
Le ceneri di Gramsci.
(Introduzione, testo e parafrasi).
I
Le ceneri di Gramsci è un libro di poesie nel quale Pasolini raccoglie in un unico volume 11 poemetti che lo stesso poeta aveva scritto e pubblicato in varie riviste tra il 1951 e il 1956 revisionati e pubblicati nel 1957 nelle edizioni Garzanti.
Gli undici poemetti sono: 1) L’Appennino; 2) Il canto popolare; 3) Picasso; 4) Comizio; 5) L’umile Italia; 6) Quadri friulani; 7) Le ceneri di Gramsci; 8) Recit; 9) Il pianto della scavatrice; 10) Una polemica in versi; 11) La Terra di Lavoro.
Questi 11 poemetti furono scritti da Pasolini durante la sua permanenza nelle borgate romane, dove lui visse in compagnia della madre in condizione economiche difficili, mentre scriveva i suoi primi romanzi ambientati nelle borgate di Roma. Il primo romanzo “Ragazzi di vita” fu pubblicato nel 1955; ma Pasolini, contemporaneamente, era redattore della rivista letteraria “Officina” nella quale prendeva le distanze sia dall’Ermetismo, sia dal neorealismo sia dalla posizione ufficiale del Partito Comunista. E, propriamente, nel poemetto n° 10, Pasolini scrive e descrive una polemica in versi, con una rivista del PCI che rispondeva al poeta che aveva accusato il PCI di “Prospettivismo”. La polemica, che in quegli anni era davvero sentita, si riduce, oggi, al duro attacco che Pasolini aveva scritto un articolo pubblicato sul numero 6 di Officina.
Questo libro di poesie risultò, fin da allora, nuovo e per certi versi sorprendente nel panorama poetico degli anni ’50. Sorprendente perché Pasolini usò di nuovo l’endecasillabo e la terzina che lui aveva ripreso dalla poesia del Pascoli e ciò in funzione anti ermetica e anti realistica di attualità in quegli anni. Ma il libro era nuovo anche per i contenuti, che si allontanavano completamente sia dall’ermetismo sia dal neorealismo, e sintetizzavano la sua condizione personale vissuta nelle borgate di Roma, ma rifondata e rinnovata, anche e soprattutto, dalle nuove letture di Marx e di Gramsci. In “Le ceneri di Gramsci” Pasolini manifesta la sua contraddizione politica ed ideologica: da un lato aderisce al marxismo e al pensiero di Gramsci, ma dall’altro lato Pasolini non vede nel popolo delle borgate romane il proletariato che ha la coscienza di classe, pronto a fare la rivoluzione sociale. Pasolini toglie, così, ogni incanto politico al popolo delle borgate perché le valorizza solo per la loro vitalità primitiva e originaria di gente che vive solo di lavoro pratico, ma senza avere la coscienza di classe. In sintesi Pasolini dà una visione realistica, istintiva e vitalistica del popolo delle borgate romane e toglie loro la dimensione politica andando così contro Gramsci e il PCI che vedevano nel sottoproletariato una componente fondamentale della lotta di classe degli operai, vicino alla politica, allo spirito del partito dei lavoratori e aderenti al Partito Comunista.
II
Introduzione al poemetto
Le ceneri di Gramsci.
Il poemetto Le ceneri di Gramsci è il n° 7 e dà il titolo all’intera raccolta poetica pubblicata da Pasolini nel 1957. Il singolo poemetto era stato scritto da Pasolini nel 1954 e pubblicato la prima volta nei numeri 17 – 18 della rivista “Nuovi Argomenti” nel novembre – febbraio 1956.
I versi del poemetto sono 307 divisi in 6 lasse molto lunghe. Le strofe sono formate da terzine di versi che oscillano intorno all’endecasillabo, a rima incatenata di origine pascoliana – dantesca.
III
Introduzione alla genesi del poemetto
Le ceneri di Gramsci.
