
Epigrafe
“Se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo”
di Pier Paolo Pasolini. (Dai Meridiani – Tutte le poesie – vol. II pag. 249).
Introduzione al poemetto La Realtà
in Poesia in forma di Rosa di P.P. Pasolini
Il poemetto La Realtà fu scritto da Pasolini nel 1962 e fa parte della raccolta Poesia in forma di Rosa (1961-1964). Pasolini pubblicò la prima edizione nell’aprile del 1964 e la seconda edizione nel giugno dello stesso anno, apportando alcune importanti modifiche. Nell’edizione di giugno manca la sezione numero 4 che aveva il titolo Il libro delle croci, ed altre modifiche non sostanziali. Nella seconda edizione, (giugno 1964) il libro è composto da sette parti più un’appendice. Le sette sezioni del libro sono: I LA REALTA’, II POESIA IN FORMA DI ROSA, III PIETRO II, IV UNA DISPERATA VITALITA’, V ISRAELE, VI L’ALBA MERIDIONALE, VII PROGETO DI OPERE FUTURE. APPENDICE (1964). VITTORIA.
La prima parte ha per titolo La Realtà ed è composta da 7 componimenti poetici che sono: 1) Ballata delle madri, 2) La Guinea, 3) Poesie mondane, 4) Supplica a mia madre, 5) La ricerca di una casa, 6) Il sogno della ragione, 7) La Realtà.
Questa prima parte è composta da poesie brevi, da poesie monostiche e da poemetti come La Realtà che dà il titolo all’intera parte e la chiude.
Testo del poemetto.
La realtà
Oh, fine pratico della mia poesia!
Per esso non so vincere l’ingenuità
che mi toglie prestigio, per esso la mia
lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!
A questo mi son ridotto: quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando
a ogni antica mia dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna, e stanca e vitale
riflette la mia lingua una fantasia
di figlio che non sarà mai padre…
Pian piano intanto ho perso la mia compagnia
di poeti dalle facce nude, aride,
di divine capre, con le fronti dure
dei padri padani, nelle cui magre
file contano soltanto le pure
relazioni di passione e pensiero.
Trascinato via dalle mie oscure
vicende. Ah, ricominciare da zero!
solo come un cadavere nella sua fossa!
E così, ecco questa mattina in cui non spero
che nella luce…Sì, nella luce che disossa
con la sua felicità primaverile
le giornate di questa mia Canossa.
Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile,
a confessarmi, inginocchiato,
fino in fondo, fino a morire.
Ci pensi questa luce a darmi fiato,
a reggere il filo con la sua biondezza
fragrante, su un mondo, come la morte, rinato.
Poi…ah, nel sole è la mia sola lietezza…
quei corpi, coi calzoni dell’estate,
un po’ lisi nel grembo per la distratta carezza
di rozze mani impolverate…Le sudate
comitive di maschi adolescenti,
sui margini di prati, sotto facciate
di case, nei crepuscoli cocenti…
L’orgasmo della città festiva,
la pace delle campagne rifiorenti…
E loro, con le loro facce vivide
o nere d’ombra, come di cuccioli lupi,
in pigre scorribande, in lascive
ingenuità…Quelle nuche! Quei cupi
sguardi! Quel bisogno di sorridere,
ora per i loro discorsi, un poco stupidi,
d’innocenti, ora come per sfida
al resto del mondo che li accoglie:
FIGLI. Ah, quale Dio li guida
così certi, qui lungo le strade più spoglie,
ai Castelli, alle Spiagge, alle Porte
della città, nelle previste, antiche voglie
di chi sa già che giungerà alla morte
dopo essere veramente vissuto:
che la vita che ha in sorte
è quella giusta, e nulla verrà perduto.
Umili, certo. E quello che sarà
il loro modo vile, poi, d’aver compiuto
se stessi (il loro destino è la viltà),
è ancora un albeggiare quasi
se sconosciuti alberi, in cui ha
la natura soltanto gemme, in una stasi
di purezza suprema, di coraggio.
Oh, certo, essi sono invasi
ormai dal male che ricevono in retaggio
dai padri – mia coetanea, nera razza.
Ma in che cosa sperano? Che raggio
di luce li colpisce, in quella faccia
dove l’attaccatura dei capelli
alla fronte, i ciuffi, le onde sono grazia
più che corporea? …Dolcemente ribelli,
e, insieme, contenti del futuro dei padri:
ecco che cosa li fa così belli!
