N. 28

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IO, B. C., DESIDERO L’ATEISMO.

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L’excessus mentis di Dante Alighieri.

Io, B. C., riporto, qui in sintesi, i canti del Paradiso nei quali Dante Alighieri parla, descrive, per l’appunto, il processo dell’excessus mentis. Dante Alighieri parla dell’excessus mentis in tre canti: nel I canto, nel canto XXIII e nel canto XXXIII del Paradiso. Nel canto XXXIII, Dante Alighieri svolge e approfondisce il suo excessus mentis dandone un’immagine maestosa e imponente, rappresentandolo come la grande apoteosi della sua mente, che subisce, per l’ultima volta, un’estasi mistica e metafisica, grandiosa e imponente. Inoltre, Dante Alighieri descrive come la sua memoria riesce a penetrare la luce divina. Inoltre, Dante Alighieri descrive, anche, la sua visione sovrannaturale di Dio che lui ha avuto con il suo excessus mentis, guardando e scrutando dentro la luce divina, dove la sua mente riesce a intravedere la trinità divina.

1

All’inizio del primo canto del Paradiso, Dante Alighieri afferma che lui è stato nell’Empireo, cioè il cielo, il quale, più di tutti gli altri cieli, assorbe più luce di Dio. Inoltre, Dante, alla fine del suo viaggio nel Paradiso, dice, anche, di non ricordare più niente perché la sua parola è divenuta ineffabile e la sua memoria non è in grado di ricordare tutto ciò che lui ha visto dentro la luce divina del punto luminoso. Il viaggio visionario di Dante Alighieri nell’Empireo e il suo sprofondarsi nella luce divina costituisce il primo excessus mentis subito, avuto e sperimentato dallo stesso poeta. Ecco i versi iniziali del I canto del Paradiso, con i quali Dante Alighieri esprime ed esplicita il suo viaggio, immaginario e visionario, nell’Empireo e il suo ritorno dall’Empireo sulla Terra. Dante, afferma, anche, che non ha nemmeno le parole per descrivere tutte le sensazioni e le emozioni che ha provato in questo viaggio di andata e di ritorno.

La gloria di colui che tutto move

per l’universo penetra, e risplende

in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più della sua luce prende

fu’ io, e vidi cose che ridire

né sa né può chi di la sù discende;

perché appressando sé al suo disire,

nostro intelletto si profonda tanto,

che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant’io del regno santo

ne la mia mente potei far tesoro,

sarà ora materia del mio canto.

(Paradiso. Canto I. versi 1 – 12).

Con parole più semplici e più chiare di questo proemio, Dante afferma e chiarisce che lui è salito fino all’Empireo e dice di aver visto cose che non riesce a riferire perché le sue parole sono diventate ineffabili. Ma Dante, di quel poco che ha visto e di cui si ricorda, nella sua memoria, dice che diventerà materia e argomento del suo canto. Dante afferma, inoltre, che il suo intelletto, avvicinandosi a Dio, oggetto del suo desiderio, si è addentrato tanto profondamente che ormai la sua memoria non può stargli dietro, cioè non riesce più a ricordare tutto quello che ha visto e che può riferire agli uomini. Ecco come nei versi 7 – 9 Dante Alighieri ha espresso e manifestato, anche, il concetto del suo excessus mentis, il quale, però, non riesce a ricordare tutto quello che ha visto nella luce divina, perché la sua memoria non è in grado di ricordare tutto quello che ha visto, veduto e goduto. Con altre parole si può dire che Dante Alighieri, contemplando il punto luminoso di Dio ed entrando, con il suo excessus mentis, dentro la luce divina, ha intravisto la Trinità Divina e, in quel momento, ha provato e ha percepito, anche, la sua contemplazione metafisica, provando, anche, una profonda emozione di estasi metafisica, estetica ed estatica.

