PAGINE SCELTE DAI “QUADERNI DEL CARCERE” DI ANTONIO GRAMSCI.

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PAGINE SCELTE DAI “QUADERNI DEL CARCERE” DI ANTONIO GRAMSCI.

L’8 novembre 1926 è la ricorrenza dell’arresto di Antonio Gramsci, quando fu arrestato a Roma, nonostante avesse l’immunità parlamentare, arresto che rappresenta, ancora oggi, uno dei tanti fatti, fattacci e misfatti ignominiosi perpetrato dal regime fascista e dopo, il 28 maggio del 1928, quando il detenuto A. Gramsci, subì un altro processo, alla fine del quale, il pubblico ministero Michele Isgrò affermò: “Per 20 anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Io, B. Carrubba, a distanza di 92 anni da quel terribile e ingiusto processo, propongo e presento, con molto piacere, alcune pagine scelte del grande politico A. Gramsci, il quale a dispetto della sentenza del pubblico ministero, ha scritto la sua imperitura, grandissima, bellissima e immortale opera politica, filosofica, poetica e letteraria.

QUADERNI DEL CARCERE.

Il tema, che io, B. C., ho scelto, riguarda “BENEDETTO CROCE E ANTONIO GRAMSCI”, sviluppato da A. Gramsci in diverse pagine dei “QUADERNI DEL CARCERE”.

I
Benedetto Croce ed Antonio Gramsci.

