LA MIA ANALISI E I MIEI COMMENTI AL LIBRO POETICO “LAVORARE STANCA” DI CESARE PAVESE.

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LAVORARE STANCA:
caratteristiche e novità importanti.

I
Introduzione

Cesare Pavese pubblicò l’opera poetica “LAVORARE STANCA” in due edizioni: la prima fu pubblicata nel 1936 e la seconda, quella definitiva, nel 1943. La prima edizione conteneva 45 poesie e la seconda 70. Le vicende editoriali delle due edizioni sono complesse e complicate e risentono delle difficoltà oggettive che Cesare Pavese ebbe nel far pubblicare la prima edizione. La prima edizione uscì a Firenze per conto della rivista Solaria. Sia Firenze che la rivista Solaria nel 1936 erano il centro dell’irradiazione dell’ermetismo ma già nella prima edizione di LAVORARE STANCA è evidente l’indirizzo neorealistico in aperta opposizione all’ermetismo. La prima edizione del 1936 non ebbe successo così come accadde alla seconda edizione del 1943, pubblicata in pieno periodo di guerra. La prima edizione non ebbe successo perché rappresentava un’opera troppo isolata e contrastante nel nascente panorama ermetico italiano. Anche la seconda edizione del 1943, pubblicata da Einaudi, non ebbe successo perché le preoccupazioni degli italiani erano rivolte alla guerra che era nel suo culmine. La riscoperta e la rivalutazione di Lavorare stanca si ebbero soltanto dopo la morte di Pavese, avvenuta nel 1950. Il suicidio di Pavese attirò l’attenzione di molti critici non soltanto sulla prosa, sui racconti e sui romanzi pubblicati dal 1942 in poi ma attirò anche l’attenzione su Lavorare stanca che fu rivalutata e giudicata come premessa e nocciolo dei temi sviluppati nei romanzi successivi. Lavorare stanca raccoglie poesie scritte da Cesare Pavese tra il 1930 e il 1940 che risentono delle emozioni e dei sentimenti vissuti dal poeta in quel decennio. Le poesie sono divise in sei sezioni tematiche. Ogni sezione ha un suo titolo e contiene diverse poesie.
Questo lo schema sintetico delle sei sezioni e delle poesie di ogni sezione:
Prima sezione Antenati: Poesie da nr. 1 a nr. 11
Seconda sezione Dopo: Poesie da nr. 12 a nr. 26
Terza sezione Città in campagna: Poesie da nr. 27 a nr. 45
Quarta sezione Maternità: Poesia da nr. 46 a nr. 55
Quinta sezione Legna verde: Poesia da nr. 56 a nr. 62
Sesta sezione Paternità: Poesia da nr. 63 a nr. 70
La seconda edizione di Lavorare stanca contiene due scritti teorici nei quali Pavese illustra la genesi delle due edizioni dell’opera e ne spiega le differenze. I due scritti illustrano e spiegano le motivazioni che hanno portato Pavese a scrivere le poesie aggiunte alla seconda edizione che sono nettamente e prevalentemente di poetica ed orientamento simbolico e non ermetico. Il primo scritto è “Il mestiere di poeta” del 1934 e il secondo è “A proposito di certe poesie non ancora scritte” del 1940. Nel riordino della seconda edizione Pavese cerca di dare alle sue poesie un ordine cronologico per sezione con rare eccezioni. Tra queste è evidente che le tre poesie dedicate e inspirate a Fernanda Pivano sono consecutive tra di loro ma non rispettano l’ordine temporale cronologico della sezione perché, scritte nel 1940, sono state inserite tra poesie del 1937 e del 1933. Io, Biagio Carrubba, ho notato un’altra distinzione tra le poesie scritte da Pavese e raccolte nelle due edizioni di Lavorare stanca:
1. Poesie scritte prima del confino di Pavese (1930 – 1935).
2. Poesie scritte durante il confino (agosto 1935 – marzo 1936)
3. Poesie scritte dopo il confino (1936 – 1940)
Da questa suddivisione è evidente che le poesie del primo periodo sono nettamente neorealistiche; quelle del secondo periodo sono poesie intimiste, personali e rievocative. Le poesie scritte dopo il confino sono prevalentemente personali e simboliche. Pavese nell’appendice “Il mestiere di poeta” spiega la genesi delle poesie del periodo prima del confino (1930 – 1935). Pavese definisce queste poesie come “poesie racconto” e ne illustra, in sintesi, le caratteristiche: “I mari del Sud, che viene dopo questa naturale preparazione, è dunque il mio primo tentativo di poesia-racconto e giustifica questo duplice termine in quanto oggettivo sviluppo di casi, sobriamente e quindi, pensavo fantasticamente esposto. Ma il punto sta in quell’oggettività del divenire dei casi, che riduce il mio tentativo a un poemetto tra il psicologico e il cronologico…Era per salvare l’adorata immediatezza e, pagando di persona, sfuggire al facile slabbrato lirismo degli imaginifici (esageravo)”. (Lacerto tratto da Lavorare stanca – Giulio Einaudi Editore – Pagina 125). Le poesie scritte durante il periodo del confino hanno una impostazione personale, intimistica e rievocativa della vita personale del poeta che ormai si svolge a Brancaleone Calabro dove Pavese, triste, solitario e confinato ingiustamente, rievoca la sua vita precedente a Torino, che era laboriosa ed attiva, e ripensa con nostalgia al suo rapporto con la giovane amica con la quale aveva avuto un rapporto sentimentale, platonico. Questa sua amica, Battistina Pizzardo, laureata in matematica e, che aveva aderito al partito comunista era stata, in parte, causa del confinamento di Cesare Pavese. Le poesie scritte dopo il confino risentono della nuova situazione psicologia del poeta, più precaria ed instabile, ed esprimono una poetica simbolica come le famose tre poesie dedicate alla Pivano, nettamente simboliche ed intimiste.