2

Nel canto XXIII, Dante Alighieri ripropone, nuovamente, la sua visione metafisica di Dio con il concetto di excessus mentis, anche se le circostanze e il contesto sono diversi da quelli del I canto. Dante e Beatrice si trovano, ormai, nell’VIII cielo, nel cielo delle stelle fisse, quando Beatrice aspetta con ansia l’ascesa di Gesù Cristo. Dante guarda, anche lui, l’ascesa di Gesù Cristo, ma, per la potenza della luce di Gesù Cristo, Dante perde la sua vista per un momento e, anche, la sua mente rimane offuscata contemplando tutte le anime beate che accompagnano e seguono l’ascesa di Gesù Cristo. Quindi la mente di Dante, ancora una volta, non è in grado di ricordare e di parlare di ciò che ha visto perché la sua mente subisce un altro excessus mentis. Anche questa volta Dante non riesce a ricordare e a descrivere la potenza e la luminosità di Gesù Cristo. Ecco qui i versi con i quali Dante Alighieri esprime il suo secondo excessus mentis, con il quale Dante subisce e prova la sua profonda emozione di estasi metafisica, estetica ed estatica, perché la sua mente e la sua memoria si dilatano molto di più, rispetto alla normale mente umana, per vedere e contemplare l’ascesa di Gesù Cristo verso l’Empireo.

“Come foco di nube si diserra

per dilatarsi sì che non vi cape,

e fuor di sua natura in giù s’atterra,

la mente mia così, tra quelle dape

fatta più grande, di sé stessa uscìo,

e che si fesse rimembrar non sape.

<<Apri gli occhi e riguarda qual son io;

tu hai vedute cose, che possente

sé fatto a sostener lo riso mio>>.

Io era come quei che si risente

di visione oblita e che s’ingegna

 indarno di ridurlasi a la mente,

quand’io udi’ questa proferta, degna

di tanto grato, che mai non si stingue

del libro che ‘l preterito rassegna”.

(Paradiso. Canto XXIII. Versi 40 – 54).

Con parole più chiare e più semplici Dante Alighieri afferma che la sua mente ha avuto e ha subito un altro excessus mentis con il quale ha potuto vedere e assistere alla salita di Gesù Cristo nel cielo e nell’Empireo. Dante, però, dice, anche, che, alla fine della visione dell’ascesa di Gesù, la sua mente non ricorda tutto quello che ha visto e che ha veduto perché la sua memoria non è in grado di descrivere, memorizzare e riferire lo spettacolo divino di Gesù Cristo mentre sale nell’Empireo. Infatti, Dante afferma che la sua mente, fatta più grande, cioè più dilatata e trovandosi tra quelle anime beate, uscì fuori da sé stessa, ma non sa più ricordare le cose che ha visto e cioè il trionfo di Cristo, per cui Dante si trova come colui che, svegliandosi da un sogno, ritorna in sé stesso, da una visione avuta, ma ormai dimenticata, e cerca, invano, di richiamarla alla mente. Dante, cioè, ha visto il trionfo di Cristo, ma, sopraffatto dall’intensità della visione soprannaturale, uscito quasi fuori di sé, non riesce più a ricordare ciò che ha visto. Ma, per sua fortuna, Dante ascolta e riceve l’invito di Beatrice, la quale lo invita a guardarla perché ormai Dante, con la sua nuova vista, potenziata e sovrumana, può sostenere la bellezza e il fulgore del riso di Beatrice.

