DAGLI “AMORES” DI OVIDIO ( 43 a.C. – 17 d.C. ),
LE PIU’ BELLE ELEGIE, DEDICATE, ISPIRATE
E CENTRATE SU CORINNA
Publius Ovidius Naso
V
Ovidio, all’inizio dell’opera, premette una epigrafe con la quale chiarisce che Amores è la seconda edizione scritta sullo stesso argomento.
Epigramma dell’autore
Eravamo poc’anzi cinque libri di Nasone, ora
siamo tre; l’autore preferì questa forma a quella;
se non proverai alcun piacere a leggerci, almeno,
toltine due, la fatica ti sarà più leggera.
Libro I
Elegia n. 5
Si ardeva, il giorno aveva superato l’ora di mezzo:
mi distesi per alleviare le membra al centro del letto.
Uno sportello della finestra restava aperto, l’altro chiuso,
la luce quale suole essere nelle foreste,
quali rilucono i crepuscoli al fuggire di Febo,
o quando la notte svanisce ma ancora il giorno
non sorge. Quella è la luce da offrire alle fanciulle vereconde:
in essa il timido pudore spera di celarsi.
Ecco giunge Corinna, avvolta in una tunica sottile,
una chioma bipartita che copre il candido collo:
così si dice che la bella Semiramide andasse nel talamo,
e ugualmente Laide amata da molti uomini.
Le strappai la tunica; trasparente non era di grande impaccio,
ella tuttavia lottava per restarne coperta;
ma poiché lottava come una che non vuole vincere,
rimase vinta facilmente con la sua stessa complicità.
Come, caduto il velo, stette davanti ai mie occhi,
nell’intero corpo non apparve alcun difetto.
Quali spalle, quali braccia vidi e toccai!
La forma dei seni come fatta per le carezze!
Come liscio il ventre sotto il petto sodo!
Come lungo e perfetto il fianco, e giovanile
la coscia. A che i dettagli? Non vidi nulla di non degno
di lode. E nuda la strinsi, aderente al mio corpo.
Chi non conosce il resto? Stanchi ci acquietammo entrambi,
possano giungermi spesso pomeriggi come questo!
Elegia n. 9
E’ un soldato ognuno che ama, e ha un campo suo Cupido;
Attico, credimi, è un soldato chiunque ama.
L’età adatta alla guerra, anche per Venere è quella giusta:
brutta cosa un vecchio soldato, brutta un amore senile.
Gli anni che i capi richiedono in un soldato coraggioso
son quelli che vuole una bella ragazza nel suo compagno.
Vegliano entrambi tutta la notte; tutt’e due dormono per terra:
uno alla porta della signora, l’altro a quella del duce fa guardia.
Dovere del soldato è la lunga marcia; fai partire una ragazza:
strenuamente l’innamorato la seguirà senza mai una sosta;
andrà contro le montagne e i fiumi gonfiati dalla tempesta,
passerà a piedi lui sopra cumuli di neve ammassata,
e se dovrà affrontare i flutti non chiamerà in causa Euri furiosi,
né cercherà quali siano le stelle adatte a solcar le acque.
Chi, se non solo un soldato o un innamorato, il gelo della notte
e la neve sopporterà mista alla pioggia fitta?
Uno è mandato a spiare le mosse dei nemici in armi,
l’altro è sul rivale che, come sul nemico, tiene gli occhi.
Quello a città fortificate, questo alla soglia di un’amata insensibile
dà l’assedio; lui tra i portali, l’altro in una porticina fa breccia.
Spesso è servito cogliere i nemici addormentati,
e far strage di una folla inerme con mani armate;
così caddero le schiere feroci di Reso re di Tracia,
e voi, suoi cavalli, lasciate il vostro padrone con la cattura.
Ebbene, gli innamorati sfruttano il sonno dei mariti,
e le loro armi, mentre i mariti dormono, mettono in moto.
Superare drappelli di sentinelle e corpi di guardia
è compito del soldato e del sempre infelice innamorato.
Marte è incerto, ma neppure Venere è sicura: i vinti si risollevano
e quelli che mai diresti potrebbero soccombere, ecco che cadono.