Anche i torvi, anche i tristi, anche i ladri
hanno negli occhi la dolcezza
di chi sa, di chi ha capito: squadre
ordinate di fiori nel caos dell’esistenza.
In realtà, io, sono il ragazzo, loro
gli adulti. Io, che per l’eccesso della mia presenza,
non ho mai varcato il confine tra l’amore
per la vita e la vita…
Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui – ed accomuno,
in lui – visione d’amore infecondo
e purissimo – le generazioni,
il corpo, il sesso. Affondo
ogni volta – nelle dolci espansioni,
nei fiati di ginepro – nella storia,
che è sempre viva, in ogni
giorno, ogni millennio. Il mio amore
è solo per la donna: infante e madre.
Solo per essa, impegno tutto il cuore.
Per loro, i miei coetanei, i figli, in squadre
meravigliose sparsi per pianure
e colli, per vicoli e piazzali, arde
in me solo la carne. Eppure, a volte,
mi sembra che nulla abbia la stupenda
purezza di questo sentimento. Meglio la morte
che rinunciarvi! Io devo difendere
questa enormità di disperata tenerezza
che, pari al mondo, ho avuto nascendo.
Forse nessuno è vissuto a tanta altezza
di desiderio – ansia funeraria
che mi riempie come il mare la sua brezza.
I pendii, i colli, l’erba millenaria,
le frane di fiori o di rifiuti, i rami secchi
o lucidi di guazza, l’aria
delle stagioni con i loro muretti
vecchi o recenti al sole…tutto questo
nasconde me e (ridete!) gli amici giovinetti
immuni da ogni atto disonesto
perché senza tragedia il loro desiderio:
perché il loro sesso integro, fresco.
Non potrei, altrimenti. Solo se leggero,
dentro la norma, sano, il figlio
può farmi nascere il pensiero
scuro e abbacinante: così solo gli somiglio
nella verifica infinita di un segreto
ch’è nel suo grembo impuro come un giglio.
E mille volte questo atto è da ripetere:
perché, non ripeterlo, significa provare
la morte come un dolore frenetico,
che non ha pari nel mondo vitale…
Non lo nascondo, se nulla ho mai nascosto:
l’amore, non represso, che mi invade,
l’amore di mia madre, non dà posto
a ipocrisia e viltà! Né ho ragione
per essere diverso, non conosco
il vostro Dio, io sono ateo: prigione
solo del mio amore, per il resto libero,
in ogni mio giudizio, ogni mia passione.
Io sono un uomo libero! Candido cibo
della libertà è il pianto: ebbene piangerò.
È il prezzo del mio “libito far licito”,
certo: ma l’amore vale tutto ciò che ho.
Sesso, morte, passione politica,
sono i semplici oggetti cui io do
il mio cuore elegiaco…La mia vita
non possiede altro. Potrei domani,
nudo come un monaco, lasciare la partita
mondana, cedere agli infami,
la vittoria…Non avrebbe perso
nulla, certamente, la mia anima!
Ché la fatalità di essere esistenza
inalienabile, razza, universo,
basta a chiunque: anche se al mondo è senza
fraternità, perché diverso.
Perciò le risa e le illusioni
dei poveri razzisti, scorrono attraverso
la sua realtà come dei suoni
non reali, di morti. Nel mio essere,
questa realtà hanno sesso e passioni…
E, certo, non ne ho gioia. Ossesse
ne sono le sue predestinate forme:
“le repressioni fanno di me un Esse Esse,
o un mafioso…” e io – è enorme,
lo so – lo sono: giovane figlio candido
santo barbaro angelo, le orme
calcai, per qualche tempo, che mandano
alla Rivolta Reazionaria
(fu in epoche infime del grande
itinerario di una vita in Italia),
carnefice biondo, o killer colore
del fango, seguace…del sanguinario
borghese Hitler, o del forte figliolo
di poveri Giuliano… – conformismo
che mi salvava, come un volo
cieco. Tutto ciò non fu che crisma,
ombra che disparve dalla mia vita.
Rimase l’inclinazione allo scisma:
un naturale bisogno di farmi male alla ferita
sempre aperta. Un configurare
ogni rapporto col mondo che a sé m’invita,
al rapporto del mio figliale
sadismo, masochismo: per cui non sono nato,
e sono qui solo come un animale
senza norme: da nulla consacrato,
non appartenente a nessuno,
libero d’una libertà che mi ha massacrato.