II

Io, Biagio Carrubba, penso che una delle caratteristiche principali dell’opera “Lavorare stanca” sia che una buona parte delle poesie di Pavese esprimono i sentimenti e le emozioni del poeta stesso (l’adolescente che lascia la campagna). Molte altre poesie sono, invece, dedicate a uomini anonimi di cui Pavese tratteggia le caratteristiche personali ed esistenziali, salienti. Lavorare stanca è la raccolta poetica che descrive e racconta la storia di persone anonime che vivono la loro vita in piena autonomia e nell’anonimato e cercano di realizzare i propri desideri, anche minimi. Pavese mette in primo piano gli emarginati scegliendo i suoi personaggi tra figure di ubriachi, prostitute, giovani disoccupati e tra il popolo attivo come muratori, artigiani e contadini e di queste figure tratteggia i sentimenti, le aspirazioni, gli obiettivi ed il vissuto personale. Pavese descrive di ognuna di queste figure i desideri e i problemi che ognuno di loro vive in modo interiore, silenzioso e nascosto agli altri che non riescono a capire e conoscere i veri sentimenti di ognuno di questi personaggi. Io, Biagio Carrubba, penso che il titolo dell’opera, “Lavorare stanca”, vada interpretato come vivere stanca e cioè la vita è una continua lotta che non finisce mai ed è piena di sofferenza, soprattutto per le persone più umili e sfortunate. La vita alla fine stanca e logora senza un perché e senza un fine. Questa tesi si avvicina molto alla tesi e alla poetica di Leopardi. Nella seconda appendice, “A proposito di certe poesie non ancora scritte”, Pavese spiega molto bene la caratteristica formale dei personaggi di “Lavorare stanca”: “Definito Lavorare stanca come l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna a città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza – hai scoperto in questo canzoniere una coerenza formale che è l’evocazione di figure tutte solitarie ma fantasticamente vive in quanto saldate al loro breve mondo per mezzo dell’immagine interna”. (Lacerto tratto da Lavorare stanca – Giulio Einaudi Editore – Pagine 136 – 137). Io, Biagio Carrubba, penso che un’altra delle caratteristiche principali dell’opera “Lavorare stanca” sia il pessimismo storico di fondo di Pavese che trasmette, vede ed estrapola nella vita che vivono i suoi personaggi, emarginati, frustrati e insoddisfatti. Da ciò deriva il tono mesto, melanconico, triste e ripetitivo di molte poesie tutte dedicate a questi personaggi tristi, monotoni ed insoddisfatti della loro vita. I sentimenti tristi dei personaggi danno all’intera opera uno stile ripetitivo ed un tono monotono che fanno di “Lavorare stanca” un’opera poetica grave e greve tranne in alcune poesie che alleggeriscono la pesantezza dell’opera dandone un tono più spiritoso e ameno. Dal punto di vista politico, “LAVORARE STANCA” esprime un pessimismo storico perché si contrapponeva all’esaltazione e all’ottimismo che il fascismo imponeva a tutti gli italiani. Il fascismo, infatti, esigeva l’adeguata adesione al regime i cui valori esaltavano l’attivismo e l’ottimismo dell’ideologia fascista. Invece i temi delle poesie di Pavese, che descrivono questi personaggi infelici e tristi, sono molto lontani dall’ideologia esaltante del regime fascista. Il fascismo tollerava di più una poetica triste, seria e intimista come quella che in quegli anni veniva esaltata ed espressa dall’ermetismo di Ungaretti, Quasimodo, Montali ed altri. Ma a Firenze, molti intellettuali fascisti, nelle loro riviste letterarie criticavano l’intimismo e il personalismo dell’ermetismo stesso.
La maggioranza delle poesie di “Lavorare stanca” esprime la lotta continua, ogni giorno, di questi personaggi per sopravvivere nella società capitalistica e fascista del tempo. Ma in questo clima, triste e melanconico, Pavese riesce a tirare fuori, in qualche poesia, alcune immagini amene, bizzarre, atipiche, più scherzose, rispetto al resto dell’opera, triste, noiosa e ripetitiva.
In sintesi una conclusione dell’intera opera “Lavorare stanca” potrebbe essere questa.
1. La maggioranza degli uomini, medi, umili, frustrati e sfortunati lavora per mangiare e per scopare (infelici medi).
2. La minoranza degli uomini, ingegnosi, felici e fortunati mangia per lavorare e per fare l’amore (felici medi).
3. Inoltre c’è un’altra maggioranza ragguardevole di uomini e donne che vive per soffrire, per mangiare male e per vivere male e per fare un sesso saltuario e precario (infelici totali).

III

Un’altra caratteristica molto importante di Lavorare stanca è senza dubbio la novità della metrica e l’innovazione dei versi. Cesare Pavese, dopo molta meditazione sulla poesia tradizionale e sulla poesia breve ed essenziale di Ungaretti, inventò i “versi lunghi” delle sue poesie. Cesare Pavese chiarì nello scritto del 1934 come arrivò ai versi lunghi. Essi furono dovuti alla sua conoscenza della poesia del poeta americano Walt Whitman e alla sua esigenza di scrivere non in modo stringato ed essenziale ma con dei versi aperti e lunghi che raccontassero i casi di alcuni personaggi da lui inventati e conosciuti. Pavese inventò i versi lunghi “per il terrore di cadere nell’epigramma” di Ungaretti. (Da Il mestiere di poeta pa. 128). I versi lunghi, come dice il poeta, seguono il suo mugolio interiore e danno consistenza alla storia dei personaggi. Ecco il brano in cui Pavese chiarisce questa sua maturazione: “Dire, ora, il bene che penso di una simile versificazione è superfluo. Basti che essa accontentava anche materialmente il mio bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresì una logica. E c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in essi narravo”. (Lacerto tratto da Lavorare stanca – Giulio Einaudi Editore – Pagina 127). Mentre Ungaretti allungò in verticale i versi delle sue poesie nella sua prima opera, Pavese allargò in orizzontale i versi delle sue poesie nella sua prima opera.
Pavese definì questa nuova poesia come “poesia racconto”. Io, Biagio Carrubba, come confermano molti critici, credo che la novità fondamentale dei versi nuovi di Pavese consista nel fatto che Cesare Pavese abbia creato una poesia racconto intermedia tra la poesia e la prosa e che mette nello stesso verso prosa e poesia. La poesia racconto di Pavese ha infatti la cadenza e il ritmo della poesia con versi anapestici e cesure molto lontane rispetto alla poesia tradizionale che aveva cesure ristrette. La poesia racconto di Pavese rinnova profondamente la poesia tradizionale ed ermetica italiana del periodo. Con questa nuova soluzione tecnica Cesare Pavese ha liberato definitivamente la poesia italiana dalla metrica tradizionale, scompaginando e stravolgendo l’endecasillabo e la legge della metrica, tanto difesi da Ungaretti. Questa prosa racconto, nella composizione dei versi lunghi ha portato alla poesia nuova di Pavese che da un lato si avvicina alla poesia dei versi lunghi mantenendo ancora un ritmo lento e pacato e una cesura degli accenti più ampia rispetto alla cesura della poesia tradizionale e dall’altro lato si mantiene vicina alla poesia dei contenuti ed ai temi sociali. Oltre al rinnovamento della metrica, infatti, Pavese rinnovò anche i personaggi delle poesie scegliendoli tra i ceti sociali più bassi e scegliendo temi sociali e personali di casi umani, tristi ed infelici, che sono molto lontani dai temi individualistici dell’ermetismo. Il risultato di questa operazione di sintesi tra forma e contenuto è la creazione di una poesia che ha strofe massicce e versi lunghi ed anti tradizionali. Una poesia nuova e anti lirica che ha fatto nascere e ha dato il via alla poesia neorealistica del dopo guerra. La scelta di questi temi e di questi versi ha certamente costituito un rinnovamento e una modernizzazione della poesia italiana aprendo il binario che porterà al neorealismo che si svilupperà subito dopo la seconda guerra mondiale e che avrà come protagonisti Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caprone ed Elsa Morante, S. Quasimodo e E. Montale che iniziarono anche loro a scrivere nello stile e nel genere neorealistico.

IV

Nonostante le novità stilistiche, metriche e di contenuti, “Lavorare stanca”, rispetto alla retorica classica, rientra nello stile umile della “Rota Virgilii” che aveva distinto tre stili e tre finalità diverse.
1. Stile umile o basso (Humilis stylus)
2. Stile mediocre o medio (Mediocris stylus)
3. Stile sublime o alto (Gravis stylus).

Questi tre stili hanno ognuno delle finalità diverse:
Lo stile umile ha come finalità docere (insegnare) e dimostrare (probare)
Lo stile medio ha come finalità delectare (dilettare)
Lo stile alto o sublime ha come fine movere (commuovere).
Io, Biagio Carrubba, penso che Lavorare stanca appartenga soltanto allo stile Humilis perché nell’opera prevale lo scopo di insegnare e di probare la realtà del suo tempo e le poesie presentano un hornatus semplice, puro senza espressioni affettate e pompose ma ricche di figure retoriche articolate. L’opera, secondo me, infatti descrive come Pavese sentiva la realtà, triste e malinconica, dell’epoca, dei personaggi e di sé steso. Nel complesso Lavorare stanca è una grande opera poetica seria, grave, monotona e malinconica che né diletta né commuove e per questo motivo rientra nello stile umile.