3

Infine, Dante Alighieri, nel XXXIII ed ultimo canto del Paradiso, ritorna, ancora una volta, al concetto dell’excessus mentis. Dopo la preghiera di san Bernardo alla Vergine Maria, Dante Alighieri comincia a parlare dell’excessus mentis perché, mano a mano, che lui si avvicina al punto luminoso di Dio la sua vista si potenzia e si rafforza, così, ora, è in grado di poter penetrare la luce divina del punto luminoso. Allora Dante Alighieri comincia la sua perorazione, la sua lode e la sua invocazione a Dio di renderlo più forte e donargli una scintilla della sua luce e, così, poter riferire agli uomini, al suo ritorno, la vittoria di Dio. In questo modo, Dante può, così, testimoniare la gloria di Dio, anche, alle genti future, cioè ai posteri, di modo che i posteri possono conoscere e avere un barlume della grandezza divina (Versi 67-75). Poi, quando Dante si sente sicuro e ardito che la sua vista è diventata più forte e più potenziata, per poter penetrare nella luce divina, comincia a guardare con più forza la luce divina del punto luminoso. Dante, comincia a provare, così, il suo terzo excessus mentis, il quale gli permette di vedere e di constatare cosa c’è dentro la luce di Dio. Dante vede, per prima cosa, la forma universale che tiene legata ogni cosa, la quale nel mondo si presenta dispersa e squadernata. Dante vede che Dio tiene legate ogni cosa, con amore, come le pagine di un libro sono legate nello stesso volume (Versi 85-93). Ecco le terzine con le quali Dante illustra e spiega che Dio, con il suo amore, lega in un volume tutto ciò che per l’universo si squaderna.

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch’i dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo

credo ch’i vidi, perché più di largo

dicendo questo, mi sento ch’i godo.

(Paradiso. Canto XXXIII. Versi 85 – 93).

Poi Dante continua a guardare la luce divina, con il suo excessus mentis, cioè con la sua mente dilatata e fuori da sé stessa. Dante vede che tutto quello che c’è dentro la luce divina è perfetto, mentre ciò che è fuori dalla luce divina è imperfetto, manchevole e difettivo (Versi 100-105). La sua mente rimane immobile e attenta, ma si dilata sempre di più, e si rende conto che non è Dio che si modifica, ma è lo stesso Dante che, mano a mano, che la sua vista diventa più forte e sovrumana. (Versi 109-114). Poi, Dante, guardando sempre nella profondità della luce divina, vede tre cerchi di tre colori diversi ma della stessa grandezza. Dante capisce e intuisce che i tre cerchi rappresentano la Trinità di Dio, ma si rende conto, anche, che la sua parola e la sua memoria non sono in grado di ricordare tutto quello che vede nella luce divina. Dante intuisce subito che quei tre cerchi sono la Trinità di Dio. Il primo cerchio rappresenta Dio padre, il secondo cerchio rappresenta suo figlio Gesù Cristo, il terzo cerchio rappresenta lo Spirito Santo, il quale ha fatto partorire Maria, la quale, per l’appunto, ha dato alla luce il figlio di Dio. Ecco le terzine con le quali Dante Alighieri esprime e descrive la Trinità di Dio rappresentata dai tre cerchi di colore diverso.

Ne la profonda e cara sussistenza

de l’altro lume parvemi tre giri

di tre colori e di una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri

parea reflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri.

(Paradiso. Canto XXXIII. Versi 115-120)

Dante Alighieri, poi, si rende conto che, con il suo excessus mentis, è immerso dentro la luce divina e prova una immensa soddisfazione a penetrare e a vedere ciò che sta dentro la luce divina e cioè la Trinità e l’incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, il quale è collocato nel secondo cerchio. Dante Alighieri, quindi, loda Dio che, con la sua luce divina, può essere contenuto solo in sé stesso, ma Dio, con la luce, oltre che capire e intendere sé stesso, ha messo suo figlio Gesù Cristo nel secondo cerchio tramite lo spirito santo, per cui Dio, capendo e intendendo sé stesso, si ama e sorride.  Ecco, qui di seguito, la celebre terzina con la quale Dante Alighieri celebra, con la sua circonlocuzione, la sua lode alla luce divina e quindi della trinità divina. (Versi 124-126).

O luce etterna che sola in te sidi

sola t’intendi, e da te intelletta

e intendente te ami e arridi!