Onde non io, ma colui che comunico,
trae la disperata conclusione,
di essere il reietto di un raduno
di altri: tutti gli uomini, senza distinzione,
tutti i normali, di cui è questa vita.
E cerco alleanze che non hanno altra ragione
d’essere, come rivalsa, o contropartita,
che diversità, mitezza e impotente violenza:
gli Ebrei…i Negri…ogni umanità bandita…
E questa fu la via per cui da uomo senza
umanità, da inconscio succube, o spia,
o torbido cacciatore di benevolenza,
ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.
La strega buona che caccia le streghe
per terrore, conobbe la democrazia…
Non fu un dono del cielo! Le atroci leghe
coi compagni virili inconsci ricattatori,
le risa con cui il mostro diede
dimostrazione di calma salute e sicuri amori,
pronto a torturare e uccidere altri mostri
pur di non essere riconosciuto – tutto fu fuori
d’improvviso da me (e vi si riconoscano
ora coloro che mi odiano, fatto pubblico,
i poveri fascisti), una sera, tra boschi
cedui, chissà, tra macchie indissolubili
di viole sulle prode, tra vigneti o lumi
serali di villaggi, sotto vergini nubi,
(nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi) …
A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
più grande il terrore della realtà e della solitudine,
di quello della società. Amara gioventù,
preda di quella immedicabile coscienza
di non esistere, che ancora è la mia schiavitù…
Ché io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l’esperienza
che accomuna gli uomini, e dà loro
un’idea così dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell’amore!
Come un cieco: a cui sarà sfuggita,
nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa, – luce seguita
senza speranza, e che a tutti sorride,
invece, come la cosa più semplice del mondo –
una cosa che non potrà mai condividere.
Morirò senza aver conosciuto il profondo
senso d’esser uomo, nato a una sola
vita, cui nulla, nell’eterno, corrisponde.
Un cieco, un mostro, in vita, non consola
mai niente davvero: ma al punto irrimediabile
e vergognoso, nel terrore dell’ora
in cui tutto è stato – egli sarà una cavia
neanche più un uomo! Assurdo
– da non poterlo sopportare, e gridare di rabbia,
e mugolare, come una bestia, il cui urlo
è l’urlo di un innocente che protesta
contro un’ingiustizia di cui è trastullo –
è questo ordine prenatale, questa
predestinazione, in cui egli non c’entra,
che nulla ha a che fare con la sua onesta
antica anima…Dentro i ventri
delle madri, nascono figli ciechi
– pieni di desiderio di luce – sbilenchi
– pieni d’istinti lieti:
e attraversano la vita nel buio e la vergogna.
Ci si può rassegnare – e i feti
viventi, povere erinni, possono in ogni
ora della loro vita, tacere o fingere.
Gli altri dicono sempre che non bisogna
essergli di peso. Ed essi obbediscono. Si tinge
così tutta la loro vita di un colore diverso.
E il mondo – il mondo innocente! – li respinge.
……………………………………..
Ma io parlo…del mondo – e dovrei,
invece – parlare dell’Italia, e anzi,
di una Italia, di quella di cui sei,
con me, destinatario dei miei versi, figlio:
fisica storia in cui ti circostanzi.
L’ho chiamato “innocente”, il mondo, io,
io, in quanto cieco, figlio martoriato.
Ma se guardo intorno questi avanzi
d’una storia che da secoli ha dato
soltanto servi…questa Apparizione
in cui la realtà non ha altro indizio
che la sua brutale ripetizione…
che scena…espressionistica! Penso a un giudizio
subìto senza senso…le toghe…le tristi autorità del Sud…
dietro i visi dei giudici – in cui il vizio
è un vizio di dolore, che denuda
ambienti miserandi – non si leggeva che impotenza
a uscire da un’oscura realtà di parentele, da una cruda
moralità, da una provinciale inesperienza…
Quelle fronti da Teatro dell’Arte,
quei poveri occhi di obbedienti onagri
intestarditi, quelle orecchie basse,
quelle parole che per mascherare
il vuoto si gonfiavano a recitare una parte
di paterna minaccia, di indignazione floreale!
Ah, io non so odiare: e so quindi che non posso
descriverli con la ferocia necessaria
alla poesia. Dirò solo con pietà di quella faccia
di calabrese, con le forme del bambino
e del teschio, che parlava dialettale
con gli umili, scolastico coi grandi.
Che ascoltava attento, umano,
e intanto, negli ineffati e nefandi
fori interiori, covava il suo piano
di timido che il timore fa spietato.
