TESTO E PARAFRASI DEL POEMETTO POETICO “LE CENERI DI GRAMSCI” DI P. P. PASOLINI.

Share Button

Le ceneri di Gramsci (Testo del poemetto).

                                            I

Non è di maggio questa impura aria

che il buio giardino straniero

fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite … questo cielo

di bave sopra gli attici giallini

che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini

monti del Lazio… Spande una mortale

pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale

maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;

la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo

e ingenuo sforzo di rifare la vita;

il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore

era ancora vita, in quel maggio italiano

che alla vita aggiungeva almeno ardore;

Tu Gramsci, meno sventato e più sano

dei nostri padri – non padre. Ma umile

fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina

(ma non per noi: tu, morto, e noi

morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,

lo vedi? che riposare in questo sito

estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,

solo ti giunge qualche colpo d’incudine

dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi

mucchi di latta, ferrivecchi, dove

cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

                                    II

Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.

Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno

ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno

che tuttavia la vita resta nella morte.

Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte

di gente laica le laiche iscrizioni

in queste grigie pietre, corte

e impotenti. Ancora di passioni

sfrenate senza scandalo son arse

le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,

le ironie dei principi, dei pederasti,

i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.

Qui il silenzio della morte è fede

di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio

del Parco, discreto muta: e la città

che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,

vi perde il suo splendore. La sua terra

grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera

umidità che chiazza i muri intorno

a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni

sentori d’alga…. quest’erbetta stenta

e inodore, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,

o fieno marcio, e quieta vi prelude

con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude

di clima, dolcissimo di storia, è

tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che

ricorda altro umido, e risuonano

  • familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano

laghi spersi nel cielo, tra praterie

verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And I ye Fountains…” – le pie

invocazioni….

                         III

Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso, l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci…Tra speranza

e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato

per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato

quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa

di diverso, forse, d più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi

d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto

  • qui nella quiete delle tombe – e insieme

quale ragione – nell’inquieta sorte

nostra – tu avessi stilando le supreme

pagine nei giorni del tuo assassinio.

Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,

questi morti attaccati a un possesso

che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,

quel vibrare d’incudini, in sordina,

soffocato e accorante – dal dimesso

rione – ad attestarne la fine.

Ed ecco qui me stesso…povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito

la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade

ho di queste vacanze, nel tormento

del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento

e ingenuo amore sensuale

così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso mi feriva il male

borghese di me borghese: e ora, scisso

  • con te – il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico

disprezzo, la parte che ne ha il potere?

Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere

del tramontato dopoguerra: amando

il mondo che odio – nella sua miseria

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo

della coscienza.

                              IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere

Con te e contro te; con te nel cuore,

in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore

  • nel pensiero, in un’ombra di azione –

mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione,

attratto da una vita proletaria

a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebbrezza della nostalgia,

una luce poetica; ed altro più

io non so dirne, che non sia

giusto ma non sincero, astratto

amore, non accorante simpatia…

come i poveri povero, mi attacco

come loro a umilianti speranze,

come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante

mia condizione di diseredato,

io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato

più assoluto. Ma come io possiedo la storia,

essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

                                 V

Non dico l’individuale, il fenomeno

dell’ardore sensuale e sentimentale….

altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare.

Ma in esso impastati quali comuni,

prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni

gli interni e esterni atti, che lo fanno

incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nelle vite stanno,

ipoteca di morte, istituite

a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite

le sue spoglie al Verano, è cattolica

la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;

e ancor più dentro: ha bibliche astuzie

la sua coscienza…e ironico ardore

liberale…. E rozza luce, tra i disgusti

di dandy provinciale, di provinciale

salute… Fino alle infinite minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,

Autorità e Anarchia…ben protetto

dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,

e con quale coscienza! vive l’io; io,

vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio

accorante, violento,….ah come

capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,

tra i cipressi stancamente sconvolti,

presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley ….Come capisco il vortice

dei sentimenti, il capriccio (greco

nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco

celeste del Tirreno; la carnale

gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia

come dentro il ventre di un’enorme

cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme

di pini, barocchi, di giallognole

radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno

goethiano, il giovincello ciociaro….

Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erba saetta in cui si stampa chiaro

il nocciolo, pei viottoli che il buttero

della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte

curve della Versilia, che sul mare

aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale

campagna interamente umana,

espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,

i blu vitrei sul rosa…Di scogli,

frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella riviera, molle,

erta, dove il sole lotta con la brezza

a dar suprema soavità agli olii

del mare…. E intorno ronza di lietezza

lo sterminato strumento a percussione

del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come

morta nella sua vita: gridano caldi

da centinaia di porti il nome

 del compagno i giovinetti madidi

nel bruno della faccia, tra la gente

rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,

d’abbandonare questa disperata

passione di essere nel mondo?

                          VI

Me ne vado, ti lascio nella sera

che, benché triste, così dolce scende

per noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si rapprende.

E lo sommuove. Lo fa diventare, vuoto,

intorno, e, più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del roco

rotolio dei tram, dei gridi umani,

dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontani

esseri che, in vita, gridano, ridono,

in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l’infido

ed espansivo dono dell’esistenza –

quella vita non è che un brivido,

corporea, collettiva presenza;

senti il mancare di ogni religione

vera; non vita, ma sopravvivenza

– forse più lieta della vita – come

d’un popolo di animali, nel cui arcano

orgasmo con ci sia altra passione

che per l’operare quotidiano:

umile fervore cui dà un senso di festa

l’umile corruzione. Quanto più è vano

– in questo vuoto della storia, in questa

ronzante pausa in cui la vita tace –

ogni ideale, meglio è manifesta

la stupenda, adusta sensualità

quasi alessandrina, che tutto minia

e impuramente accende, quando qua

nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina

il mondo, nella penombra, rientrando

in vuote piazze, in scorate officine…

già si accendono i lumi, costellando

Via Zagaglia, Via Franklin, l’intero

Testaccio, disadorno tra il suo grande

lurido monte, i lungoteveri, il nero

fondale, oltre il fiume, che Monteverde

ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

Diademi di lumi che si perdono,

smaglianti, e freddi di tristezza

quasi marina…Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,

con grappoli d’operai agli sportelli,

e gruppi di militari vanno, senza fretta,

verso il monte che cela in mezzo a sterri

fradici e mucchi secchi d’immondizia

nell’ombra, rintanate zoccolette

che aspettano irose sopra la sporcizia

afrodisiaca: e, non lontano, tra le casette

abusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi

leggeri come stracci giocano alla brezza

non più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanesca

loro sera di maggio scuri adolescenti

fischiano pei marciapiedi, nella festa

vespertina; e scrosciano le saracinesche

dei garages di schianto, gioiosamente,

se il buio ha resa serena la sera,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio

il vento che cade in tremiti di bufera,

è ben dolce, benché radendo i capellacci

e i tufi del macello, vi si imbeva

di sangue marcio, e per ogni dove

agiti rifiuti e odore di miseria.

È un brusio la vita, e questi persi

In essa la perdono serenamente,

se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente

in essi, inermi, per essi, il mito

rinasce…. Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,

potrò mai più con pura passione operare,

se so che la nostra storia è finita?

2

Parafrasi del poemetto Le ceneri di Gramsci.

Questa aria fosca non è di una giornata di maggio,

ma è un’aria autunnale che rende il cimitero inglese

ancora più buio, o lo abbaglia

con improvvisi fulmini…questo cielo

di nuvole basse con cerchi di grandi dimensioni

vela gli attici gialli e le anse del Tevere e

i monti color turchino del Lazio….

Questo maggio autunnale sparge una mortale noia,

triste come sono i nostri destini,

tra le vecchie mura della città.

In questo maggio si trova il tedio del mondo,

e tra le macerie si trova la fine

del decennio nel quale noi avevamo riposto

le speranze e lo sforzo di rifare la vita;

si trova il silenzio, bagnato e infecondo….