2

Cesare Pavese. Due poesie spiritose di “LAVORARE STANCA”.

I

Il componimento poetico “Lavorare stanca” è formato da sei grandi sezioni tematiche:
Prima sezione Antenati: Poesie da nr. 1 a nr. 11
Seconda sezione Dopo: Poesie da nr. 12 a nr. 26
Terza sezione Città in campagna Poesie da nr. 27 a nr. 45
Quarta sezione Maternità Poesia da nr. 46 a nr. 55
Quinta sezione Legna verde Poesia da nr. 56 a nr. 62
Sesta sezione Paternità Poesia da nr. 63 a nr. 70
Ogni sezione sviluppa un ampio tema formato da diverse poesie che si collegano in qualche modo al tema generale della sezione. La prima sezione, Antenati, ha per tema generale sia i rapporti di parentela che i legami di amicizia. Dal punto di vista dei personaggi, le poesie della sezione sono molto eterogenee tra di loro mentre la forma delle poesie presenta strofe massicce e versi allungati in orizzontale. Nella prima poesia, “I mari del sud”, Cesare Pavese descrive la sua ammirazione verso un suo cugino che per venti anni aveva lavorato come marinaio in molte navi che avevano solcato i mari esotici dell’Australia e che poi era ritornato sulle langhe piemontesi. Il giovane Pavese è attratto da questo suo cugino per la vita errabonda che ha vissuto e per gli stupendi paesaggi che ha contemplato in giro per il mondo ed è molto bello il finale quando il giovane poeta dice al cugino che è stato fortunato perché ha visto l’aurora sulle isole più belle della terra.
A questa frase di compiacimento estetico il cugino “sorride e risponde che il sole/si levava che il giorno era vecchio per loro” per dire che i marinai lavoravano per tutta la notte e quindi l’alba per loro arrivava dopo molte ore di duro lavoro. Nella seconda poesia, Antenati, Pavese descrive la sua ricostruzione di alcuni suoi avi che si erano fatti una posizione economica sulle langhe e il cui ideale era quello di “girovagare su quelle colline, /senza donne e le mani tenercele dietro alla schiena”. La terza poesia, Paesaggio I, presenta la descrizione di un personaggio curioso, particolare e bizzarro, l’eremita che vive da solo nelle langhe “E depone gli sterchi/ su uno spiazzo scoperto, a seccarsi nel sole”. Nella quarta poesia, Gente spaesata, Pavese descrive la sua simpatia e la sua amicizia verso un suo amico con il quale si trova a bere e a sognare in una tampa torinese. Questa è la poesia più allegra e spiritosa della sezione per il suo spirito di sognatori che la attraversa. Nella ottava poesia, Luna d’agosto, Cesare Pavese descrive il particolare drammatico di una moglie che assiste inerme e guarda impotente il cadavere del marito che gronda sangue sotto il terrore lunare. Dopo di che la donna si ritira sotto l’ombra dell’albero e la poesia si conclude “Sotto, scura la terra si bagna di sangue”. L’ultima poesia, La notte, è una poesia biografica nella quale Pavese ricorda l’immobilità e la limpidezza di una sera d’estate della sua fanciullezza. Tutte le poesie di questa sezione sono serie, monotone e simili nella forma ma presentano personaggi vari e diversi tra di loro come visto nelle poesie sintetizzate sopra. Tra tutte le poesie della prima sezione la più allegra e spiritosa è “Gente spaesata”.

Testo della poesia “Gente spaesata”.
Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchi, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.
Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne
qualche scura ragazza, annerita di sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.
(1933)

Breve sintesi di “Gente spaesata”
L’amico e il poeta scrutano continuamente l’acqua del fiume di Torino. Dopo, di notte, il poeta e il suo amico vanno in una bettola a bere e a fumare trasognati. L’amico racconta al poeta i sogni fatti in precedenza davanti al fiume che riflette le diverse chiazze di colori e di fiori delle colline. Il poeta racconta i suoi sogni dove immagina le sue colline che sono scabre e striate di vigne. L’amico vorrebbe le colline ricoperte di fiori e di frutti selvaggi per scoprirvi le ragazze più nude e sensuali dei frutti. Se l’indomani i due amici andranno su quelle colline troveranno qualche ragazza scura e attaccando discorso con lei, proveranno a rubarle un po’ d’uva per mangiarsela.

II

La seconda sezione, Dopo, ha per tema generale le donne e come sono viste dal poeta. I personaggi della sezione sono molto variegati tra di loro. Nella prima poesia, Incontro, Pavese immagina nella sua mente una donna ideale, fantastica e platonica che rincorre ma non riesce mai ad afferrare. La poesia si conclude con questi due versi: “L’ho creata dal fondo di tutte le cose/che mi sono più care, e non riesco a comprenderla”. Poi seguono le tre poesie dedicate a Fernanda Pivano. Nella poesia numero 21, Terre bruciate, Pavese ricorda, durante il suo confino a Brancaleone Calabro, con nostalgia le donne vivaci e briose lasciate a Torino. Le ultime poesie della sezione trattano tutte di figure femminili che hanno come protagoniste delle prostitute. Ognuna di esse ha il proprio passato e la propria esperienza e si muove ognuna in una situazione ambientale diversa ma sono tutte animate da una lotta per la sopravvivenza e per migliorare la propria vita. Esse vivono e abitano in un mondo affollato da uomini egoisti e indifferenti alla loro vita e preoccupati soltanto per sé stessi. L’esempio più fulgido tra le prostitute è Deola che vive la sua vita solitaria in mezza alla folla che cammina, indifferente, per Torino. La poesia, Pensieri di Deola, si conclude con questi due versi: “Stare sola, se vuole, /al mattino, e sedersi al caffè. Non cercare nessuno”. Ognuna di queste donne ha quindi i propri pensieri e le proprie storie così come nella poesia, Due sigarette, Pavese sintetizza l’indifferenza dei passanti con questi versi: “Ogni rado passante ha una faccia e una storia” per dire che ogni passante è sconosciuto all’altro e vive la sua vita solitaria in un miscuglio di gente che va e viene per la città di Torino. L’ultima poesia, Dopo, è una poesia biografica nella quale Pavese ricorda la sera passata con la sua “compagna” in atteggiamenti intimi. In questa poesia Pavese esprime tutta la sua gioia per la serata trascorsa con la sua amica tanto che gli sembrano un miracolo le sensazioni dolci che aveva provato a contatto del corpo della sua compagna. Nel finale Pavese si augura di poterla rincontrare l’indomani. Tutte le poesie della seconda sezione sono lunghe, serie, con versi lunghi e strofe massicce. L’unica poesia con spirito allegro e spiritoso è senz’altro “Terre bruciate”.