Dante Alighieri, poi, appunta la sua vista, con insistenza e con circospezione, per l’appunto, sul secondo cerchio. Quindi, Dante, con il suo excessus mentis, ora, in piena estasi, prova una mistica visione, estetica ed estatica. Dante ora ha una visione interna dei tre cerchi, ma questa visione sovraumana dura pochi attimi, per cui si rende conto che non riuscirà a dire, con le sue parole, ciò che ha visto dentro la luce divina perché le parole sono ineffabili rispetto alla grandiosità e alla luminosità della luce divina. (Versi 127-132). Ecco qui di seguito le terzine con le quali Dante esprime la sua gioia e la sua estasi nel vedere i tre cerchi dello stesso colore che rappresentano la trinità divina.

Quella circulazion che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige:

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

(Paradiso. Canto XXXIII. Versi 127 – 132).

Dante Alighieri, inoltre, cerca di capire come mai Gesù Cristo si trova nel secondo cerchio e, nonostante la sua concentrazione nel capire come Gesù Cristo si trovi nel secondo cerchio, non riesce a capirlo, così come un geometra, il quale, pur sforzandosi a pensare quale sia la quadratura del cerchio, non trova la legge matematica di cui ha bisogno. (Versi 133-135). Dante, infine, mentre cerca di vedere Gesù Cristo nel secondo cerchio, è incapace di comprendere il mistero della Trinità perché la forza del suo pensiero non ha la potenza di poter capire, con il suo excessus mentis, il mistero della Trinità Divina. Dante rimane un po’ turbato perché non riusce a capire il mistero dell’incarnazione. Dio, con la sua infinita bontà, gli invia una luce intensa, una folgorazione, con la quale Dante riesce a capire e a intuire il mistero dell’incarnazione e così diventa soddisfatto del suo excessus mentis e della sua estasi estetica ed estatica. Così Dio, ancora una volta, viene in soccorso a Dante, il quale con l’ultima illuminazione capisce il mistero dell’incarnazione. Ecco qui di seguito le terzine con le quali Dante Alighieri esprime tutta la sua gioia e la sua soddisfazione nel vedere la trinità divina e nel constatare che il suo desideri di capire la trinità divina è stato soddisfatto da Dio. (Versi 133-141).

Qual è ‘l geometra che tutto s’affige

per misurare lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:

veder voleva come si convenne

l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.

Infine, Dio, che muove il sole e le altre stelle, fa girare sia il desiderio che la volontà di Dante, il quale, ormai, si muove in modo armonioso, seguendo la volontà di Dio, come due ruote dello stesso carro girano contemporaneamente. Ecco le ultime terzine del XXXIII canto con le quali Dante descrive come lui voleva capire, come Gesù Cristo s’indovasse nel secondo cerchio, ma non ci riusciva perché la potenza della sua immaginazione non era adeguata a comprendere il mistero dei tre cerchi e dell’incarnazione di Gesù. Ma Dio, ancora una volta, viene in soccorso a Dante, perché gli invia un fulgore che lo illumina e gli fa comprendere il mistero dell’incarnazione. In ultimo Dio conforma il desiderio e la volontà di Dante alla volontà di Dio, cosicché la volontà di Dante si muove insieme a quella di Dio, come due ruote si muovono e girano in modo uguale.

A l’alta fantasia qui mancò la possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor, che move il sole e le altre stelle.

(Paradiso. Canto XXXIII. Versi 142 – 145).