Dunque chiunque chiamava l’amore una forma di pigrizia
la finisca: l’amore di un carattere intraprendente è la caratteristica.
Brucia per Briseide che gli han portato via, triste, Achille;
spezzate le forze degli Argivi, Troiani, finché è possibile;
Ettore dalle braccia di Andromaca andava in battaglia,
e l’elmo in testa chi glielo metteva era la moglie;
il più grande dei signori, l’Atride, vista la figlia di Priamo,
si dice che davanti alle chiome sparse di Menade restò incantato.
Anche Marte fu catturato e sentì le catene del fabbro divino;
nessun racconto fu sulla bocca di tutti più di questo in cielo.
Anch’io ero pigro e sembravo nato per l’ozio più rilassato;
il letto e il buio ogni mio slancio avevano indebolito;
il pensiero di una ragazza bellissima ha scacciato il torpore,
e mi ha ordinato di fare nel suo esercito il servizio militare.
Perciò mi vedi attivo e impegnato nelle guerre notturne:
chiunque non voglia diventare pigro, deve amare!
Elegia n. 10
Come colei che venendo su navi Frigie dell’Europa
era motivo arrivare alla guerra per due mariti,
com’era Leda, che l’adultero, coperto di bianche piume,
astuto sotto false sembianze di un cigno sedusse,
come Amimone che vagava nei campi dell’Argolide inariditi,
portando in testa un secchio che le schiacciava i capelli,
così eri e l’aquila temevo in te e il toro
e tutto ciò cui ridusse il sommo Giove l’amore.
Ora è svanita ogni paura, e guarito l’errore del cuore,
e il tuo bel volto gli occhi miei non riesce più a rapire.
Perché son cambiato mi domandi? Perché chiedi dei doni.
Questa è la causa che n on permette più che di te m’innamori.
Finché eri semplice, insieme al tuo corpo ho amato il tuo cuore;
ora da un vizio della mente è lesa ai miei occhi la tua figura.
È un bambino Amore, ed è nudo; ha gli anni dell’innocenza,
e neanche un vestito, per esser tutto in evidenza.
Perché volete che il figlio di Venere abbia un prezzo?
Non ha nemmeno una tasca per nascondere il denaro.
Venere non è fatta per le armi feroci, né il figlio di Venere:
non è giusto che sian dèi pacifici a guadagnare il soldo militare.
La prostituta è li che si offre a chiunque a prezzo fisso
e cerca un’infelice ricchezza a comando del suo corpo;
maledice però il volere di un avido protettore
e, quello che voi fate volentieri, lo fa per costrizione.
Prendete a esempio le bestie, che non hanno la ragione;
sarà vergognoso che gli animali abbiano indole più mite.
La cavalla non chiede doni al cavallo, né la vacca al toro,
l’ariete non conquista la pecore preferita con un regalo.
È solo la donna che trionfa con le spoglie prese all’uomo,
lei sola mette all’asta le notti, commercia il suo corpo,
vende ciò che piace a entrambi, che entrambi cercavano,
decide lei stessa qual è il prezzo del suo piacere.
Venere che verrà gradita a tutt’e due in egual misura,
perché una la dovrebbe vendere e l’altro comprare?
Perché dev’essere a me una spesa, e a te un guadagno il piacere
che maschio e femmina ricavano dal muoversi insieme?
Non è bene che testi corrotti vendano i loro spergiuri,
non è bene che si apra la cassa di chi è scelto a giudicare,
brutta cosa difendere con lingua venduta infelici accusati
e che faccia gran conto dei guadagni un tribunale.
Brutto aumentare i beni paterni coi guadagni del letto
ed il proprio bel viso prostituirlo per lucro.
È giusta la gratitudine per cose che non si è comprate;
non ce ne sarà mai per un letto che hai pagato caro.
Il compratore ha dato tutto, quando il prezzo è pagato;
non ti resta debitore per il favore che hai concesso.
Evitate di pattuire un prezzo per la notte, belle mie:
un bottino guadagnato ignobilmente non porta mai bene.
Non valeva la pena di patteggiare bracciali sabini,
perché le armi schiacciassero la testa alla sacra vestale.