Pasolini arrivò a Roma nel gennaio del 1950 e nel 1954 scrisse il poemetto Le Ceneri di Gramsci. Tra il 1951 e il 1954, Pasolini scrisse altri poemetti che precedono quest’ultimo. La genesi del poemetto Le Ceneri di Gramsci è da ricercare in questi primi quattro anni della vita romana di Pasolini; sono gli anni in cui Pasolini scopre Marx e Gramsci. In questi quattro anni Pasolini conduce una vita nuova rispetto a quella del Friuli da dove era stato cacciato per motivi omo-erotici. I primi quattro anni di Pasolini a Roma sono molto difficili: professore precario, abita in una casa in affitto e la mamma è costretta a lavorare come serva presso una famiglia romana. Questo mondo romano delle borgate è molto diverso dal mondo contadino ma sano del Friuli; in questi quattro anni scrive qualche articolo e incontra Sergio Citti che gli fa conoscere il linguaggio delle borgate romane. Pasolini in questi anni fa un apprendistato di vita, continua a scrivere poesie, conosce uomini di cinema e coltiva dentro di sé l’ardente desiderio di uscire dall’anonimato delle borgate per entrare nel mondo della letteratura e del cinema ufficiale. Nello stesso tempo conosce il poeta omosessuale Sandro Penna con il quale stabilisce un sodalizio di coppia che li porta la notte a cercare giovani romani con cui praticare sesso omosessuale. Pasolini si vanterà presto dei rapporti omo-erotici con molti giovani romani. Questi quattro anni, sono anni di estrema miseria ma anche di grande conquista culturale ed intellettuale: la scoperta di Gramsci e anche la conquista di molti giovani romani con rapporti omosessuali. Dopo le prime esperienze di poesia scritta in dialetto friulano e la nascita della prima poesia in italiano (L’usignolo della Chiesa Cattolica), Pasolini scrive i primi romanzi (Amado mio, Atti impuri e Ragazzi di vita) e Le Ceneri di Gramsci. Mentre per capire i romanzi basta sapere che essi traspongono, descrivono e riportano, vissute da Pasolini in prima persona, la vita delle borgate romane, per capire bene il poemetto Le Ceneri di Gramsci bisogna, invece, capire perché lui usa il genere delle terzine di origine dantesca pascoliana e non il dialetto romano dei giovani che il poeta adopera nei romanzi.
Ora io, Biagio Carrubba, credo che questi poemetti, dal primo L’appennino all’ultimo La terra di lavoro, passando attraverso Le ceneri di Gramsci, hanno una bellezza peculiare, soltanto pasoliniana, dovuta appunto all’equazione fondamentale della sua lexis: originalità + diversità = bellezza poetica, romanziera e filmica.
Pasolini si differenzia da tutti gli altri poeti, scrittori e registi del suo tempo perché in ogni sua opera poetica artistica fa emergere questa equazione unica e irripetibile. La bellezza della sua opera è data da questo risultato unico dovuto alla sua diversità di omosessuale e alla sua originalità di scrittura e di genio poetico.
Questo genio poetico si fonda, oltre che sull’equazione fondamentale originalità + diversità = bellezza, anche sul fatto che la nuova vita di Roma gli fece cambiare stile di scrittura rispetto alla poesia friulana e lo portò alla ricerca di un nuovo stile espressivo, come spiega lui stesso nell’articolo “La libertà stilistica” pubblicato su l’Officina, nel 1957, quando parla di riadozione dei modi stilistici prenovecenteschi. Infatti nessun altro poeta di quel tempo ebbe l’intuizione di riproporre e ritornare alla terzina dantesca pascoliana perché tutti pensavano a una ricerca neo realistica e quindi sul presente e non sul passato.
Questo nuovo modo di poetare mi fa dire che Pasolini fu un poeta eccezionale che lo portò ad essere “un caso speciale” di poeta e può essere anche definito “il poeta maledetto italiano per antonomasia” alla Rimbaud.