Dante Alighieri finisce, con la bellissima perifrasi di Dio, gli ultimi versi del XXXIII canto del Paradiso, e lo chiude con la parola “stelle”, così come aveva già terminato l’Inferno e il Purgatorio. Io, B. C., penso, reputo e suppongo che Dante, descrivendo il suo excessus mentis, fosse in armonia e in corrispondenza con tutti gli altri filosofi, teologi e mistici, del suo tempo e prima del suo tempo, che già avevano parlato ed esaltato il concetto dell’excessus mentis, come Riccardo di san Vittore. Io, B. C., penso, reputo e giudico, però, che tutto il canto XXXIII del Paradiso sia costruito con una serie di ragionamenti sofistici, i quali non hanno niente di vero e di reale. Inoltre, io, B. C., penso, reputo e affermo che sia lo spettacolo dei cieli del Paradiso e sia lo spettacolo dell’Empireo, cioè la sede di Dio, siano delle invenzioni del tutto inventate ed elaborate dalla mente vulcanica e medievale di Dante Alighieri. Insomma, noi lettori postcontemporanei siamo davanti ad una messinscena davvero spettacolare, ma basata e costruita sulla finzione, cioè su una vera e propria trama di fiction, basata e costruita sulla filosofia metafisica e teologica della cultura medievale. Del resto lo stesso Dante Alighieri aveva proclamato e scritto che la letteratura è soltanto una fiction, come il poeta scrisse in un brano del trattato De vulgari eloquentia: “Que nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita”. (La letteratura che altro non è se non una finzione retorica dipoi posta in musica). (Dall’opera De vulgare eloquentia. Da Dante, tutte le opere. Pagina 1048). Io, B. C., penso, reputo e giudico, infine, che un esempio di ragionamento sofistico di questo canto è certamente la terzina che si riferisce alla luce divina e alla Trinità di Dio. Ecco la celebre terzina, che sembra un ragionamento logico e lineare, ma in effetti è soltanto una costruzione sintattica e lessicale piena di sofismi, tutta basata e costruita sulla fiction dei cieli e dell’Empireo divino ed è anche, però, una circonlocuzione fallace e capziosa.

O luce etterna che sola in te sidi

sola t’intendi, e da te intelletta

e intendente te ami e arridi.

Infine, io, B. C., penso, reputo e giudico che questa famosa e celebre terzina del Paradiso, che sembra un ragionamento filosofico acuto, arduo e affascinante, molto audace e molto arzigogolato capace di piacere, di persuadere e di sedurre anche le menti più raffinate, più istruite e più eleganti di tutti i lettori della Divina Commedia di ogni tempo, in effetti non è altro che un ragionamento fittizio e sofistico, capzioso e fallace, falso e sbagliato, perché tutto basato sulla finzione retorica che Dante Alighieri ha saputo costruire e inventare attraverso un gioco linguistico, semantico, lessicale, filosofico e teologico, molto bello e molto raffinato, ma privo di ogni realtà e di ogni verità. Inoltre, io, B. C., penso, reputo e discerno che, questa celebre terzina non è la sola e unica terzina ad essere sofistica, fittizia, capziosa, fallace, sbagliata e falsa, inventata da Dante Alighieri per comporre e costruire la sua Divina Commedia. Io, B. C., penso, reputo e affermo che l’intera Divina Commedia è basata, costruita, edificata e scritta con tantissimi ragionamenti sofistici, con tante elucubrazioni fantastiche, ma false e inventate, e con tante immagini spettacolari e retoriche, ma false e cavillose, inventate di sana pianta da Dante Alighieri per costruire la struttura del poema poetico e per comporre ed edificare l’intera fiction della Divina Commedia. Un altro esempio di terzina sofisticata, fittizia, capziosa e fallace è, certamente, l’ultima terzina del Paradiso, nella quale Dante Alighieri esprime, ancora una volta, con la sua notissima circonlocuzione e con la sua ultima perifrasi, il suo amore e la sua devozione a Dio, abbandonando, così, la sua volontà personale rendendosi un’anima tra le tante che adorano anonimamente e pedissequamente la volontà della luce di Dio. Ecco qui di seguito l’ultima terzina del Paradiso con la sua circonlocuzione e con la sua ultima perifrasi.

A l’alta fantasia qui mancò la possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor, che move il sole e le altre stelle.

(Paradiso. Canto XXXIII. Versi 142 – 145).

Modica, 23/12/2023

Prof. Biagio Carrubba

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