Ai lati, altre due facce ben riconoscibili,
facce che per strada, in un bar affollato,
sono le facce deboli, poco sane,
di precoci invecchiati, di malati
di fegato: di borghesi il cui pane
certo non sa di sale, non ignobili, no,
non prive affatto di sembianze umane
nel pungente nero degli occhi, nel pallore
delle fronti martoriate dalla prima
feroce anzianità…Un quarto inviato del Signore
– certo ammogliato, certo protetto da un giro
di rispettabili colleghi nella sua città
di provincia – rappreso in un sospiro
di malato nei visceri o nel cuore –
se ne stava in un banco isolato: come sta
chi si prepara a un premeditato disamore.
E davanti a questi, il campione: colui che ha
venduto l’anima al diavolo, in carne e ossa.
Classico personaggio! Avevo visto la sua faccia
alcuni mesi avanti: ed era un’altra:
la faccia di un giovanotto di grana grossa,
campagnola, stempiato e smunto
dalla dignità professionale.
Ora una vampa lo deformava:
come una vecchia crosta rossa
sopra la pelle. La luce prava
degli occhi era quella di chi è in colpa.
Il suo odio per la mia persona era l’odio
per l’oggetto di quella colpa, ossia
l’odio verso la sua coscienza.
Non era abbastanza disonesto. La fantasia
non basta a immaginare un’esperienza
di ignoranza e ricatto. La borghesia
è il diavolo: vendergli l’anima senza
contropartita? Oh, certo no: bisogna
adottare la sua cultura, recitare
come un Pater Noster la vergogna
dell’esordio puramente formale,
della clausola mistificatrice…
Ed essere retorici significa odiare,
essere incolti significa aver perso
deliberatamente ogni rispetto per l’uomo.
Il vecchio amore per l’ideale si riduce
a fingere disperatamente con sé stessi,
a credere in ciò che mentendo si dice.
Ma la luce dell’occhio rimane, ossessi
accusatori! Lì, in quella goccia di luce,
nello sguardo sfuggente, livido,
colpevole – era la vostra verità.
Al rapporto con voi mi conduce,
lo so, una mia interiore volontà:
ma questo è un segreto dell’io,
o Dio, come voi dite. A voi si dirà:
“Voi non contate, siete simboli
di milioni di uomini: d’una società.
Questa mi condanna, non voi, suoi automi.
Ebbene: sono felice della mia mostruosità.
O vogliamo ingannare lo spirito? Uomini
che condannano uomini in nome del nulla:
perché le Istituzioni sono nulla, quando
hanno perso ogni forza, la forza fanciulla
delle Rivoluzioni – perché nulla
è la Morale del buon senso, di una
comunità passiva, senza più realtà.
Voi, uomini formali – umili
per viltà, ossequianti per timidezza –
siete persone: in voi e in me, si consumi
il rapporto: in voi, di arido odio,
in me, di conoscenza. Ma per la società
di cui siete inespressivi rapsodi,
ben altro io ho da dire: non da marxista
più, o ancora, ma, per un momento
– se il rapimento degli Autori
dell’Apocalisse affabula in un fuoco
che non ha tempo: I miei amori –
griderò – sono un’arma terribile:
perché non l’uso? Nulla è più terribile
della diversità. Esposta ogni momento
– gridata senza fine – eccezione
incessante – follia sfrenata
come un incendio – contraddizione
da cui ogni giustizia è sconsacrata.
Ah negri, Ebrei, povere schiere
di segnati e diversi, nati da ventri
innocenti, a primavere
infeconde, di vermi, di serpenti,
orrendi a loro insaputa, condannati
a essere atrocemente miti, puerilmente violenti,
odiate! straziate il mondo degli uomini bennati!
Solo un mare di sangue può salvare,
il mondo, dai suoi borghesi sogni destinati
a farne un luogo sempre più irreale!
Solo una rivoluzione che fa strage
di questi morti, può sconsacrarne il male!”
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca – la cui forza
è nella sua degradante diversità.
Solo detto questo, o urlato, la mia sorte
si potrà liberare: e cominciare
il mio discorso sopra la realtà.
Sintesi schematica
Il poemetto La Realtà presenta questa sintesi schematica:
- Preambolo: versi 1 – 33; Valore pragmatico della poesia: perdita dei suoi amici poeti padani.
- I tema: versi 34 – 130; Attrazione e amicizia verso le sudate comitive di maschi adolescenti.