Testo della poesia “Terre bruciate”.
Parla il giovane smilzo che è stato a Torino.
Il gran mare si stende, nascosto da rocce,
e dà in cielo un azzurro slavato. Rilucono gli occhi
di ciascuno che ascolta.
A Torino si arriva di sera
e si vedono subito per la strada le donne
maliziose, vestite per gli occhi, che camminano sole.
Là, ciascuna lavora per la veste che indossa,
ma l’adatta a ogni luce. Ci sono colori
da mattino, colori per uscire nei viali,
per piacere di notte. Le donne, che aspettano
e si sentono sole, conoscono a fondo la vita.
Sono libere. A loro non rifiutano nulla.
Sento il mare che batte e ribatte spossato alla riva.
Vedo gli occhi profondi di questi ragazzi
lampeggiare. A due passi il filare di fichi
disperato s’annoia sulla roccia rossastra.
Ce ne sono di libere che fumano sole.
Ci si trova la sera e abbandona il mattino
al caffè, come amici. Sono giovani sempre.
Voglion occhi e prontezza nell’uomo e che scherzi
e che sia sempre fine. Basta uscire in collina
e che piova: si piegano come bambine,
ma si sanno godere l’amore. Più esperte di un uomo.
Sono vive e slanciate e, anche nude, discorrono
con quel brio che hanno sempre.
Lo ascolto.
Ho fissato le occhiaie del giovane smilzo
tutte intente. Han veduto anche loro una volta quel verde.
Fumerò a notte buia, ignorando anche il mare.
(agosto 1935)

Breve sintesi di “Terre bruciate”
Pavese descrive sé stesso come un giovane smilzo che ha visto Torino, dove ha visto molte giovani donne passeggiare per le strade. Il giovane smilzo guarda soprattutto le vesti di ognuna di loro ed in particolare di ognuna di loro che attirano subito, per i colori vivaci, gli uomini. Queste donne sono ovviamente libere e attirano gli uomini e vogliono uomini sempre raffinati e loro “si sanno godere l’amore”. Sono donne vivaci e snelle e anche briose e hanno una vivacità di comportamento dovuta ad un senso di benessere ed ottimismo. Il poeta è contento di avere visto queste donne e ripensa a loro con nostalgia e rammarico perché adesso si trova solo a Brancaleone Calabro e questa sua solitudine lo porterà a fumare nella notte buia ignorando pure la bellezza e il rumore del mare. Le due poesie da me scelte e sintetizzate sono poesie spiritose ed allegre e risultano le più gradevoli a leggersi e danno di Pavese una immagine non tetra e solitaria così come è nella memoria collettiva dei lettori ma danno l’idea di un giovane solitario ma vivace e pieno di brio e simpatia nei confronti dei parenti e degli amici.

3

Cesare Pavese. Due poesie struggenti di “LAVORARE STANCA”.

La sesta sezione di Lavorare Stanca, Paternità, chiude l’opera poetica di Cesare Pavese con l’aggiunta, nella seconda edizione del 1943, di alcune poesie scritte a Brancaleone Calabro tra il 1935 e il 1936, non presenti nella prima edizione del gennaio 1936. Cesare Pavese, dunque, quando pubblicò la seconda edizione dell’opera nel 1943, pose a conclusione le poesie scritte nel forzato soggiorno in Calabria perché reputava l’esperienza del confino viva, fondamentale e ancora attuale per lui, malgrado fossero passati sette anni. Il tema generale delle sezioni è infatti la lontananza da Torino, dal Piemonte e dalle Langhe. Il poeta a distanza di sette anni viveva ancora in modo intenso e pungente l’esperienza del confino e pose a chiusura di tutta l’opera due poesie struggenti: “Paternità” e “Lo Steddazzu”. Entrambe le poesie esprimono e sintetizzano l’angoscia e il dolore che il poeta provava e sentiva dal primo giorno in cui arrivò a Brancaleone Calabro, nell’agosto del 1935, fino alla sua ripartenza avvenuta nel marzo del 1936. Dalle lettere del confino, Cesare Pavese, non faceva altro che lamentarsi della sua vita di esiliato e non vedeva l’ora di ritornare a Torino. La piccola stanza che Pavese abitava a Brancaleone Calabro si affacciava su un cortiletto, al di là del quale passava la ferrovia e al di là della quale c’era il mare. Ogni transito e sbuffo del treno suscitava in lui un moto di nostalgia per Torino. Le due poesie che chiudono l’opera suggellano tutta la sofferenza fisica e psichica di Pavese per la sua permanenza in Calabria. Le due poesie furono scritte l’una di seguito all’altra: Paternità nel dicembre del 1935 e Lo Steddazzu nel gennaio del 1936. Le due poesie spiegano e racchiudono l’angoscia del poeta e la sua rassegnazione verso un momento della sua vita sentito come ingiusto e che il poeta non tollerava. Quando la sofferenza raggiunse il suo grado massimo, Cesare Pavese, a malincuore, decise di chiedere a Mussolini la grazia. Così il 20 febbraio del 1936 si decise a scrivere al Duce per chiedere la grazia che gli arrivò, per sua fortuna, qualche giorno dopo. Il 15 marzo del 1936 è l’ultimo giorno di confino per Pavese come scrisse nel famoso libro “Il mestiere di vivere”. Sconfortato e toccato duramente dall’esilio, il 19 marzo il poeta rientrò, finalmente e felicemente, a Torino.

Testo della poesia “Paternità”.
Uomo solo dinanzi all’inutile mare,
attendendo la sera, attendendo il mattino.
I bambini vi giocano, ma quest’uomo vorrebbe
lui averlo un bambino e guardarlo giocare.
Grandi nuvole fanno un palazzo sull’acqua
che ogni giorno rovina e risorge, e colora
i bambini nel viso. Ci sarà sempre il mare.
Il mattino ferisce. Su quest’umida spiaggia
striscia il sole, aggrappato alle reti e alle pietre.
Esce l’uomo nel torbido sole e cammina
lungo il mare. Non guarda le madide schiume
che trascorrono a riva e non hanno più pace.
A quest’ora i bambini sonnecchiano ancora
nel tepore del letto. A quest’ora sonnecchia
dentro il letto una donna, che farebbe l’amore
se non fosse lei sola. Lento, l’uomo si spoglia
nudo come la donna lontana, e discende nel mare.
Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta
il gran vuoto ch’è sotto le stelle. I bambini
nelle case arrossate van cadendo dal sonno
e qualcuno piangendo. L’uomo, stanco di attesa,
leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla.
Ci son donne a quest’ora che spogliano un bimbo
e lo fanno dormire. C’è qualcuna in un letto
abbracciata ad un uomo. Dalla nera finestra
entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta
se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare.
(ottobre 1935)

Come si vede il tono della poesia è, da un lato intimistico e melanconico perché descrive la sofferenza del poeta, e dall’altro lato è realistico perché Pavese descrive il luogo e l’ambiente del confino come attestano i versi finali dove descrive la stanzetta dove abitava dalla quale vedeva la ferrovia e il mare. La poesia inizia dicendo che il poeta è solo dinanzi all’inutile mare e guarda i bambini giocare sulla spiaggia. Anche lui vorrebbe avere un bambino e da questo desiderio forse nasce il titolo della poesia e dell’intera sezione. Il poeta scende in spiaggia di mattina ed immagina i bambini che ancora sonnecchiano nel tepore del letto e una donna che, se non fosse sola, farebbe l’amore. Di sera, invece, i bambini vanno a dormire coccolati dalle mamme e il poeta guarda il cielo stellato. Le mamme addormentano i figli e qualche altra donna è abbracciata ad un uomo. Il poeta da dentro la stanza ascolta lo sbuffo rauco del treno ed è l’unico a prestargli attenzione perché per lui il treno costituisce il mezzo del ritorno a Torino. Mentre per gli abitanti di Brancaleone Calabro il mare è importante per la pesca e quindi per il lavoro per Pavese invece è tedioso ed inutile.