Secondo me, Biagio Carrubba, la vera novità del poemetto Le ceneri di Gramsci è che Pasolini non solo non rinnega il suo entusiasmo per Gramsci, come invece sostiene Vincenzo Cerami, nell’opera Letteratura Italiana – Einaudi Editore – IV Volume – Pag. 658, che scrive: “In questo poemetto centrale il poeta <> la militanza politica con un drammatico interrogativo”; ma la novità più importante è che il poemetto inaugura in Italia una poesia omoerotica (non esplicitamente manifestata ma comunque chiara per chi lo conosceva personalmente e per gli altri lettori che riescono a leggere bene tra i versi). Infatti tutta la quinta lassa è dedicata a giovani che chiamano altri giovani, e a giovani con il sesso maschile gonfio, e non si parla per niente di amore etero sessuale; oltre a parlare della sua vita omosessuale, Pasolini alla fine della V lassa, all’auto-domanda “mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?” si risponde che lui non abbandonerà la sua vita omoerotica ma la seguirà ancora. Dunque la vera novità delle Ceneri di Gramsci non sta nel Pasolini “poeta civile” ma nel Pasolini “poeta omoerotico”; quindi con questo poemetto, Pasolini apre la via a una poesia effettivamente nuova, omoerotica, rispetto al panorama poetico italiano fatto di amore tradizionale e di altri temi generali accettabili alla mentalità italiana dell’epoca.
Invece secondo me la maggiore e più importante novità del poemetto consiste nel fatto che Pasolini parla della sua omosessualità (accettabile) che sconfina nella sua pedofilia (inaccettabile). Infatti tutta la quinta lassa, Pasolini la dedica alla descrizione della sua vita omoerotica e al suo peccato inconfessabile espressa ed esplicitata tra le righe del poemetto, ma non confessabile alla società italiana degli anni ’50 piena di pregiudizi e ancora legata al concetto tradizionale dell’amore e del sesso.
Ma nelle opere successive Pasolini confermerà sempre più manifestamente, nelle sue opere poetiche, la sua vita omoerotica.
Quindi alla domanda finale della VI lassa, “Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/, potrò mai con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?”, versi che molti critici hanno avuto difficoltà ad interpretare dato che la nostra storia ha un significato polivalente e ambiguo (Pasolini, Gramsci), io, Biagio Carrubba, credo che l’unica risposta possibile sia questa: io, Pasolini, non potrò seguire Gramsci nel suo ideale politico e filosofico, data la vuotezza del tempo, ma seguirò la mia vita sessuale omoerotica perché corrisponde alla mia originalità e alla mia diversità fondamentale.
Deduco questa risposta dalla VI lassa nei versi 256 – 265:
Quanto più è vano
– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende.
IV
Testo del poemetto
Le ceneri di Gramsci (Testo del poemetto).
I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia
con cieche schiarite … questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…
Tu, giovane Gramsci, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;
quanto meno sventato e più impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano
delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi? che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera
rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
– familiari da latitudini e
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
smeraldi: <> – le pie
invocazioni….
III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso, l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci…Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso…povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza.
IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione,
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
V
Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale….
altri vizi esso ha, altro è il nome
e la fatalità del suo peccare.
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza…e ironico ardore
liberale…. e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infinite minuzie
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia…Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza! vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona
Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica
e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro….
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
d’erba saetta in cui si stampa chiaro
il nocciòlo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa…Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
del mare…. E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
in luride spiaggette…
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VI
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa diventare, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
e assoluto. E (tu Pasolini) senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido,
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo con ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano
– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina…Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra le casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
È un brusio la vita, e questi persi
in essa la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce…. Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
Parafrasi del poemetto
Le ceneri di Gramsci.
I
Questa aria fosca non è di una giornata (primaverile) di maggio,
ma è un’aria autunnale che rende il cimitero inglese
ancora più buio, o lo abbaglia
con improvvisi fulmini…questo cielo
di nuvole basse con cerchi di grandi dimensioni
vela gli attici gialli e le anse del Tevere e
i monti color turchino del Lazio….
Questo maggio autunnale sparge una mortale noia,
triste come sono i nostri destini,
tra le vecchie mura della città.
In questo maggio si trova il tedio del mondo,
e tra le macerie si trova la fine
del decennio nel quale noi avevamo riposto
le speranze e lo sforzo di rifare la vita;
si trova il silenzio, bagnato e infecondo….
Tu, giovane Gramsci, nel tuo maggio
credevi di rinnovare l’Italia forse eri in errore,
ma almeno aggiungevi forza e passione;
tu eri meno sventato e più sano dei nostri padri
– ma tu non eri nostro padre –
eri semplicemente un nostro umile fratello
che progettavi il nostro ideale per illuminare
il nostro presente (ma non sarà per noi,
morti come te nel cimitero).