Io, Biagio Carrubba, presento alcune pagine di Antonio Gramsci scelte da “Quaderni del carcere” che condivido e apprezzo e che ritengo ancora valide ed attuali per l’attuale società post-moderna e globalizzata. Queste pagine di Antonio Gramsci rispondono alla tesi speculativa e metafisica di Benedetto Croce il quale affermava che la storia procede verso la libertà. Croce, seguendo la filosofia neo-idealistica, credeva che lo sviluppo dell’umanità, che avviene dentro la storia che è sorretta dalla razionalità metafisica, va dal “bene al meglio” e quindi verso la libertà. Questa concezione ottimistica e trionfalistica di Croce sorvola quindi completamente i gravi e grossi problemi che l’umanità deve affrontare, superare e vincere; ma Croce, seguendo la concezione idealistica di Hegel per il quale la Razionalità è la realtà, salta completamente tutte le difficoltà concrete dell’umanità e afferma metafisicamente che la storia procede verso la libertà perché la storia è spirituale ed è un flusso continuo che non si arresta mai. Ecco come Gramsci sintetizza, in modo conciso e originale, la filosofia di Benedetto Croce. “Il Croce è rimasto imperturbabile nella sua serenità e nell’affermazione della sua fede che – metafisicamente il male non può prevalere e che la storia è razionalità -. (Quaderno n. 10 parag. 4, pag. 1216).
Invece Gramsci, a questo ottimismo liberale, risponde contrapponendo alcune riflessioni e considerazioni in alcune pagine de “Quaderni del carcere” che, seguendo invece la “teoria della filosofia della prassi”, negano lo sviluppo trionfale dell’umanità verso la libertà che Gramsci definisce “storicismo idealistico”. Ecco come Gramsci rivaluta la filosofia di Hegel e il neoidealismo di B. Croce. “La libertà come identità di storia – e di spirito – e la libertà come religione – superstizione, come ideologia immediatamente circostanziata, come strumento pratico di governo. Se la storia è storia della libertà – secondo la proposizione di Hegel – la formula è valida per la storia di tutto il genere umano di ogni tempo e di ogni luogo, è libertà anche la storia delle satrapie orientali”. (Quaderno n. 10, parag. X, pag. 1229). Gramsci non si fa prendere dai furori liberali e dall’euforia della libertà e risponde all’idealismo di Croce seguendo la “filosofia della prassi” che è opposta alla filosofia speculativa di Croce. In pratica Gramsci nei “Quaderni del carcere” fa tre osservazioni di principio che dimostrano l’infondatezza della tesi crociana e idealistica.
1) La prima osservazione è: Gramsci oppone alle teorie di Croce l’impossibilità di prevedere lo sviluppo della storia in modo arbitrario e aprioristico. Ecco le parole di Gramsci su questo punto: È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma, abilmente mascherata, di storia a disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche. Se si può affermare genericamente che la sintesi conserva ciò che è vitale ancora della tesi, superata dall’antitesi, non si può affermare, senza arbitrio, ciò che sarà conservato, ciò che a priori si ritiene vitale, senza cadere nell’ideologismo, senza cadere nella concezione di una storia a disegno (Quaderno n. 10, paragrafo 41 XVI – pagina 1327).
2) La seconda osservazione è: Gramsci afferma che non si può mettere la libertà, che dovrebbe essere la sintesi, come obiettivo, mentre Croce, seguendo la filosofia idealistica, pone la libertà come tesi e quindi, in modo artificioso, dirige la storia dandole un obiettivo predeterminato e quindi aprioristico e non scientifico. Come dice in modo ironico Gramsci, Croce mette le “brache al mondo”, cioè tira le forze dello sviluppo dell’umanità dall’alto indirizzandole metafisicamente verso la libertà come appunto si farebbe tirando su e giù le brache a un uomo e quindi indirizzandolo nella direzione voluta (ma tutta questa operazione è secondo Gramsci una operazione metafisica e speculativa e quindi non valida). Infatti Croce afferma in modo aprioristico che la libertà è il fine dell’umanità. Ora come è possibile porre la libertà come il fine della storia quando non conosciamo né il suo inizio né la sua fine? Secondo Gramsci Croce fa questa operazione aprioristica perché segue l’idealismo di Hegel e quindi cade nello stesso errore di far diventare la sua filosofia una filosofia speculativa e metafisica per cui risulta falsa, non vera e quindi erronea. Ecco le parole chiare su questa osservazione di Gramsci a Croce: “Ma come può confondersi questo fatto empirico col concetto di libertà, cioè di storia? Come domandare che le forze in lotta “moderino” la lotta entro certi limiti (i limiti della conservazione dello Stato liberale) senza cadere in arbitrio o nel disegno preconcetto? Nella lotta i “colpi non si danno a patti” e ogni antitesi deve necessariamente porsi come radicale antagonista della tesi, fino a proporsi di distruggerla completamente e completamente sostituirla”. (Quaderno n. 10. paragrafo 41 XVI – pagine 1327 – 1328).
3) La terza osservazione è: Gramsci, ragionando con lucidità sullo storicismo speculativo di Croce, arriva alla conclusione che lo sviluppo della storia è quello dovuto al raggiungimento dello sviluppo delle condizioni materiali della società e cioè alla struttura economica e sociale della società in termini della filosofia della prassi. Ecco le chiare parole di Gramsci su questo punto: “Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di necessità storica, e non di scelta arbitraria da parte dei così detti scienziati e filosofi”. (Quaderno n. 10, paragrafo 41 XIV – pagine 1325 – 1326).