- II tema: versi 131 – 165; Descrizione della sua indole: libertaria, libertina, volitiva e volubile.
- III tema: versi 166 – 174; Ritorno alla sua giovinezza conformista e fascista.
- IV tema: versi 175 – 195; Ritorno al presente e alla sua diversità sessuale e culturale e la differenza con tutti i normali e la ricerca di altri diversi come gli ebrei, i negri e ogni umanità bandita.
- V tema: versi 196 – 201; La strada della salvezza, cioè la poesia.
- VI tema: versi 202 – 219; Ricordo della sua fanciullezza e della sua identità “di diverso” e la sua accettazione di essa contro i pregiudizi della società.
- VII tema: versi 220 – 246; La consapevolezza della sua perdita dell’amore etero sessuale e la sua vita di cieco a cui non può sottrarsi e sa che non può sfuggire al suo destino assurdo.
- VIII tema: versi 247 – 258; Solidarietà per le sofferenze degli infelici e dei figli ciechi.
II Parte
- IX tema: versi 259 – 271; Descrizione dell’Italia che ha prodotto, soltanto, servi e scene espressionistiche.
- X tema: versi 272 – 309; Descrizione dei giudici di un processo contro di lui.
- XI tema: versi 310 – 346; Descrizione del pubblico ministero che ha accusato il poeta e lo ha trascinato in tribunale dove si è svolto il processo a carico del poeta che si è dovuto difendere dalle gravi accuse contestategli.
- XII tema: versi 347 – 387; Arringa e accusa del poeta contro i giudici definiti “umili per viltà e ossequienti per timidezza”; Incitamento ai negri e agli ebrei di odiare il mondo dei borghesi e di fare la rivoluzione solo la quale può cambiare la società borghese. E liberare dai pregiudizi e dall’odio i diversi e gli “eterodossi”.
- XIII tema: versi 388 – 397; L’appello finale del poeta come profeta che sa che soltanto nella sua diversità trova la sua forza con la quale urlare e così liberare la sua sorte per cambiare la realtà.
Sintesi riduttiva
Preambolo (versi 1 – 33)
Nel preambolo, Pasolini chiarisce alcuni punti preliminari a sé stesso come il concetto di poesia che, come in questo caso, non è l’espressione dei suoi sentimenti, ma è lo strumento che usa per difendersi dagli insulti degli altri. Intanto, però, per la vita disperata che conduce, perde anche il contatto con i suoi amici poeti padani ed infine introduce il primo tema del poemetto.
Primo tema (versi 34 – 130)
Nel primo tema, Pasolini dichiara il suo amore e la sua simpatia per le comitive di maschi adolescenti, per i quali il poeta nutre un’attrazione fisica alla quale non sa rinunciare. Egli descrive i ragazzi come gioiosi, ribelli e belli, ma fa una grande distinzione tra l’amore platonico, tutto per la madre, e l’attrazione fisica per i suoi coetanei sparsi in tutta Italia per i quali “arde in me solo la carne” e verso i quali nutre il nascosto desiderio di amori impuri. Il poeta afferma che non compiere questo atto sessuale è come provare un “dolore frenetico“.
Secondo tema (versi 131 – 165)
Nel secondo tema, il poeta si auto descrive e descrive la sua indole, che ha come caratteristiche principali l’essere libertino, libertario, volitivo e volubile. Inoltre per Pasolini le cose più bella della sua vita sono: sesso, morte e passione politica, a cui non sa rinunciare.
Terzo tema (versi 166 – 174)
Nel terzo tema, Pasolini parla un po’ della sua gioventù conformista e fascista.
Quarto tema (versi 175 – 195)
Nel quarto tema, Pasolini ritorna al presente e si compiace del suo sadismo e masochismo, della sua libertà e si sente di essere un reietto diverso da tutti gli uomini “normali“, per cui lui cerca tutti gli uomini diversi ed emarginati come lui e quindi nomina gli “ebrei, i negri e ogni umanità bandita“.
Quinto tema (versi 196 – 201)
Nel quinto tema, Pasolini afferma che la via della salvezza che lo spinse a cercare alleanze con gli emarginati del mondo e alla salvezza, fu la poesia che lo porta a cercare la democrazia.