Non puoi più guidarci. Lo vedi
sei sepolto in questo cimitero
come fossi ancora confinato
tra gente straniera.
Una noia estranea ti circonda.
E solo qualche colpo di incudine basso
ti giunge dalle officine del Testaccio
che è in dormiveglia nel pomeriggio:
dove un giovane vizioso (Pasolini) tra miseri tetti
tra nudi mucchi di latta e ferrivecchi
chiude la sua giornata, mentre intanto finisce di piovere.
II
Tra questi due mondi (i vivi e i morti)
noi non viviamo nella tregua.
Dobbiamo fare scelte, mentre i morti
di questo cimitero non sentono altri suoni
che attutiscono la vita che resta nella morte.
Le laiche iscrizioni della gente laica
delle tombe non fanno che mostrare
la sorte di ciò che è rimasto di queste tombe
fatte di grigie pietre, maestose e piccole.
Le ossa di questi ricchi inglesi mandano
l’olezzo di passioni sfrenate che non
fanno più scandalo.
Le parole di questi nobili aleggiano
in queste tombe i cui corpi sono
ormai inceneriti dentro le urne.
Qui il silenzio (del Parco) fa fede di uomini
rimasti uomini e fa fede di una noia
che cambia nel silenzio del cimitero.
E la città che confina con il cimitero,
in mezzo a tuguri e a chiesette,
dà la sua terra grassa al cimitero
dove crescono questi magri cipressi,
dà questa nera umidità che macchia
i muri intorno, vicino a smorti ghirigori di bossi
che la sera rende bui in mezzo
al profumo di alghe…. fa crescere
questa erbetta secca e senza odore
e dove il cielo si sprofonda portando un odore
di menta e di fieno marcio, e dove l’attesa della
notte si confonde con la malinconia del giorno.
Il suolo trasuda umidità e risuonano
pie invocazioni come se provenissero lontano
da selve inglesi e da praterie verdi, come smeraldi.
III
Sopra la tua tomba c’è uno straccetto rosso,
uguale a quello che i partigiani stringevano al collo,
e sopra il terreno grigio, ci sono due gerani
rossi di due tonalità diverse.
Tu, Gramsci, stai sepolto lì messo al bando
e fai parte dei sepolti inglesi.
Si legge: Le ceneri di Gramsci.
Io, tra speranza e sfiducia, ti vengo vicino,
capitato qui per caso e mi fermo dinnanzi
alla tua tomba, davanti al tuo spirito
rimasto quaggiù libero tra questi liberi.
(Oh il mio spirito è diverso dal tuo,
forse, più giovanile e più infervorato.
ma anche più semplice;
giovane sintesi di sesso e di morte).
E dall’Italia dove la tua vita non ebbe pace
capisco quale torto – qui in questa quiete –
e quale ragione – nell’inquieta sorte nostra –
avevi quando scrivevi le tue pagine ultime
durante la tua lunga prigionia.
E questi morti mostrano ancora il seme
del loro antico dominio e mostrano
il loro antico abominio e la loro grandezza:
e insieme a te io (Pasolini) sento il suono vibrante dell’incudine
che arriva in sordina soffocato e accorante
che attesta la fine del lavoro.
Ed ecco qui me stesso povero
vestito con abiti che i poveri
adocchiano e comprano in negozi rozzi.
Ed ho perso la polvere delle strade e dei sedili dei tram,
dai quali la mia vita si abbruttisce sempre di più
mentre faccio fatica a mantenermi e ho sempre meno vacanze;
e se mi accade di amare il mondo
non è che per il mio ingenuo e sensuale amore,
così come da fanciullo lo odiai,
quando il male borghese feriva
me borghese: e ora che ho scisso – con te –
il mondo, esso non mi appare più
oggetto di rancore né di mistico disprezzo
e non odio la parte che ne ha il potere?
Eppure vivo anche senza il tuo rigore (morale e intellettuale)
perché non scelgo tra le due parti. (borghesia e sottoproletariato).