Il figlio trafisse con il ferro il ventre da cui era nato
e un monile fu la causa di questa pena scellerata.
Non che sia sbagliato chieder regali ad un ricco:
ha di che accontentare chi gli chiede dei regali.
L’uva coglietela solo quando pende da viti piene,
i frutti li offra il campo di Alcinoo che è generoso.
Il povero mette a suo conto devota e appassionata fedeltà;
ciascuno ponga nelle mani della sua signora quello che ha.
È poi mio dono celebrare le donne meritevoli la poesia:
diventa famosa grazie alla mia arte quella che voglio io.
Le vesti si strappano, si rompono gli ori e le gemme,
la fama che daranno i miei versi durerà in eterno.
Non dare, ma sentirmi chiedere un prezzo mi disgusta;
quel che ti nego se lo chiedi, non prenderlo: lo darò.
Libro II
Elegia n. 12
Venite a cingere le mie tempie, lauri trionfali!
Ho vinto: ecco Corinna è tra le mie braccia.
Su di lei vegliano l’amante, il custode, una salda porta,
tanti nemici, affinché non la si potesse conquistare
con nessuna astuzia. La vittoria degna di particolare gloria
è questa: la preda, qual sia, non è intrisa di sangue.
Non basse mura o fortezze cinte da piccoli fossati,
ma una fanciulla è stata presa con il mio piano.
Quando Pergamo cadde vinta in una guerra bilustre,
fra tanti qual era la parte di gloria degli Atridi?
La mia gloria invece particolare, da non dividersi con nessun soldato,
e nessun altro può rivendicare il vanto dell’impresa:
io condottiero, io soldato sono giunto alla meta
del mio desiderio: fante , cavaliere, alfiere.
Né la fortuna ha mischiato il caso alle mie imprese;
vieni a me, o trionfo creato dal mio travaglio!
La mia fanciulla non causò una nuova guerra. Se la Tindaride non fosse
Stata rapita, Asia e Europa sarebbero state in pace.
Una donna trasse vergognosamente a guerra
Tra le mense i silvestri Lapiti e il popolo biforme.
Una donna spinse i Troiani a cominciare nuove
guerre sul tuo regno, o giusto Latino.
Donne scagliarono i suoceri sui Romani, quando l’Urbe
era recente, e suscitarono una crudele lotta.
Vidi con i miei occhi tori combattere per una nivea sposa:
la giovenca stessa, spettatrice, ne istigava il furore.
Me pure, al pari di molti, Cupido spinse a sollevare
le insegne della sua milizia, ma senza strage.
Libro III
Elegia n.9
Se Memnone la madre, se la madre Achille pianse,
e tocca il cuore a grandi dee un destino di dolore,
sciogli, Elegia, nel pianto i capelli innocenti:
ah!, troppo veritiero sarà ora il nome che t’è dato!
Il vate famoso della tua opera, il tuo onore Tibullo,
brucia, un corpo inerte su di un rogo accatastato.
Ecco che il bimbo di Venere porta rovesciata la faretra,
e l’arco spezzato e la fiaccola spenta, senza luce;
guarda come avanza ad ali abbassate in segno di dolore
e si batte il petto a colpi violenti con la mano aperta.
Si intridono di lacrime i capelli, sparsi sopra il collo,
e il volto risuona dello scuotere dei singulti.
In questo stato, alla morte di suo fratello Enea
dicono sia venuto fuori, Iulo bello, da casa tua?
Alla morte di Tibullo non fu meno sconvolta Venere,
di quando al giovane un cinghiale feroce squarciò l’inguine.
Eppure siamo chiamati vati sacri e cura degli dèi;
c’è chi pensa che abbiamo un che di divino anche noi.
È chiaro che morte crudele ogni sacralità profana,
su ogni cosa lei pone le proprie oscure mani.
A cosa servì il padre a Ismario, a cosa la madre o Orfeo,
a cosa servì lasciare attonite le fiere, vinte dal canto?
Anche a Lino nei boschi “Ahi Lino!” lo stesso padre
Si racconta abbia cantato sulla lira riluttante.