Sesto tema (versi 202 – 219)
Nel sesto tema, Pasolini rievoca tutta la sua fanciullezza e precisamente il periodo in cui nascose, dapprima, la sua diversità, e poi quando capì che non era più possibile nasconderla, perché si sentiva un mostro, una sera cercò altri giovani per dimostrare la sua indole. Dapprima nel Friuli, che era la sua regione d’origine, e poi in Emilia, dove frequentò l’Università, Pasolini afferma che a farlo apparire per quello che in realtà era, fu il terrore della solitudine, anziché quello degli uomini perché la sua perenne ossessione fu sempre quella di non essere considerato e di sentirsi escluso dagli altri.
Settimo tema (versi 220 – 246)
Nel settimo tema, il poeta si dispiace comunque di perdere l’amore normale, perché afferma che questa è sempre una bella esperienza che accomuna gli uomini tra di loro; comunque lui è costretto a vivere una vita da cieco e quindi non potrà condividere l’amore regolare e morirà da solo senza avere provato “il profondo senso di essere uomo“. Si scaglia contro il destino assurdo che lo fa essere trastullo di una ingiustizia e questa sua predestinazione è assurda e inspiegabile.
Ottavo tema (versi 247 – 258)
Nell’ottavo tema, il poeta descrive la sofferenza e l’infelicità degli uomini sfortunati, i quali nascono come i bambini normali dal ventre delle madri e provano desideri a quelli degli altri bimbi, ma in effetti “attraversano la vita nel buio e nella vergogna“. Pasolini conclude dicendo che questi infelici, nella loro vita, sono costretti a “tacere o fingere” perché i normali dicono che i figli ciechi non devono essere di peso a loro; i figli ciechi obbediscono e la loro vita si tinge di un “colore diverso“.
Seconda parte
Nono tema (versi 259 – 271)
Nel nono tema, Pasolini parla dell’Italia che ha dato soltanto servi e ha prodotto realtà espressionistiche, farsesche.
Decimo tema (versi 271 – 309)
Nel decimo tema, Pasolini porta come esempio di realtà farsesca un processo contro di lui e descrive i giudici del processo. Prima parla del Presidente della Corte che parlava in maniera dialettale con gli umili e forbito con i grandi; poi descrive i due giudici a latere che mostravano facce deboli e segni di malattie di fegato; descrive inoltre un quarto giudice che se ne stava appartato nel suo banco.
Undicesimo tema (versi 310 – 342)
Nell’undicesimo tema, il poeta descrive in modo dettagliato il Pubblico Ministero, che presenta una faccia deformata, rossa, e mostra un odio contro il poeta e rappresenta la borghesia a cui lui ha venduto la sua anima. Il poeta nota negli occhi di tutti i giudici uno sguardo livido e colpevole contro di lui.
Dodicesimo tema (versi 343 – 387)
Nel dodicesimo tema, il poeta pronuncia un’arringa e un’accusa contro i giudici, i quali non sono altri automi della società, perché in realtà chi lo condanna è la società ma il poeta dichiara di essere felice della sua mostruosità perché non vuole ingannare la propria anima. Pasolini accusa i giudici che lo vorrebbero condannare nel nome di una istituzione che non vale nulla perché ha perso ogni forza e non esprime nessuna moralità. Rivolgendosi ai giudici li apostrofa chiamandoli “umili per viltà, ossequienti per timidezza“. Il rapporto con i giudici si consuma per l’odio che i giudici mostrano verso il poeta, mentre per Pasolini tutto questo è un rapporto di conoscenza. Il poeta conclude dicendo che lui non ha paura di mostrare tutta la sua diversità, perché è un’arma terribile contro la società borghese e quindi si ricollega, in quanto diverso, ai negri, agli ebrei di cui aveva parlato in precedenza per fare fronte comune contro la società borghese; a questo punto, Pasolini lancia il suo anatema contro la società borghese e spinge i reietti di tutto il mondo ad odiare i borghesi e a scatenare una rivoluzione per salvare il mondo e quindi togliere la possibilità ai borghesi di trasformare la loro vita sempre più irreale. “Solo una rivoluzione che fa strage/di questi morti, può sconsacrarne il male“.
Tredicesimo tema (versi 388 – 393)
Nell’ultimo tema, il poeta chiude il poemetto affermando che lui, che non ha la forza di uccidere una mosca, lancia questa profezia per trasformare la realtà borghese, perché, solo dopo che la rivoluzione avverrà, la sua sorte si potrà liberare e Pasolini potrà fare un nuovo discorso di fronte alla nuova realtà liberata dai pregiudizi borghesi.

Modica 05/ 07/ 2108 Prof. Biagio Carrubba
Modica 29 aprile 2023
Modica, 02 maggio 2023
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