II

Introduzione

Anche questa poesia descrive la vita interiore del poeta e il luogo del suo confino. Il poeta si alza quando il sole sorge sul mare ancora buio. La sua pipa è spenta tra le sue labbra ed il poeta accende un falò sulla spiaggia. Una stella brilla nel cielo mattutino e, alla luce del giorno, scompare dietro le montagne, tra la neve. Il poeta si chiede se il sole sorgerà dal mare e se vale la pena di vivere un’altra giornata dato che quel giorno sarà uguale e vuoto a quello precedente perché non accadrà nulla di nuovo. Il poeta vorrebbe soltanto dormire e ritrovare una pace interiore che non gli avrebbe fatto pensare al confino. Quando Venere scompare dal cielo il poeta prepara la pipa, l’accende e sarà pronto ad iniziare una nuova giornata, malgrado la consuetudine, l’angoscia e lo struggimento delle giornate tutte uguali. Le due poesie sono gemelle sia nella forma che nel contenuto. Infatti le due poesie hanno quasi lo stesso numero di versi e sono ripartite entrambe in tre strofe. Lo Steddazzu continua a descrivere l’angoscia e lo struggimento di Paternità. Ne Lo Steddazzu il poeta scruta il cielo non con l’occhio amichevole con il quale immaginava le mamme e i bambini nelle poesie precedente, ma con l’animo rammaricato ed amaro per il nuovo giorno che andava ad iniziare, giorno percepito come inutile come quelli già trascorsi. Per questo motivo Pavese definisce l’ultima stella che vede, Venere, con il dispregiativo di Steddazzu che è un termine tipico del dialetto calabrese. Quindi in questa poesia Pavese abbandona l’aulica lingua nazionale per abbassarsi all’uso del dialetto per indicare come il suo animo da puro ed attivo come si sentiva a Torino diventa inutile e passivo nella sua vita di confino.

Testo della poesia “Lo Steddazzu”.

L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
(9 – 12 gennaio 1936)

Le due poesie, che chiudono l’opera, sono importanti per almeno due motivi perché conferiscono un tono melanconico e di sofferenza all’intera opera e perché, con queste due poesie, Pavese fa prevalere il tono realistico e annuncia, preannuncia ed apre la strada al neorealismo del dopoguerra italiano.

4

Cesare Pavese. Due poesie amene di “LAVORARE STANCA”.

I

La terza sezione di LAVORARE STANCA, Città in campagna, comprende le poesie scritte da Pavese tra il 1933 e il 1935 ad eccezione della penultima poesia che è del 1939. Questa sezione costituisce il nucleo fondamentale ed originario di Lavorare stanca ed è la sezione più antica e compatta del libro. Il tema generale della sezione è il lavoro, i lavoratori e gli artigiani che esercitano i vari mestieri nella società civile. Accanto a questi lavoratori integrati ed attivi, Pavese tratteggia altri personaggi emarginati come alcuni ubriachi e ragazzi che provengono dalla campagna e si trovano disorientati e disorganizzati nella città. Cesare Pavese passa in rassegna molti lavoratori che svolgono vari mestieri e tratteggia molti comportamenti esterni ed interni. I personaggi sono vari e variegati e sempre in relazione ad un’attività lavorativa come muratori, sabbiatori, meccanici, commesse etc. Il tema più forte che emerge dal susseguirsi delle poesie è anche la descrizione dell’indifferenza degli uni verso gli altri. Infatti ogni personaggio vive i suoi problemi all’insaputa degli altri, in mezzo alla folla che scorre nelle città e nelle campagne e che non sconosce i problemi degli altri, cosicchè ogni personaggio descritto è una isola a sé stante. Cesare Pavese descrive questi personaggi con distacco e con distanza. Pavese in questa descrizione non si lascia trascinare dalla commiserazione per ognuno di essi e quindi tratteggia ogni caso umano con sobrietà e neutralità dandone una figurazione il più possibile realistica e quasi fotografica. Cesare Pavese non scende nei particolari dei personaggi ma ne dà una rappresentazione fenomenologica e comportamentistica per non cadere nel patetico, nell’intimo e nel vittimismo dei personaggi. Questo fotografare i personaggi, non lasciandosi prendere dalla pietà ma descrivendoli nel loro ruolo attivo e realistico, fa nascere la bellezza poetica della sezione. Cesare Pavese riesce quindi a descrivere molto bene i vari personaggi cogliendo soprattutto la lontananza e il distacco che esiste tra ogni individuo e mettendo in risalto la solitudine che attanaglia gli individui di una folla che è costituita da tanti uomini, donne e bambini gli uni indifferenti e sconosciuti agli altri. Nella prima poesia della sezione, Il tempo passa, Cesare Pavese descrive i desideri e i sogni di un ubriaco. Nella seconda poesia, Gente che non capisce, il poeta descrive i desideri e i sogni di una giovane commessa che lavora a Torino e che ogni sera rientra in campagna. Nella quinta poesia, Atavismo, Cesare Pavese descrive in modo distaccato l’indifferenza della gente che passa per una strada. Un ragazzo guarda un operaio che lavora seduto per terra e si accorge che gli altri corrono veloci senza guardare nessuno. Anche l’operaio seduto per terra non vede la gente che va e viene nella giornata. Nella poesia numero undici, Indisciplina, Pavese descrive un ubriaco che attraversa la città, scansato dagli altri. L’ubriaco se camminasse ancora finirebbe in mare e manterrebbe sul fondo lo stesso cammino e la luce sarebbe sempre la stessa per indicare l’indifferenza della natura rispetto ai casi gravi umani. Questa poesia descrive in modo impressionante l’indifferenza tra i vari personaggi della città che vivono ognuno per conto suo. Nell’ultima poesia della sezione, Lavorare stanca, Pavese descrive un uomo che girovaga per una piazza deserta e si rende conto di essere solo. Questa consapevolezza della sua solitudine è espressa dal verso: “Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?”. Questo uomo capisce e sente dentro di sé che per uscire dalla solitudine dovrebbe convincere una donna a vivere insieme a lui. Il tono emotivo delle poesie della sezione è triste e monotono e si dilunga a rappresentare tanti tipi di mestieri e di lavoratori ad eccezione di due poesie che non parlano di lavoro e che hanno un tono ameno, distensivo e quasi divertente. Le due poesie spezzano il tono monotono della sezione e la rendono meno tediosa e più briosa.
Queste due poesie sono: “Avventure” e “Ritratto d’autore”.

Testo della poesia “Avventure”.
Sulla nera collina c’è l’alba e sui tetti
s’assopiscono i gatti. Un ragazzo è piombato
giù dal tetto stanotte, spezzandosi il dorso.
Vibra un vento tra gli alberi freschi: le nubi
rosse, in alto, son tiepide e viaggiano lente.
Giù nel vicolo spunta un cagnaccio, che fiuta
il ragazzo sui ciottoli, ma un rauco gnaulio
sale su tra i comignoli: qualcuno è scontento.

Nella notte cantavano i grilli, e le stelle
si spegnevano al vento. Al chiarore dell’alba
si son spenti anche gli occhi dei gatti in amore
che il ragazzo spiava. La gatta, che piange,
è perché non ha gatto. Non c’è nulla che valga
– né le vette degli alberi né le nuvole rosse –
piange al cielo scoperto, come fosse ancor notte.

Il ragazzo spiava gli amori dei gatti.
Il cagnaccio che fiuta sto corpo ringhiando,
è arrivato e non era ancor l’alba fuggiva
il chiarore dell’altro versante. Nuotando
dentro il fiume che infradicia come nei prati
la rugiada, l’ha colto la luce. Le cagne
ululavano ancora.