II

Elenco delle pagine complete dei “Quaderni del carcere” dove Gramsci sviluppa gli argomenti sopra esposti.
“L’errore filosofico (di origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone “meccanicamente” che la tesi debba essere “conservata” dall’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene “preveduto”, come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. In realtà si tratta di uno dei tanti modi di “mettere le brache al mondo”, di una delle tante forme di razionalismo antistoricistico. La concezione hegeliana, pur nella sua forma speculativa, non consente tali addomesticamenti e costrizioni mutilatrici, pur non dando luogo con ciò a forme di irrazionalismo e di arbitrarietà, come quelle contenute nella concezione bergsoniana. Nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi, la sintesi sarà un superamento, ma senza che si possa a priori stabilire ciò che della tesi sarà “conservato” nella sintesi, senza che si possa a priori “misurare” i colpi come in un “ring” convenzionalmente regolato. Che questo poi avvenga di fatto è questione di “politica” immediata, perché nella storia reale il processo dialettico si sminuzza in momenti parziali innumerevoli; l’errore è di elevare a momento metodico ciò che è pura immediatezza, elevando appunto l’ideologia a filosofia. Che un tale modo di concepire la dialettica fosse errato e “politicamente” pericoloso, si accorsero gli stessi moderati hegeliani del Risorgimento come lo Spaventa: basta ricordare le sue osservazioni su quelli che vorrebbero, con la scusa che il momento dell’autorità è imprescindibile e necessario, conservare l’uomo sempre in “culla” e in ischiavitù. Ma non potevamo reagire oltre certi limiti, oltre i limiti del loro gruppo sociale che si trattava “concretamente” di far uscire di “culla”: la composizione fu trovata nella concezione “rivoluzione-restaurazione” ossia in un conservatorismo riformistico temperato. Si può osservare che un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono sé stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la “catarsi” del momento economico al momento etico-politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi “manipolano” speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi “arbitrariamente” (cioè passionalmente). Questa posizione giustifica il loro non “impegnarsi” interamente nell’atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della Riforma”. (Da “Quaderni del carcere” Quaderno 10, parag. 6 – edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana – Einaudi Editore – Pagine 1220 – 1222). “Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione. Nel linguaggio moderno questa concezione si chiama riformismo. Il contemperamento di conservazione e di innovazione costituisce appunto il “classicismo nazionale” del Gioberti, così come costituisce il classicismo letterario e artistico dell’ultima estetica crociana. Ma questo storicismo da moderati e da riformisti non è per nulla una teoria scientifica, il “vero” storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, una ideologia nel senso deteriore. Infatti perché la “conservazione” deve essere proprio quella data “conservazione”, quel dato elemento del passato? E perché si deve essere “irrazionalisti” e “antistoricisti” se non si conserva proprio quel determinato elemento? In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva il passato superandolo, è anche vero che il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto, in cui la scelta non può essere fatta arbitrariamente, a priori, da un individuo o da una corrente politica. Se la scelta è stata fatta in tal modo (sulla carta) non può trattarsi di storicismo ma di un atto di volontà arbitrario, del manifestarsi di una tendenza pratico-politica, unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza, ma solo a una ideologia politica immediata. Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di necessità storica, e non di scelta arbitraria da parte dei così detti scienziati e filosofi. E intanto è da osservare che la forza innovatrice, in quanto essa stessa non è un fatto arbitrario, non può non essere già immanente nel passato, non può non essere in un certo senso essa stessa il passato, un elemento del passato, ciò che del passato è vivo e in sviluppo, è essa stessa conservazione – innovazione, contiene in sé l’intero passato, degno di svolgersi e perpetuarsi. Per questa specie di storicisti moderati (e si intende moderati in senso politico, di classe, cioè di quelle classi che operano nella restaurazione dopo il 1815 e il 1848) irrazionale era il giacobinismo, antistoria era uguale a giacobinismo. Ma chi potrà mai provare storicamente che i giacobini siano stati guidati solo dall’arbitrio? E non è ormai una proposizione storica banale che né Napoleone né la Restaurazione hanno distrutto i “fatti compiuti” dai