Aggiungi il Meonide, da cui, come da fonte perenne,
le bocche dei poeti di acque delle Pieridi son bagnate:
anche lui l’ultimo giorno ha sommerso nel nero Averno;
solo la poesia sfugge ai roghi avidi della Morte.
Resta l’opera dei poeti, la fama delle pene di Troia
e la tela lenta, disfatta con l’inganno di notte:
così Nemesi a lungo, così a lungo Delia avranno nome,
una da poco nei suoi pensieri, l’altra primo amore.
A che giovano i riti sacri? Ed i sistri dell’Egitto?
A cosa serve dormire da soli in un vuoto letto?
Quando un destino malvagio (perdonatemi se lo dico)
rapisce i buoni, mi sento di credere che non ci sia un dio.
Vivi devoto, morirai; devoto onora i riti: mentre lo fai
morte crudele ti trarrà dal tempio a una fossa vuota.
Confida nella buona poesia: ecco qui steso Tibullo;
ciò che resta di uno così grande sta in una piccola urna.
Le fiamme di un rogo ti hanno portato via, sacro vate,
ma non hanno avuto riguardo di nutrirsi del tuo cuore?
Templi d’oro di sacri dèi avrebbero potuto bruciare,
fiamme che hanno sopportato un così grande orrore.
Distoglie il volto colei che possiede la rocca di Erice:
c’è anche chi dice che non riuscì a trattenere le lacrime.
Meglio però questo, che se una terra come quella dei Feaci
l’avesse sepolto senza riconoscerlo in un suolo vile.
Qui almeno ti ha chiuso gli occhi umidi mentre te n’andavi
tua madre, e ha portato sulle tue ceneri i doni estremi;
qui tua sorella, triste, unita alla madre nel dolore,
è arrivata, dopo aver strappato le chiome disadorne
e con i tuoi Nemesi e l’altra che venne prima di lei
unirono i loro baci, non hanno lasciato il rogo solo.
E Delia andandosene disse: “Sono stata con più fortuna
amata da te: finché ero la tua fiamma, tu eri in vita”.
E Nemesi a lei: “Perché ti addolori delle mie sventure?
Ha abbracciato me morendo, mentre la mano perdeva vigore”.
Ma se di noi qualcosa, che non sia un nome e l’ombra,
rimane, il posto di Tibullo sarà nella valle degli Elisi.
Incontro a lui verrai, con le giovani tempie cinte d’edera,
insieme al tuo amico calvo tu, Catullo, poeta di cultura;
anche tu, se è falsa l’accusa d’amicizia profanata,
Gallo, tu che il sangue e la tua vita hai sacrificato.
Con queste andrà la tua ombra, se c’è un’ombra del corpo;
hai mostrato, Tibullo, tanta bontà nei tuoi versi.
Ossa, vi prego, riposate sicure nella pace dell’urna,
e non faccia sentire il suo peso alle tue ceneri la terra!
Elegia n. 15
Cerca un nuovo poeta, madre dei teneri Amori:
qui per l’ultima volta sfiorano la meta le mie elegie,
composte da me, figlio della campagna peligna
(né mi fecero disonore i miei carmi voluttuosi),
e se ciò vale qualcosa, erede antico, fin dai proavi,
non fatto di recente cavaliere nel turbine
della guerre. Mantova è fiera di Virgilio, Verona di Catullo;
io sarò detto gloria della gente peligna,
che la propria libertà spinse a onorata guerra quando
Roma in ansia temette gli eserciti alleati.
E qualche straniero guardando le mura dell’umida Sulmona,
che occupano pochi iugeri di terra, dirà:
“Voi avete potuto generare un così grande poeta,
per quanto piccole siate, vi chiamo grandi”.
Elegante fanciullo, e tu, dea di Amatuente, madre
dell’elegante fanciullo, svellete le aure insegne
dal mio campo. Il cornigero Lieo mi ha punto con maggiore
tirso; devo battere con grandi cavalli
un’arena più grande. Addio, molli elegie, Musa
voluttuosa, opera che rimarrà dopo la mia morte.
MODICA, 06/11/2024
PROF. BIAGIO CARRUBBA
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