Scorre il fiume tranquillo
e lo schiumano di uccelli. Tra le nuvole rosse
piomban giù dalla gioia di trovarlo deserto.
(1935)
Come si vede il tono della poesia è ameno e si differenzia dalle altre poesie perché non parla di lavoro ma presenta un ragazzo che spia gli amori dei gatti sui tetti e la corsa di un cagnaccio che proviene da un fiume e fiuta l’odore del ragazzo, ringhiando.

Testo della poesia “Ritratto d’autore”.
(a Leone)

La finestra che guarda il selciato sprofonda
sempre vuota. L’azzurro d’estate, sul capo,
pare invece più fermo e vi spunta una nuvola.
Qui non spunta nessuno. E noi siamo seduti per terra.
Il collega – che puzza – seduto con me
sulla pubblica strada, senza muovere il corpo
s’è levato i calzoni. Io mi levo la maglia.
Sulla pietra fa un gelo e il collega lo gode
più di me che lo guardo, ma non passa nessuno.
La finestra di botto contiene una donna
color chiaro. Magari ha sentito quel puzzo
e ci guarda. Il collega è già in piedi che fissa.
Ha una barba, il collega, dalle gambe alla faccia,
che gli scusa i calzoni e germoglia tra i buchi
della maglia. È una barba che puzza da sola.
Il collega è saltato per quella finestra,
dentro il buio, e la donna è scomparsa. Mi scappano gli occhi
alla striscia di cielo bel solido, nudo anche lui.
Io non puzzo perché non ho barba. Mi gela la pietra,
questa mia schiena nuda, che piace alle donne
perché è liscia: che cosa non piace alle donne?
Ma non passano donne. Passa invece la cagna
inseguita da un cane che preso la pioggia
tanto puzza. La nuvola liscia, nel cielo,
guarda immobile: pare un ammasso di foglie.
Il collega ha trovato la cena stavolta.
Trattan bene, le donne, chi è nudo. Compare
finalmente alla svolta un gorbetta che fuma.
Ha le gambe d’anguilla anche lui, testa riccia,
pelle dura: le donne vorranno spogliarlo
un bel giorno e annusare se puzza di buono.
Quando è qui, stendo un piede. Va subito in terra
e gli chiedo una cicca. Fumiamo in silenzio.
(1934)
Questa poesia è davvero divertente, amena e bizzarra. Non parla di lavoro e dà alla sezione un tono piacevole, gradevole ed allegro. È divertente il fatto che l’amico di Pavese ha una barba che puzza e salta dalla finestra dentro la casa di una donna che si era affacciata perché aveva sentito la puzza della barba. Il poeta aspetta l’amico fuori in compagnia di un altro giovane amico che era arrivato e insieme fumano. La poesia, dedicata al suo grande amico Leone Ginzburg, riprende la famosa fotografia che ritrae Pavese con Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frazzinelli, scattata nel 1932.

5

Cesare Pavese. Due poesie piacevoli di “LAVORARE STANCA”.

C’è una sottile bellezza nelle parole
che si può godere soltanto nella lettura
di una piacevole poesia.
Biagio Carrubba.

I

La quarta sezione di Lavorare stanca, Maternità, racconta la storia di donne e di madri che si sono sacrificate per i loro figli. Il tema generale della sezione è l’amore che lega uomini e donne in circostanze diverse e con effetti contrastanti. Infatti, il titolo Maternità corrisponde all’amore disinteressato dato dalla madre ai propri figli senza interessi così come la madre quando dà alla luce un neonato dona tutta il suo amore e la sua passione. Un amore continuo e rassicurante che dura fino a quando il bambino diventa autonomo e uomo così come succede nel rapporto tra una donna che ama veramente e un uomo a cui la donna dona il suo amore, come Pavese esprime nella bella poesia Piaceri notturni. La sezione comprende poesie composite sia per i diversi personaggi sia perché la genesi di ogni poesia è diversa da tutte le altre. La sezione contiene molte poesie autobiografiche. Nella prima poesia, Una stagione, Pavese racconta la storia di una madre che ha generato molti figli e che si è consumata per essi. Nella quarta poesia, Paesaggio IV, dedicata a Tina, Pavese racconta l’incontro di una giovane donna che esce stillante dalle acque di un fiume con il corpo annerito fra i tronchi. Nella quinta poesia, Un ricordo, Pavese descrive una giovane donna che potrebbe essere o Tina o una giovane donna conosciuta a Brancaleone Calabro. Ma la poesia più piacevole e seria di tutta la sezione è la seconda, Piaceri notturni.

Testo della poesia “Piaceri notturni”.
Anche noi ci fermiamo a sentire la notte
nell’istante che il vento è più nudo: le vie
sono fredde di vento, ogni odore è caduto;
le narici si levano verso le luci oscillanti.

Abbiamo tutti una casa che attende nel buio
che torniamo: una donna ci attende nel buio
stesa al sonno: la camera è calda di odori.
Non sa nulla del vento la donna che dorme
e respira; il tepore del corpo di lei
è lo stesso del sangue che mormora in noi.

Questo vento ci lava, che giunge dal fondo
delle vie spalancate nel buio; le luci
oscillanti e le nostre narici contratte
si dibattono nude. Ogni odore è un ricordo.
Da lontano nel buio sbucò questo vento
che s’abbatte in città: giù per prati e colline,
dove pure c’è un’erba che il sole ha scaldato
e una terra annerita di umori. Il ricordo
nostro è un aspro sentore, la poca dolcezza
della terra sventrata che esala all’inverno
il respiro del fondo. Si è spento ogni odore
lungo il buio, e in città non ci giunge che il vento.

Torneremo stanotte alla donna che dorme,
con le dita gelate a cercare il suo corpo,
e un calore ci scuoterà il sangue, un calore di terra
annerita di umori: un respiro di vita.
Anche lei si è scaldata nel sole e ora scopre
nella sua nudità la sua vita più dolce,
che nel giorno scompare, e ha sapore di terra.
(1933)

“Piaceri notturni” esprime tutta la forza travolgente e rassicurante che una donna dà ad un uomo con il suo amore. La poesia racconta il ritorno di un uomo nella sua casa dove troverà la sua donna che dorme. La città è piena di luci ed è attraversata dal vento che corre giù per prati e colline. Dentro casa l’uomo troverà la sua donna che gli donerà il suo amore e il suo calore. Basta questo calore per scuotere l’uomo ed infondergli forza, coraggio e speranza. Questo amore è bello perché non è un amore egoistico ma donato senza pretese a tutto beneficio dell’uomo. Tutte le altre poesie della sezione sono monotone e serie e parlano di donne, amore e di madri che si sacrificano per i figli. Invece, “Piaceri notturni” è l’unica poesia piacevole sull’amore perché ricca di luci e ambientata di notte. La poesia esprime il piacere e il desiderio di un uomo che ritorna a casa di notte e trova la sua donna che dorme e che con il suo calore gli dà il suo amore, senza interessi, ma con il cuore e con la sola presenza fisica che produce in chi lo riceve un piacere travolgente e rassicurante.

II

La quinta sezione di Lavorare stanca, Legna verde, comprende alcune poesie su argomenti politici e sociali. Le ultime due poesie sono autobiografiche e scritte a Brancaleone Calabro. Il tema generale della sezione è l’ingiustizia e la diseguaglianza sociale tra i lavoratori. Nella prima poesia, Esterno, Pavese racconta la storia di un ragazzo, frustrato dalla vita della fabbrica, che una mattina di febbraio decide di fuggire dal lavoro dove altri invece si guadagnano da vivere, lasciando sgomenti gli altri operai della fabbrica. Nella seconda poesia, Fumatori di carta, Pavese parla di un suo giovane amico il quale scappa dalla campagna e si rifugia a Torino dove, però, incontra ingiustizie e altra gente sfortunata. Nella quarta poesia, Rivolta, Pavese rievoca la rivolta di alcuni operai e la loro repressione nel sangue da parte del potere del tempo. Nella sesta poesia, Poggio Reale, Pavese descrive la sua breve permanenza nel carcere di Poggio Reale a Napoli. Ma la poesia più piacevole e seria della sezione è Parole del politico.