Tu, giovane Gramsci, nel tuo maggio

credevi di rinnovare l’Italia forse eri in errore,

ma almeno aggiungevi forza e passione;

tu eri meno sventato e più sano dei nostri padri

– ma tu non eri nostro padre –

eri semplicemente un nostro umile fratello

che progettavi il nostro ideale per illuminare

il nostro presente (ma non sarà per noi,

morti come te nel cimitero).

Non puoi più guidarci. Lo vedi

sei sepolto in questo cimitero

come fossi ancora confinato

tra gente straniera.

Una noia estranea ti circonda.

E solo qualche colpo di incudine basso

ti giunge dalle officine del Testaccio

che è in dormiveglia nel pomeriggio:

dove un giovane vizioso tra miseri tetti

tra nudi mucchi di latta e ferrivecchi

chiude la sua giornata, mentre intanto finisce di piovere.

                                                                II

Tra questi due mondi (i vivi e i morti)

noi non viviamo nella tregua.

Dobbiamo fare scelte, mentre i morti

di questo cimitero non sentono altri suoni

che attutiscono la vita che resta nella morte.

Le laiche iscrizioni della gente laica

delle tombe non fanno che mostrare

la sorte di ciò che è rimasto di queste tombe

fatte di grigie pietre, maestose e piccole.

Le ossa di questi ricchi inglesi mandano

l’olezzo di passioni sfrenate che non

fanno più scandalo.

Le parole di questi nobili aleggiano

in queste tombe i cui corpi sono

ormai inceneriti dentro le urne.

Qui il silenzio fa fede di uomini

rimasti uomini e fa fede di una noia

che cambia nel silenzio del cimitero.

E la città che confina il cimitero

in mezzo a tuguri e a chiesette

dà la sua terra grassa al cimitero

dove crescono questi magri cipressi,

dà questa nera umidità che macchia

i muri intorno vicino smorti ghirigori di bossi

che la sera rende bui in mezzo

al profumo di alghe…. fa crescere

questa erbetta secca e senza odore

e dove il cielo si sprofonda portando un odore

di menta e di fieno marcio, e l’attesa della

notte si sente con la malinconia del giorno.

Il suolo trasuda umidità e risuonano

pie invocazioni come se provenissero

da selve inglesi e da praterie verdi.

                                                                 III

Sopra la tua tomba c’è uno straccetto rosso,

uguale a quello che i partigiani stringevano al collo,

e sopra il terreno grigio, ci sono due gerani

rossi di due tonalità diverse.

Tu, Gramsci, stai sepolto messo al bando

e fai parte dei sepolti inglesi.

Si legge: Le ceneri di Gramsci.

Io tra speranza e sfiducia, ti vengo vicino,

capitato per caso e mi fermo dinnanzi

alla tua tomba, davanti al tuo spirito

rimasto quaggiù libero tra questi liberi.

(Oh il mio spirito è diverso dal tuo,

forse, più giovanile e più infervorato.

ma anche più semplice;

giovane sintesi di sesso e di morte).

E dall’Italia dove la tua vita non ebbe pace

capisco quale torto – qui in questa quiete –

e quale ragione – nell’inquieta sorte nostra –

avevi quando scrivevi le tue pagine ultime

durante la tua lunga prigionia.

E questi morti mostrano ancora il seme

del loro antico dominio e mostrano

il loro antico abominio e la loro grandezza:

e insieme a te io sento il suono dell’incudine

che arriva in sordina soffocato e accorante

che attesta la sua fine.

Ed ecco qui me stesso povero

vestito con abiti

che i poveri comprano in negozi rozzi.

Ed ho perso la polvere delle strade e dei sedili dei tram,

dai quali la mia vita si abbruttisce sempre di più

mentre faccio fatica a mantenermi e ho sempre meno vacanze;

e se mi accade di amare il mondo

non è che per il mio ingenuo e sensuale amore,

così come da fanciullo lo odiai

quando il male borghese feriva

me borghese: e ora che ho scisso

il mondo, esso non mi appare più

oggetto di rancore né di mistico disprezzo

e non odio la parte che ne ha il potere?

Eppure vivo anche senza il tuo rigore

Perché non scelgo tra le due parti.