Dopo il dopoguerra vivo perché non scelgo:
amo ciò che odio – il proletariato delle borgate,
sprezzante e perso,
perché mi porto appresso
lo scandalo nella mia coscienza.
IV
Lo scandalo del contraddirmi:
di seguire te con la mente e nel cuore
di essere contro te nell’istinto e nell’inconscio;
mi sento traditore della borghesia
– nel pensiero e non nella pratica –
sono attaccato ad essa nel calore
dei miei istinti e per una passione di bellezza.
Mentre sono vicino alla vita proletaria
già nata prima di te; la sua vitalità è
per me la mia religione; non è la sua millenaria
lotta a me vicino, ma la sua natura di popolo;
la sua coscienza non è la mia religione
ma lo è la sua forza originaria, che si è persa nella storia,
a darle il fervore della nostalgia
e la sua poetica; e di essa non so dirne altro
perché se dicessi altro sarei giusto
ma non sincero, sarebbe un lodare astratto,
ma non sarebbe sincera simpatia.
Io, povero come i poveri, mi affeziono
alle mie umilianti speranze; ogni giorno
mi batto, come loro, per vivere.
Ma nella mia desolante condizione
di diseredato io possiedo la cultura borghese
che è il bene più prezioso dei beni borghesi.
Ma come io capisco la storia
essa mi possiede; ne sono assorbito.
E allora a che serve capire, sapere e avere la luce?
(della conoscenza in questo silenzio, fradicio e infecondo).
V
Non parlo di me come uomo illuminato
invece parlo del mio lato sensuale e sentimentale
perché egli (Pasolini) ha altri vizi
Il suo peccato ha un nome ben preciso (omosessualità)
egli ha vizi prenatali e comuni
impastati con altri
e ha uno specifico vizio! I suoi atti intimi ed esterni
che lo fanno attaccato alla vita non sono influenzabili
dalle religioni che preservano dalla morte
che sono istituite per offuscare la verità
e per ingannare la luce, perché
le illusioni delle religioni ingannano sulla vera realtà della morte.
Le sue spoglie sono destinate a essere
seppellite al Verano;
insieme con le ossa, la sua lotta è cattolica:
le sue manie sono subdole, la sua coscienza ha astuzie sacre;
il suo ardore ironico è liberale
ha vizi da dandy e una salute provinciale
ha una coscienza di minuzie e nel suo fondo animale
l’autorità e l’anarchia sfumano.
È ben protetto da una virtù peccaminosa
e da un peccare effervescente,
difende la sua ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza, egli vive il proprio io;
io (Pasolini), sfuggendo la vita, vivo
con un senso di vita accorante e violenta.
Ah, io condivido molto bene nel muto brusio del vento
in questo cimitero, dove Roma è muta tra i cipressi
ripetutamente sconvolti dal vento, l’anima
nella cui lapide si legge Shelley, presso te Gramsci.
Apprezzo e condivido il vortice
dei sentimenti e il capriccio del nobile inglese
che fu inghiottito nel mar Tirreno da una cieca tempesta.
Capisco la sua gioia e terrestre avventura,
bella e giovanile: mentre l’Italia piegata come dentro
il ventre di un’enorme cicala spalanca le sue bianche coste
sparse nel Lazio piene di foreste di pini
e di giallognole radure di ruchetta dove un giovane ciociaro
dorme con il membro gonfio tra i pantaloni un sogno goethiano.
L’Italia spalanca i suoi litorali bianchi anche
nella maremma toscana piena di stupendi boschi
di erba saetta, in cui cresce chiaro il nocciolo, e il buttero
riempie i viottoli della sua gioventù inconsapevolmente.
L’Italia spalanca i suoi litorali bianchi anche
le coste fragranti e asciutte della Versilia, che
incupita sul Cinquale, distesa sotto le aride Apuane
espone i marmi lucidi e le pietre colorate lievi
della sua festiva campagna pienamente popolata,
espone i vetri blu del mare sul rosa delle rocce.
L’Italia è piena di gli scogli e di frane sconvolte
da un panico di fragranza nella riviera molle
ed erta dove il sole lotta con la brezza per rendere soave
la schiuma del mare.