Testo della poesia Parole del politico.
Si passava sul presto al mercato dei pesci
a lavarci lo sguardo: ce n’era d’argento,
di vermigli, di verdi, colore del mare.
Al confronto col mare tutto scaglie d’argento,
la vincevano i pesci. Si pensava al ritorno.

Belle fino le donne dall’anfora in capo,
ulivigna, foggiata sulla forma dei fianchi
mollemente: ciascuno pensava alle donne,
come parlano, ridono, camminano in strada.
Ridevano, ciascuno. Pioveva sul mare.

Per le vigne nascoste negli anfratti di terra
l’acqua macera foglie e racimoli. Il cielo
si colora di nuvole scarse, arrossate
di piacere e di sole. Sulla terra sapori
e colori nel cielo. Nessuno con noi.
Si pensava al ritorno, come dopo una notte
tutta quanta di veglia, si pensa al mattino.
Si godeva il colore dei pesci e l’umore
delle frutta, vivaci nel tanfo del mare.
Ubriachi eravamo, nel ritorno imminente.
(1935)

“Parole del politico”, scritta a Brancaleone Calabro, rivela tutta la gioia di vivere di Pavese, il quale da attento osservatore coglie alcuni momenti delle sue giornate passate al confino, anche se il suo pensiero è costantemente rivolto al momento del ritorno a Torino. La poesia descrive lo spirito di osservazione del poeta che guarda la varietà dei pesci screziati di vari colori e coglie il particolare delle anfore che hanno la stessa forma dei fianchi delle donne. Mentre tutte le altre poesie della sezione, scritte a Torino prima del confino, trattano l’argomento politico e sociale in modo serio e monotono, “Parole del politico”, scritta a Brancaleone Calabro, è una poesia vivace ed allegra nella quale il poeta trasmette tutta la sua giovinezza e il suo piacere di vivere pur confinato nel paesino calabro.

6
Cesare Pavese. Quattro belle poesie di Cesare Pavese.

Introduzione.

Ho piacere di fare conoscere alcune poesie di Cesare Pavese, che non fanno parte della sua opera principale, “Lavorare stanca” (1936), ma che io ho scoperto e reputo molto belle ed interessanti e fanno parte della produzione poetica precedente all’opera principale. Le poesie che presento sono tratte dalla sezione Prima di “Lavorare stanca” del 1923 – 1930 del libro Le Poesie di Cesare Pavese. Nel 1925 Cesare Pavese aveva 17 anni ed era un giovane intellettuale molto precoce, pieno di vita e mostrava una grande fiducia nella poesia. Infatti le quattro poesie che presento hanno come tema principale la poesia, sentita come una produzione creativa ed importante della giovinezza, così come conferma Mariarosa Masoero nel libro “Cesare Pavese – Le poesie”: “Nel 1925 si fa strada in lui la convinzione che la poesia, sola in grado di regalare i primi sogni di gloria, sia una delle tante illusioni che rendono bella e irripetibile la giovinezza”. (da Cesare Pavese – Le Poesie – Einaudi Editore – Pag. XLVII). Le quattro poesie da me scelte fanno parte del periodo in cui Pavese intende la poesia come sfogo personale e la lexis è chiara e diretta ed il contenuto è rivolto soprattutto a sé stesso. Ho scelto queste quattro poesie perché le reputo molto belle, non solo per il giovane Pavese, ma anche per me e per tutti i lettori che amano la poesia. Io, Biagio Carrubba, credo che la bellezza di queste poesie nasca da un linguaggio moderno che si allontanava moltissimo dal linguaggio, enigmatico e simbolico, dell’ermetismo nascente e della poesia simbolista in auge in Italia. Anche il contenuto è molto intenso e sentito dal poeta in prima persona e da questo punto di vista Pavese si ricollega alla tradizione letteraria italiana di Giacomo Leopardi e Sergio Corazzini pur non mostrando tutto il loro pessimismo ma, anzi, facendo emergere la sua gioventù e la sua fiducia nella vita e il suo ottimismo nella poesia. Pavese parla in prima persona, così come facevano Leopardi e Corazzini, ma fa emergere l’importanza della poesia lirica e la bellezza della poesia nel suo periodo giovanile.

I° Poesia

Testo della poesia (pag. 160)

Mi atterrisce il pensiero che io pure
dovrò un giorno lasciare questa terra
dove i dolori stessi mi son cari
perché spero di renderli nell’arte.
E più tremo pensando all’agonia
alla lunga terribile agonia
che forse andrà dinanzi alla mia morte.
Che cos’è mai la vita ai moribondi
che ancor comprendono e senton lenti
lenti spirare in una stanza tetra
soli in sé stessi? Oh, conoscessi un Dio,
così vorrei pregarlo: quando il petto
mi si gonfia ricolmo di un’ondata
di poesia ardente e dalle labbra
mi sfuggon rotte sillabe che ansioso
tento di collegare in forma d’arte,
quando più riardo e più deliro, oh, allora
mi si schianti una vena accanto al cuore
e soffochi così senza un rimpianto!
21 luglio 1925

II° Poesia

Testo della poesia. (pag. 165)

Logoro, disilluso, disperato
di mai riuscire a suscitar nell’anima
degli uomini una vampa di passione
con un’arte ben mia; così vivo
triste nei lunghi giorni…eppure a tratti
mi sento traboccare d’una vita
caldissima, potente che, oh! se mai
riuscissi a esprimere sarebbe colma
tutta la mia esistenza.
10 ottobre 1925

III° Poesia

Testo della poesia. (pag. 166)

Oh, la gioia, la gioia di creare
esseri umani, sì che tutti piangano,
ridano, vivano, rapiti in essi,
nella loro esistenza ardente, oh nulla,
null’altro al mondo vale questa gioia.
14 ottobre 1925

IV° Poesia

Testo della poesia (pag. 167)

Mi strugge l’anima perdutamente
il desiderio d’una donna viva,
spirito e carne, da poterla stringere
senza ritegno e scuoterla, avvinghiato
il mio corpo al suo corpo sussultante,
ma poi, in altri giorni più sereni,
starle d’accanto dolcemente, senza
più un pensiero carnale, a contemplare
il suo viso soave di fanciulla,
ingenuo, come avvolto in un dolore
e ascoltare la sua voce leggera
parlarmi lentamente, come in un sogno…
24 ottobre 1925.

Queste quattro poesie sono molto belle perché presentano un Cesare Pavese pieno di vita e di fiducia nell’amore. Le poesie intrecciano, nello stesso tempo, immagini concrete e realistiche a forme di sentimenti leggeri ed immagini poetiche personali e nuove. Pavese usa un linguaggio più vicino ai sentimenti della gente comune ed elimina, di getto ed in modo definitivo, il linguaggio enigmatico e difficile dei poeti laureati (Montale) e il distacco e la freddezza dei poeti ufficiali (Ungaretti) che scrivevano a mente fredda in modo distaccato dal sentire comune.