Dopo il dopoguerra vivo perché non scelgo:

amo ciò che odio – il proletariato delle borgate,

sprezzante e perso, 

perché mi porto appresso

uno scandalo nella coscienza.

                                                                IV

Lo scandalo del contraddirmi:

di seguire te con la mente e nel cuore

di essere contro te nell’istinto e nell’inconscio;

mi sento traditore della borghesia

  • nel pensiero e non nella pratica –

sono attaccato ad essa nel calore

dei miei istinti e per una passione di bellezza;

mentre sono vicino alla vita proletaria

già nata prima di te; la sua vitalità è

per me la mia religione; non è la sua millenaria

lotta a me vicino, ma la sua natura di popolo;

la sua coscienza non è la mia religione

ma lo è la sua forza originaria, che si è persa nella storia,

a darle il fervore della nostalgia

e la sua poetica; e di essa non so dirne altro

perché se dicessi altro sarei giusto

ma non sincero, sarebbe un lodare astratto,

ma non sarebbe sincera simpatia.

Io povero, come i poveri, mi affeziono

alle mie umilianti speranze; mi batto

come loro, ogni giorno per vivere.

Ma nella mia desolante condizione

di diseredato io possiedo la cultura borghese

che è il bene più prezioso dei beni borghesi.

Ma come io capisco la storia

essa mi possiede; ne sono assorbito.

E allora a che serve capire e sapere?

                                                           V

Non parlo di me come uomo illuminato

invece parlo del mio lato sensuale e sentimentale

perché egli (Pasolini) ha altri vizi

Il suo peccato ha un nome ben preciso (omosessualità)

egli ha vizi prenatali e comuni

impastati con altri

e ha uno specifico vizio! I suoi atti intimi ed esterni

che lo fanno attaccato alla vita non sono influenzabili

dalle religioni che spalancano alla morte

e che sono istituite per offuscare la verità

e per ingannare la luce.

(le illusioni delle religioni ingannano sulla vera realtà della morte)

Le sue spoglie sono destinate a essere

seppellite al Verano; 

insieme con le ossa, la sua lotta è cattolica:

le sue manie sono subdole, la sua coscienza ha astuzie sacre;

il suo ardore ironico è liberale

ha vizi da dandy e una salute provinciale

ha una coscienza di minuzie e nel suo fondo animale

l’autorità e l’anarchia sfumano.

È ben protetto da una virtù peccaminosa

e da un peccare effervescente,

difende la sua ingenuità di ossesso,

e con quale coscienza, egli vive il proprio io;

io (Pasolini) sfuggendo la vita vivo

con un senso di vita accorante e violenta.

Ah, io condivido molto bene nel muto brusio del vento

in questo cimitero, dove Roma è muta tra i cipressi

ripetutamente sconvolti dal vento, l’anima

nella cui lapide si legge Shelley, presso te Gramsci

Apprezzo e condivido il vortice

dei sentimenti e il capriccio del nobile inglese

che fu inghiottito nel mar Tirreno da una cieca tempesta.

Capisco la sua gioia e terrestre avventura,

bella e giovanile: mentre l’Italia piegata come dentro

il ventre di un’enorme cicala spalanca le sue bianche coste

sparse nel Lazio piene di foreste di pini

e di giallognole radure di ruchetta dove un giovane ciociaro

dorme con il membro gonfio tra i pantaloni un sogno goethiano

Anche nella maremma toscana piena di stupendi boschi

di erba saetta, in cui cresce chiaro il nocciolo, e il buttero

riempie i viottoli della sua gioventù inconsapevolmente.

Anche le coste fragranti e asciutte della Versilia che

incupita sul Cinquale, distesa sotto le aride Apuane

espone i marmi lucidi e le pietre colorate lievi

della sua festiva campagna pienamente popolata

ed espone i vetri blu del mare sul rosa delle rocce.

Anche gli scogli e le frane sconvolte

da un panico di fragranza nella riviera molle

ed erta dove il sole lotta con la brezza per rendere soave

la schiuma del mare.

E tutto intorno alla Versilia, uno sterminato

strumento a percussione di sesso e di luce,

gira con gioia attorno ad essa.