E tutto intorno alla Versilia, uno sterminato
strumento a percussione di sesso e di luce,
gira con gioia attorno ad essa.
E l’Italia, ne è talmente assuefatta, che non ne ha paura
come rassegnata nella sua vita:
alcuni giovanetti scuri di faccia gridano da caldi
e molti porti il nome del compagno in mezzo
alla gente di mare, presso orti di ortaggi spinosi
e da luride spiaggette.
Tu, Gramsci, spoglio e solitario, insisti ancora
nel chiedermi di abbandonare la mia vita (omoerotica),
piena di disperata passione nel mondo?
VI
Me ne vado, ti lascio nella sera,
la quale, benché triste, scende dolce
fra gli uomini e la sua luce grigia
fa vivo il quartiere in penombra,
e lo risveglia, lo fa più grande e più vuoto
e lo riaccende tutto intorno
di una vita smaniosa la quale fa
con il roco brusio dei tram con la
parlata in dialetto un concerto fioco e
assoluto. E tu, Pasolini, senti
come quegli uomini gridano, ridono
nei loro veicoli, nelle loro case
dove si consuma l’infedele ed
espansivo dono dell’esistenza-
e senti come la vita non è che un brivido,
senti che la vita è una corporea collettiva presenza;
senti che in essa non c’è una vera religione;
che non c’è una vera vita,
ma c’è solo sopravvivenza
– forse più lieta della vita –
uguale a quella di un popolo di animali
che nel loro massimo piacere
non hanno altro che la passione
per il loro quotidiano operare:
umile piacere a cui dà un senso di festa
l’umile corruzione.
Quanto più è vano ogni ideale (politico – culturale)
– in questo momento vuoto della storia
– in questa ora del pomeriggio nella quale la vita tace
allora la stupenda e ardente sensualità del popolo
quasi raffinata, che tutto brucia e accende
tanto meglio si manifesta,
mentre nel mondo tutto crolla
(gli ideali e le speranze di rifare l’Italia)
e si trascina tutto nella penombra…
e il popolo rientra in vuote piazze e in vuote officine…
Già le luci delle strade si accendono e illuminano
via Zabaglia, via Franklin, l’intero
Testaccio, spoglio tra il suo grande
squallido monte, il lungotevere, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
fa sparire nel cielo.
Vedo le luci colorate che si perdono,
luci smaglianti e fredde come l’acqua
marina… Manca poco alla cena.
Vedo i rari autobus del quartiere risplendono
con grappoli di operai appesi agli sportelli,
e gruppi di militari che vanno, senza fretta,
verso il monte che nasconde in mezzo
alla terra fradicia e a mucchi di immondizia,
nell’ombra prostitute rifugiate nelle tane
che aspettano adirate sopra la sporcizia
erotica; e, non lontano, ci stanno alcuni ragazzi
che giocano nella brezza primaverile, non più fredda
che giocano in mezzo a palazzi e tra casette abusive;
anche altri adolescenti bruni pieni di ardente
sventatezza giovanile fischiano nella sera romanesca
sopra i marciapiedi nella serata allegra;
si sentono le saracinesche sbattere di schianto
quando il buio rende la sera serena,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento soffia dolcemente con tremiti di bufera
e, passando sopra i cocci
e i tufi del Macello, si riempie
di sangue marcio e, passando per ogni dove,
solleva il lezzo dei rifiuti e l’odore della miseria.
La vita è un brusio. E questi giovani persi
nella vita, la perdono serenamente
se hanno il cuore gioioso:
eccoli, miseri a godersi la sera; e potentemente
in essi il mito della gioventù rinasce….
Ma io che ho la chiara coscienza
di chi sa che la sua vita è nella storia
come potrò vivere con la pura passione
se so che la nostra storia è finita?
A questa domanda apparentemente retorica la risposta secondo me è:
Non voglio vivere mai senza la mia passione erotica e particolare perché so che la nostra storia ideale, illuminata, utopica, socialistica, è finita e perché ho capito che non è più possibile realizzarla presto e quindi mi tengo la mia vita terrena, passionale, concreta e vitale.
Modica 25/06/2018 Prof. Biagio Carrubba
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