
IL MIO GIUDIZIO SUL BREVE E BEL ROMANZO
“DICERIA DELL’UNTORE” DI GESUALDO BUFALINO.
Il mio giudizio sul bel romanzo di G. Bufalino è questo. Il romanzo è la sintesi di tre dimensioni culturali: la dimensione decadentistica, la dimensione realistica e la dimensione magica e favolistica. La dimensione decadentistica è data dai temi della malattia, come condizione speciale dell’uomo, capace di capire cose che non si comprendono da sani, come asserisce il protagonista “La malattia conferisce ai volti un presentimento, una luce che manca sulle guance dei sani; un malato non è meno bello di un santo. (Pag. 59)” e dai personaggi che vivono una condizione speciale di vita come afferma Bufalino “Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d’Oro nel ’46. (pag. 179)”. La dimensione realistica è data dal contesto storico del 1946 “Come l’occupazione delle terre postbelliche o come la visita del Re Umberto giovinotto in questua di voti, venuto fin lassù a stringerci con spaventato coraggio la mano, qualche giorno prima del 2 giugno (pag. 45)”. E da tanti altri particolari come “Robic, che scalava, ballando sui pedali, i tornanti del Tourmalet (pag. 45)”. La dimensione realistica è poi riscontrabile in tanti altri particolari, come, “L’Adele, dopo che fu dimessa se ne tornò a vivere di borsa nera – latte in polvere UNRRA e farina bianca – dalle parti dell’Olivella (pag. 66)”, o come la festa del Santo Patrono nel paesetto vicino Palermo pieno di “festoni di lampioncini e tralicci di fuoco d’artificio innalzati lungo la via principale, e, in uno spiazzo, momentaneamente immoti e disabitati, i veicoli di una giostra (pag. 111)”, o come l’accenno al tipo di musica di moda allora: il “bughivughi (pag. 112)”. Un’altra dimensione realistica è data dal comportamento dei malati che non vedono nella malattia una condizione speciale e particolare di privilegio ma semplicemente una condizione sfortunata, conseguenza della guerra e una condizione naturale della vita, senza fare ricorso a simbologie culturali del secolo precedente e senza rifugiarsi nella religione per avere speranza di guarire, come afferma il protagonista quando si trova solo in mezzo alla folla e contempla la gente appresso al simulacro del santo: “Ecco dunque la vita” pensai. “Stracciona e ronzante: una polpa di semi di sangue. E io la mangio, la palpo, la odoro (pag. 112)”. La dimensione magica, favolistica, lirica, barocca, fantastica è a ogni pagina del libro: dal sogno sempre uguale del protagonista al sanatorio, visto come un’arca, come un luogo di rifugio e di consolazione, e per tutte le descrizioni liriche dei luoghi e per la personalità, sui generis, dei personaggi, come afferma lo stesso Bufalino: “Un’umile ambizione: coniugare favola e memoria e insinuare sotto le più preziose maschere della maniera qualche tremito di strazio e una remota dimenticata pietà. (pag. 179)”. Anche l’ambientazione geografica e ambientale è fantastica come afferma lo stesso Bufalino: “Lo stesso luogo dell’azione, poi, è una Sicilia di fantasia, fra fiaba e orrore, con personaggi estranei ai suoi modi e miti, finiti qui per caso o per occulti richiami, ma sempre da ospiti fuggitivi: personaggi eccezionali, com’è eccezionale chiunque stia per morire (pag. 179)”.
II
Ora io, Biagio Carrubba, giudico che il breve e bel romanzetto sia la sintesi perfetta ed originale di queste tre dimensioni (decadentistica, realistica e magica) sicché il romanzetto si può definire un romanzo eclettico e poliedrico. Bufalino è riuscito, in sostanza, a fondere insieme le tre dimensioni con una lexis originale, esuberante, esorbitante, con una scrittura alta e pregiata e con uno stile brillante e personale, che si allontana, di molto, dal linguaggio medio e monotono dei romanzi degli anni ’60 e ’70. Bufalino ha superato, secondo me, con un solo colpo, la scrittura degli scrittori sperimentalisti degli anni ’70, adoperando una scrittura personale, raffinata, barocca, ridondante e superiore alla scrittura media del tempo. Come un film diventa un capolavoro, quando tutte le varie componenti di esso si fondono in un solo sincronismo complesso che dà unitarietà, complessità e profondità al tutto: dalla musica alla sceneggiatura, dalle immagini ai personaggi, dalla interpretazione degli attori all’attualità del tema scelto dal regista, così anche il romanzo “Diceria dell’untore”, secondo me, è riuscito a unificare e a sintetizzare le varie componenti del romanzo in un assolo di racconto tematico e musicale, con uno stile personale, omogeneo, ricco, vivido, ampolloso, arioso, così da innalzare il romanzo a un vero e proprio capolavoro letterario: dal linguaggio raffinato al forte tono emotivo, dai personaggi vividi ai luoghi vivi del romanzo. Per questi motivi io, Biagio Carrubba, reputo che “Diceria dell’untore” fuoriesce dalle strettoie del contesto storico del neorealismo, per innalzarsi in un tempo indefinito e valido per sempre, perché come tutte le opere letterarie belle vivono al di sopra del tempo contingente e lanciano il loro messaggio senza tempo a tutte le generazioni, così il romanzetto di Bufalino non ha perso, ancora oggi, il suo fascino e il suo messaggio di attualità e di post contemporaneità, a 37 anni dalla sua pubblicazione. Io, Biagio Carrubba, credo, inoltre, che il motivo della bellezza di “Diceria dell’untore” consista, ancora oggi, nel fatto che Bufalino abbia saputo raccontarci la sofferenza dei deboli e il patos dei malati in un modo struggente, trasfigurato e malinconico ma realistico e magico in tutti i sensi. Infatti il romanzo è la descrizione di quei malati, la cui condizione è uguale a tutti i mali del mondo, e che, ancora oggi, cercano un autore che sappia descriverli e farli ricordare, per sempre, nella mente e nei sentimenti dei lettori. Come gli attori di Pirandello cercavano un autore per farli vivere, così i malati della Rocca hanno trovato, per loro fortuna, un loro autore siciliano, Bufalino, che li ha saputo descrivere nella loro dimensione storica, umana di uomini e di malati. Mutatis mutandis, Bufalino ha fatto ciò che Primo Levi ha fatto con “Se questo è un uomo” e cioè ha descritto la sofferenza e il dolore dei suoi amici e compagni di prigionia nel lager di Auschwitz. E sia Levi che Bufalino, dando voce a questi sfortunati malati, li hanno resi immortali, e loro stessi, come autori, sono diventati immortali, come i grandi scrittori di ogni tempo.
Finale
La lettura di questo romanzetto dona a chi lo comprende, fino in fondo, una rigenerazione culturale, suscita una speranza per il futuro e dà una boccata di ossigeno e di refrigerio a chi è accaldato ed è stanco. Ciò che colpisce il lettore, subito dopo la prima lettura del romanzetto, è la sua straordinaria bellezza lessicale; e il suo misterioso fascino deriva, secondo me, dal ricco ornatus della lexis. Il romanzo appartiene, per questo motivo, allo stile sublime della retorica classica perché pieno di patos e perché, alla fine, il romanzo riesce a commuovere i lettori con le forti passioni dei suoi protagonisti.
Modica, 11/ 10/ 2018 Prof. Biagio Carrubba
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