: “Una cirrosi, disse. Morirò prima di te (pag. 99)”. Il Gran Magro gli disse che lui stava per morire mentre egli si sarebbe salvato. Poi il Gran Magro lo spinse fuori dalla camera e gli disse: “E ora basta, vattene via. Se no c’è questo: argumentum baculinum (pag. 101)”.
Capitolo XIV. Il piano di fuga dall’ospedale per rivedere Marta.
Il protagonista parla con i suoi amici perché voleva rivedere Marta. Il colonnello gli consigliò di andare a trovarla nel reparto femminile dell’ospedale. Il protagonista seguì questo piano di attuazione e andò a trovarla nella sua stanza. Marta lo fece accomodare vicino al suo letto e lo invitò a fuggire con lei e gli disse: “Poiché tutto per noi era perduto, tanto valeva andarsene in giro, fuori città, a ripassarsi con gli occhi un’ultima volta cielo, terra e mare (pag. 104)”. Il protagonista acconsentì alla sua proposta e scrisse: “un SI radioso, puerile e gigantesco (pag. 105)”. Insieme stabilirono la giornata della fuga dall’ospedale. Fuggirono insieme con una macchina, il cabriolet (pag. 105), preso a noleggio. Salirono verso le montagne, dove incontrarono una fila di contadini che volevano occupare le terre del barone Basilio Trigona (pag. 106). Girovagarono per tutta la giornata. Al tramonto arrivarono in un paese dove presero alloggio in un alberghetto, la cui finestra dava sul mare. Si stesero sul letto, facendo numerosi discorsi, e alla fine lei concluse: “Amen anche per questo, Marta, amore mio. E da domani, poi, giù buona a cuccia, a morire. E non trattenne più i fragili meccanismi del pianto (pag. 110)”.
Capitolo XV. La festa del paese.
Il mattino seguente, dopo l’amore (pag. 111), il protagonista uscì da solo per visitare il paese. Si accorse che il paese era pieno di lampioncini e di tralicci di giochi d’artificio per la festa del Santo Patrono. Il protagonista stava assistendo all’uscita del Simulacro dalla chiesa, quando fu raggiunto da Marta che gli disse: “Non devi lasciarmi sola mai più! (pag. 113)”. Marta gli disse che i siciliani non gli piacevano, ma il protagonista non se la prese a male perché ormai si sentiva guarito, mentre vedeva che Marta stava sempre peggio. La sera andarono a vedere uno spettacolo di pupi siciliani: era la storia di la Morti di Acamennoni re. (pag. 115). Dopo lo spettacolo i due presero la macchina e discesero verso il mare. “Noi scendevamo adagio, a fari spenti, verso il mare, finché la festa fu solamente dietro di noi una rissa remota di frettolosi splendori. (Pag. 117)”.
Capitolo XVI. La morte di Marta e la guarigione del protagonista.
“Questo fu l’ultimo sorso di luce per Marta (pag. 118)”. Durante il viaggio, Marta cominciò a tossire sempre di più. Finalmente arrivarono in un albergo della spiaggia, dove alloggiarono. Ordinarono la cena, ma Marta non toccò nulla salvo un pezzetto di pesca (pag. 120). Ma ormai la tosse non finiva più e Marta stava sempre peggio fino a quando lei si sentì salire sulle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte: “Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo (pag. 120)”. Marta “Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa (pag. 120)”. Il protagonista allora, prima ripeté una serie di domande luttuose su Marta. Poi pianse e, infine, telefonò all’ospedale. Il Gran Magro, subito dopo, gli mandò una vettura per riportarli tutti e due alla Rocca. Arrivarono di sera tardi ma il protagonista riconobbe subito l’ospedale dal suo odore: di formalina e di soave putrefazione (123). Poi vi furono i funerali di Marta e il bruciamento delle sue cose lasciate, tra cui alcune fotografie con l’ufficiale tedesco. Il protagonista se ne andò a dormire e sentì la pioggia e si disse: “È piovuto, ecco dunque l’autunno. Bisogna che parta, mi dissi, troppo tempo ho perduto tra i morti, simulandomi morto, scordandomi dell’ironia (pag. 124)”. Si affacciò dalla finestra, si bagnò i capelli e pensò: “Il ricordo presto si sarebbe consumato, una vacanza era stata, una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire (pag. 125)”.
Capitolo XVII. La morte del Gran Magro e la partenza del protagonista dall’ospedale.
Nelle settimane successive, dopo la morte di Marta, morirono anche tutti gli altri suoi amici. “Del resto le loro morti si susseguirono svelte, fu un repulisti, una svendita. Si uccise Sebastiano un mattino, nell’ora, in cui le inservienti passano fra branda e branda con un secchio e uno straccio bagnato, e si lasciano dietro le spalle un sentore amaro di segatura. Morì il colonnello, due giorni dopo, per un insulto che chiamarono pneuma spontaneo. Morì, dopo il Pensieroso, l’Allegro, come non sopportasse di essere scompagnato. Morì il Gran Magro, infine, il nobiluomo Mariano Grifeo Cardona di Canicarao (pag. 127)”. Una mattina, suor Crocifissa chiamò il protagonista e gli disse che il Gran Magro stava male e voleva vederlo. Il protagonista andò subito da lui, lo trovò moribondo, lo osservò e vide che: “Come lavorava presto, con che abili dita, la malabestia dentro di lui, come aveva fretta di finire (pag. 128)”. Il Gran Magro prima di emettere l’ultimo rantolo disse al protagonista di prendere il fascicolo di Marta e un quaderno di poesie. Il protagonista lesse qualche poesia ma si fermò subito perché vi trovò foto e endecasillabi osceni (pag. 128). Il Gran Magro ebbe un ultimo sussulto e rantolo e disse al protagonista: “Mandali a mia moglie, coglione mi disse (pag. 129)”. Il Gran Magro morì subito dopo e provò di fare: “un sorriso, che s’interruppe a metà, mentre una minuscola goccia d’umore dall’angolo della bocca gli sfuggiva sul collo con rivoltante lentezza, e il supremo gong della morte gli risuonava nel petto (pag. 129)”. Qualche settimana dopo il protagonista, una mattina di novembre, ormai guarito, lasciò l’ospedale, salutò il vecchio Carabillò (pag. 131). Aspettò il convoglio che lo portava in città. Salì sul predellino e si voltò ancora una volta indietro: “a volgermi un istante, prima che il veicolo ripartisse, per guardare un’ultima volta, fra pini, palme e cipressi, la Rocca (pag. 133)”. Il protagonista fece, allora, una serie di riflessioni fra sé e conclude il romanzo con l’ultima riflessione: “Benché sapessi già allora che avrei preferito di starmene zitto e portarmi lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva, con cui pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte (pag. 133)”. Con queste ultime riflessioni finisce, così, la disavventura del protagonista nel sanatorio della Rocca. Il protagonista lascia la Rocca, una mattina di novembre del 1946, rientra nel suo paese per vivere la sua vita comune e anonima: “M’aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell’individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d’alito e di anni (pag. 133)”.
FINE DEL ROMANZO.
Modica 22/ 10/ 2018 Prof. Biagio Carrubba
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