E l’Italia ne è talmente assuefatta che non ne ha paura

come rassegnata nella sua vita:

alcuni giovanetti scuri di faccia gridano da caldi

e molti porti il nome del compagno in mezzo

alla gente di mare da orti di ortaggi spinosi

e da luride spiaggette.

Tu Gramsci, spoglio e solitario, insisti ancora

nel chiedermi di lasciar perdere la mia vita (Vita omosessuale e pedofila)

nel mondo, piena di disperata passione?

                                                          VI

Me ne vado, ti lascio nella sera

la quale benché triste scende dolce

fra gli uomini e la sua luce grigia

fa vivo il quartiere in penombra,

e lo risveglia, lo fa più grande e più vuoto

e lo riaccende tutto intorno

di una vita smaniosa la quale fa

con il roco brusio dei tram con la

parlata in dialetto un concerto fioco e

assoluto. E tu, Gramsci, senti

come quegli uomini gridano, ridono

nei loro veicoli, nelle loro case

dove si consuma l’infedele ed

espansivo dono dell’esistenza-

e senti come la vita non è che un brivido,

senti che la vita è una corporea collettiva presenza;

senti che in essa non c’è una vera religione;

che non c’è una vera vita,

ma c’è solo sopravvivenza

  • forse più lieta della vita –

uguale a quella di un popolo di animali

che nel loro massimo piacere

non hanno altro che la passione

per il loro quotidiano operare:

umile piacere a cui dà un senso di festa

l’umile corruzione.

Quanto più è vano ogni ideale (politico – culturale)

  • in questo momento vuoto della storia
  • in questa ora del pomeriggio nella quale la vita tace

allora la stupenda e ardente sensualità del popolo

quasi raffinata, che tutto brucia e accende

tanto meglio si manifesta,

mentre nel mondo tutto crolla

e si trascina tutto nella penombra…

e il popolo rientra in vuote piazze e in vuote officine

Già le luci delle strade si accendono e illuminano

via Zagaglia, via Franklin, l’intero

Testaccio, spoglio tra il suo grande

squallido monte, il lungotevere, il nero

fondale, oltre il fiume, che Monteverde

fa sparire con il cielo.

Luci colorate che si perdono,

luci smaglianti e fredde come l’acqua

marina… Manca poco alla cena;

i rari autobus del quartiere risplendono

con grappoli di operai appesi agli sportelli,

e gruppi di militari che vanno, senza fretta,

verso il monte che nasconde in mezzo

alla terra fradicia e a mucchi di immondizia,

nell’ombra. prostitute rifugiate nelle tane

che aspettano adirate sopra la sporcizia

erotica; e, non lontano, ci stanno alcuni ragazzi

che giocano nella brezza primaverile, non più fredda

che giocano in mezzo a palazzi e tra casette abusive;

anche altri adolescenti bruni pieni di ardente

sventatezza giovanile fischiano nella sera romanesca

sopra i marciapiedi nella serata allegra;

si sentono le saracinesche di schianto

quando il buio rende la sera serena,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio

il vento soffia dolcemente con tremiti di bufera

e passando sopra i cocci

e i tufi del Macello, si riempie

di sangue marcio e passando per ogni dove

fa sentire l’odore dei rifiuti e della miseria.

La vita è un brusio. E questi giovani persi

nella vita, la perdono serenamente

se hanno il cuore gioioso:

eccoli, miseri a godersi la sera; e potentemente

in essi il mito della gioventù rinasce….

Ma io con la chiara coscienza

di chi sa che la sua vita è nella storia

come potrò vivere con la pura passione

se so che la nostra storia è finita?

A questa domanda apparentemente retorica la risposta secondo me è:

Non voglio vivere mai senza la mia passione erotica e particolare perché so che la nostra storia ideale, illuminata, utopica, socialistica, è finita e perché ho capito che non è più possibile realizzarla presto.

Modica, 29 aprile 2023                                        Prof. Biagio Carrubba

Modica, 02 maggio 2023

Share Button

Replica

Puoi usare questi tag HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>