giacobini? O forse l’antistoricismo dei giacobini sarà consistito in ciò che delle loro iniziative non si è “conservato” il 100%, ma solo una certa percentuale? Non pare che ciò sia plausibile da sostenersi, perché la storia non si ricostruisce con calcoli matematici e d’altronde nessuna forza innovatrice si realizza immediatamente, ma appunto è sempre razionalità e irrazionalità, arbitrio e necessità, è “vita”, cioè, con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi. Fissare bene questo rapporto dello storicismo del Croce con la tradizione moderata del Risorgimento e col pensiero reazionario della Restaurazione. Osservare come la sua concezione della “dialettica” hegeliana abbia privato questa di ogni vigore e di ogni grandezza, rendendola una quistione scolastica di parole. Il Croce ripete oggi la funzione del Gioberti e a questo si applica la critica contenuta nella Miseria della filosofia sul modo di non comprendere l’hegelismo. E tuttavia questo dello “storicismo” è uno dei punti e dei motivi permanenti in tutta l’attività intellettuale e filosofica del Croce e una delle ragioni della fortuna e dell’influsso esercitato dalla sua attività da trent’anni. In realtà il Croce si inserisce nella tradizione culturale del nuovo Stato italiano e riporta la cultura nazionale alle origini sprovincializzandola e depurandola di tutte le storie magniloquenti e bizzarre del Risorgimento. Stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa appunto ridurlo alla sua reale portata di ideologia politica immediata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una disinteressata contemplazione dell’eterno divenire della storia umana”. (Quaderno n. 10, parag. 41, pagg. 1325 – 1327).
“È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma, abilmente mascherata, di storia e di disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche. Se si può affermare genericamente che la sintesi conserva ciò che è vitale ancora della tesi, superata dall’antitesi, non si può affermare, senza arbitrio, ciò che sarò conservato, ciò che a priori si ritiene vitale, senza cadere nell’ideologismo, senza cadere nella concezione di una storia a disegno. Che cosa il Croce ritiene che della tesi sia da conservare, perché vitale? Non essendo che raramente un politico pratico, il Croce si guarda bene da ogni enumerazione di istituti pratici e di concezioni programmatiche, da affermare “intangibili”, ma tuttavia essi possono essere dedotti dall’insieme della sua opera. Ma se anche ciò non fosse fattibile, rimarrebbe sempre l’affermazione che è “vitale” e intangibile la forma liberale dello Stato, la forma cioè che garantisce a ogni forza politica di muoversi e di lottare liberamente. Ma come può confondersi questo fatto empirico col concetto di libertà, cioè di storia? Come domandare che le forze in lotta “moderino” la lotta entro certi limiti (i limiti della conservazione dello Stato liberale) senza cadere in arbitrio o nel disegno preconcetto? Nella lotta i “colpi non si danno a patti” e ogni antitesi deve necessariamente porsi come radicale antagonista della tesi, fino a proporsi di distruggerla completamente e completamente sostituirla. Concepire lo svolgimento storico come un gioco sportivo, col suo arbitro e le sue norme prestabilite da rispettare lealmente, è una forma di storia a disegno, in cui l’ideologia non si fonda sul “contenuto” politico ma sulla forma e sul metodo di lotta. E’ un’ideologia che tende a snervare l’antitesi, a spezzettarla in una lunga serie di momenti, cioè a ridurre la dialettica a un processo di evoluzione riformistica “rivoluzione-restaurazione”, in cui solo il secondo termine è valido, poiché si tratta di rabberciare continuamente dall’esterno un organismo che non possiede internamente la propria ragion di salute. De resto si potrebbe dire che un simile atteggiamento riformistico è un’“astuzia della Provvidenza” per determinare una maturazione più rapida delle forze interne tenute imbrigliate dalla pratica riformistica”. (Da Quaderni del carcere, quaderno 10, parag. 41 XVI – edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana –pagine 1327 – 1328).

III

Ecco un’altra pagina dei “Quaderni del carcere” nella quale Gramsci confuta la tesi di Benedetto Croce e conferma la sua tesi sul tema della libertà:
“Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla “necessità” e non alla “libertà”, che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della prassi: nel regno della “libertà” il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia.”
(da “Quaderni del carcere” Quaderno 11, paragr. 62 – edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana – Pagina 1488).

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Modica, 17 novembre 2018.                                               Prof. Biagio Carrubba

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