II

Infine, per concludere la mia analisi delle poesie di Cesare Pavese, ne ho scelte altre due bellissime poesie, anche se poco conosciute, con la speranza di potere fare innamorare qualche giovane lettore alla bella poesia. Le due poesie da me scelte sono “Fine della fantasia” e “Agonia”. Queste due poesie sono state scritte da Pavese entrambe nel 1933 all’età di 25 anni quando già mostrava una forte vocazione alla poesia e alla letteratura. Malgrado siano state scritte lo stesso anno, le due poesie hanno trovato collocazione in posti diversi: Pavese pubblicò “Agonia” nella seconda edizione del libro “Lavorare stanca” del 1943 dove, invece, non trovò posto “Fine della fantasia” che rimase inedita fino al 1962. Le due poesie da me scelte sono opposte ma allo stesso tempo complementari. Le due poesie hanno in comune molte cose a cominciare dal tema del risveglio che però è trattato in maniera opposta e complementare: in “Fine della fantasia” il risveglio è successivo alla vita e quindi si ha dopo la morte, mentre “Agonia” esprime il risveglio a una nuova vita su questa terra e quindi a una rinascita. Un’altra antinomia tra le due poesie è sui protagonisti: “Fine della fantasia” ha per protagonista un uomo mentre “Agonia” è incentrata su una figura femminile. Le due poesie, malgrado le differenze prefate, sono complementari perché si completano a vicenda in quanto il risveglio è in tutti i casi sentito in maniera positiva in entrambe le poesie. Infatti Pavese intende il risveglio e lo prospetta come un atto positivo, di forza e di attaccamento alla vita in entrambe le poesie.

Testo della poesia “Fine della fantasia”. (pag. 314)

Questo corpo mai più ricomincia. A toccargli le occhiaie
uno sente che un mucchio di terra è più vivo,
ché la terra, anche all’alba, non fa che tacere in sé stessa.
Ma un cadavere è un resto di troppi risvegli.

Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita – davanti alla terra,
sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l’alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Ma viviamo soltanto per dare in un brivido
al lavoro futuro e svegliare una volta la terra.
E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi.

Se a sfiorare quel volto la mano non fosse malferma
– viva mano che sente la vita se tocca –
se davvero quel freddo non fosse che il freddo
della terra, nell’alba che gela la terra,
forse questo sarebbe un risveglio, e le cose che tacciono
sotto l’alba, direbbero ancora parole. Ma trema
la mia mano, e di tutte le cose somiglia alla mano
che non muove.

Altre volte svegliarsi nell’alba
era un secco dolore, uno strappo di luce,
ma era pure una liberazione. L’avara parola
della terra era gaia, in un rapido istante,
e morire era ancora tornarci. Ora, il corpo che attende
è un avanzo di troppi risvegli e alla terra non torna.
Non lo dicon nemmeno, le labbra indurite.
[1933]

Io, Biagio Carrubba, penso che questa poesia, in verità, sarebbe più idonea per una persona adulta, ormai smaliziata dalla vita e pronta per assurgere all’aldilà dove avviene il risveglio alla nuova vita poiché la poesia è vista e raccontata da un soggetto in procinto di morire. Pavese, quindi, esprime più i sentimenti di chi sta per morire che quelli di un giovane nel pieno della sua vita. La poesia intreccia la vita e la morte in una morsa che stringe la vita e la morte, la terra e il corpo. Nella poesia, infatti, non si riesce a distinguere il momento del risveglio nell’aldilà dal momento della morte. Il componimento poetico è affascinante perché presenta gli stati d’animo del protagonista attraverso due soli colori: il bianco e il nero. Il bianco è ovviamente la vita e la terra e il nero rappresenta, ovviamente, la morte e il corpo. Ma questo forte contrasto tra i due colori è impreziosito da pennellate grigie che rendono la poesia monocolore e monotematica, ricca di chiaro scuri, come un quadro dipinto a china. Per questa simbologia la poesia rasenta l’ermetismo e si avvicina alle poesie di Ungaretti tipiche del clima ermetico di quel periodo. Ma la poesia esprime anche le grandi novità della raccolta “Lavorare stanca” e cioè una poetica rivolta a personaggi concreti, vivi, reali, in carne ed ossa. Questo tratto distintivo Pavese lo aveva ereditato dallo studio della grande opera poetica “L’antologia di Spoon River” del poeta americano Edgar Lee Masters. Un altro elemento che avvicina “Fine della fantasia” alle poesie de “L’antologia di Spoon River” è certamente l’uso, da parte di Pavese, del verso lungo, disteso, quasi prosastico caratteristico della scrittura di Lee Masters. La poesia è quindi molto bella perché esprime il fortissimo attaccamento del protagonista della poesia alla vita, come i personaggi dell’antologia di Spoon River, anche se percepisce la freddura della vita che va via e lascia un cadavere duro, ghiacciato e gelato. Questo attaccamento alla vita è molto esplicito nei versi 5 – 6 – 7:
“Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita – davanti alla terra,
sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio”.
Il risveglio è quindi inteso come il ciclo vitale che chiude l’esperienza umana ed apre l’esperienza ultra terrena dove non si sa se ricomincerà nuovamente il ciclo umano.

III

Testo della poesia “Agonia”. (pag. 83)

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna
il mattino.

Sono lontani i mattini che avevo vent’anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo – una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni:
ora è come quel pianto non fosse mai stato.

E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore – perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
[1933]

Questa poesia è dedicata ed ispirata ad una giovane donna nel pieno fulgore della sua giovinezza nel giorno del suo ventunesimo compleanno. Pavese esprime i sentimenti, l’euforia e il fervore di questa giovane donna che, dopo avere trascorso una infanzia disagiata e sofferente, ritrova sé stessa e diventa consapevole della sua giovinezza, della sua età, padrona di sé stessa, pronta per vivere la vita così come le si presenta. Il componimento poetico è ammaliante perché presenta gli stati d’animo della protagonista attraverso una moltitudine di colori che diventano il simbolo della ricerca della vita e della giovinezza. La protagonista sente in sé molta forza, molto vigore e non ha paura di stare insieme alla gente per godersi la sua vita in mezzo agli altri. La giovane donna esprime tutto il suo vigore e fervore desiderando la varietà dei colori che rappresentano la sua vitalità interiore. Da domani la protagonista cercherà nella vita la molteplicità e la varietà dei casi tanti quanti sono la varietà e la molteplicità dei colori. Ne l‘Agonia, all’opposto de “L’antologia di Spoon River” dove parlavano i morti, parla una giovane donna, viva e vivace, che ha preso consapevolezza di sé e della sua giovinezza. Comunque, in questa poesia Pavese usa sempre un linguaggio poetico lineare, aperto e quasi prosastico che è comune a “L’antologia di Spoon River”. Il finale è veramente stupendo perché la protagonista dice che uscirà ogni giorno di casa per cercare nuovi colori, cioè nuove esperienze forti, e si scrollerà di dosso il pianto di bambina che l’aveva fatta soffrire per molti anni. Questo passaggio dall’infanzia gravosa, nera e pesante al nuovo risveglio della vita, alla giovinezza è molto ben espresso dai versi 23 – 24:
“Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita”.
La protagonista della poesia per contrasto fa venire in mente le dolci speranze di “A Silvia” di Giacomo Leopardi. Il risveglio alla giovinezza della protagonista è inteso, quindi, come una apertura alla vita vissuta in prima persona, con forza e coraggio, e vista attraverso una moltitudine di colori. Pavese quindi abbandona il bianco e il nero e il tono melanconico e triste di “Fine della fantasia” sceglie e privilegia la varietà cromatica della vita e dei suoi colori.

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Modica, 24/ 09/ 2018                                                                     Prof. Biagio Carrubba

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