LA BELLEZZA DELLA POESIA LATINA (5).

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DALLE “ELEGIE” DI SESTO PROPERZIO (50 a.C. – 15 a.C.).

LE ELEGIE PIU’ BELLE DEDICATE, ISPIRATE E CENTRATE SU CINZIA.

ELEGIE DI PROPERZIO.

BIOGRAFIA DI PROPERZIO.

Sesto Properzio nacque ad Assisi intorno al 50 a.C., da famiglia agiata appartenente alla classe equestre. Da giovane si trasferì a Roma dove entrò in contatto con il circolo di poeti neoterici suoi coetanei, tra cui il giovane Tullo, nipote di L.V. Tullo che fu Console con Ottaviano nel 33 a.C. e con il quale entrò in stretta amicizia. A Roma Properzio conobbe una donna, una liberta, di cui si innamorò subito e che la seguì per cinque anni. Il vero nome di Cinzia era, però, Hostia. Da questa esperienza amorosa, Properzio scrisse il suo primo libro di elegie nel 29 a.C. e pubblicato nel 28 a.C.. Il libro ebbe un immediato successo in tutta Roma e attirò l’attenzione di Mecenate che lo fece entrare nel suo circolo poetico, accanto ad altri grandi poeti come Orazio e Virgilio. Properzio, nella Elegia numero 34 del secondo libro, annunziò, per primo, la composizione dell’Eneide di Virgilio. Il poeta pubblicò il secondo libro di elegie  nel 25 a.C., dopo la morte di Cornelio Gallo, avvenuta nel 26 a.C.. Pubblicò il terzo libro di elegie nel 22 a.C., dopo la morte del nipote di Augusto, Marcello, avvenuta l’anno prima nel 23 a.C.. Properzio pubblicò il quarto ed ultimo libro di elegie nel 16 a.C.. Morì, probabilmente, poco dopo, nel 15 a.C.. Cinzia morì nel 20 a.C.. Questi quattro libri di elegie, che hanno il titolo di “ELEGIE”, hanno dato fama fra i poeti elegiaci della Roma antica e immortalità al suo autore.

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Le Elegie di Properzio

Properzio, nel primo libro, racconta la storia del suo amore e della sua passione per Cinzia, una donna che si mostrava verso il poeta, a volte corrispondente, e, a volte indifferente (Levitas: volubile incostanza). Il giovane poeta è preso dal fascino di Cinzia e segue completamente tutti gli umori e gli stati d’animo della cortigiana. Esegue, insomma, il servitium amoris che era già il modello di comportamento dei poeti neoterici. Properzio, nel secondo libro continua a raccontare sempre l’amore tra lui e Cinzia  e le loro avventure e disavventure amorose, ma esprime anche tutto il suo dispiacere di fronte ai continui tradimenti erotici di Cinzia. Properzio, nel terzo libro, continua a raccontare sempre la storia d’amore con Cinzia, ma alla fine del libro il poeta, vedendo i continui tradimenti e i suoi ripetuti spergiuri decide di abbandonarla e staccarsi completamente da lei. Properzio, nel quarto libro, infine, racconta la storia eziologica di alcuni luoghi, riti, feste e personaggi della Roma antica. La seconda Elegia è dedicata al Dio Vertumno. Invece la settima e ottava elegia concludono la storia d’amore tra Sesto e Cinzia, la quale, dopo la sua morte, riappare al poeta sotto forma di ombra e gli dice quali sono le ultime azioni che il poeta deve compiere affinché lei riposi in pace.

Il poeta scrive, così, l’epigrafe sopra la tomba di Cinzia:

“QUI, IN TERRA TIBURTINA, GIACE LA SPLENDIDA CINZIA;

GLORIA, O ANIENE,  SI E’ AGGIUNTA ALLE TUE RIVE”.

L’ultima elegia del quarto libro è dedicata ad una nobil donna romana Cornelia, che morì nel 16 a.C, sposa di Lucio Emilio Paolo. In questa ultima elegia Properzio fa un grande elogio di Cornelia considerata una matrona romana piena di virtù e moglie fedele di suo marito. L’elegia termina con l’augurio di Cornelia a suo marito:

“Ho finito di perorare la mia causa. Testimoni in pianto per me,

alzatevi, mentre la terra benigna mi ripaga del sacrificio della vita.

Il cielo si apre alle caste indoli: possa con i miei meriti

essere degna che le mie ossa siano portate tra gli illustri avi”.

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Properzio, in queste Elegie, racconta e descrive la sua storia d’amore e il suo tormento interiore dovuto ai capricci, alla perfidia e ai tradimenti amorosi di Cinzia. Properzio, all’inizio della storia d’amore, sopporta i tradimenti di Cinzia, ma poi, alla fine della storia amorosa, la rifiuta e non accetta più la Cinzia fedifraga, per cui decide di abbandonarla. Questo tragitto personale corrisponde anche alla posizione politica ed ideologica che Properzio si trova a vivere nella cultura augustea. Infatti Properzio, appena arrivato a Roma, elogia l’amore libero e libertino, ma poi convinto da Mecenate ad entrare nel circolo augusteo, a poco a poco, abbandona le posizioni iniziali e accetta i valori e la politica di Augusto che in quegli anni si era fatto promotore dei valori tradizionali romani. Per questo motivo si può dire che il libro delle Elegie di Properzio compie così “L’integrazione difficile” di cui parla il critico letterario Antonio La Penna per il quale tutta l’opera di Properzio ripercorre il tragitto della originaria posizione di Properzio che, all’inizio, elogiava l’amore furente, passionale e era molto distante dalla ideologia augustea per arrivare,  alla fine, invece, ad accettare i valori tradizionali del mos maiorum e così essere integrato nella ideologia della restaurazione di Ottaviano.

Libro I

Prima elegia.

Cinzia per prima m’irretì, sventurato, con i suoi dolci occhi,

quand’ero ancora intatto dai desideri della passione.

Allora Amore abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo

e mi oppresse il capo sottoponendolo al dominio dei suoi passi,

finché m’insegnò crudele a odiare le fanciulle caste

e a condurre una vita priva di qualsiasi saggezza.

E ormai da un anno intero questa follia non mi abbandona

mentre sono costretto ad avere gli dèi avversi.

Milanione, o Tullo, disposto a non fuggire nessun travaglio,

infranse la crudeltà della dura figlia di Iasio.

Egli infatti errava talora, folle, per gli anfratti

del Partenio, e andava a scovare le irsute fiere;

e anche, percosso da un colpo di clava dal centauro Ileo,

giacque ferito e gemente sulle rupi d’Arcadia.

Dunque poté così domare la veloce fanciulla:

tanto in amore valgono le preghiere e i benefizi.

Per me Amore impigrito non escogita alcun espediente,

né ricorda di percorrere, come prima, le note vie.

Ma voi che traete giù dal cielo con ingannevoli arti

la luna, e compite riti propiziatorii sui magici fuochi,

orsù mutate l’animo di colei che mi signoreggia,

e fate che il suo volto divenga più pallido del mio!

Allora crederò che voi potete guidare il corso

degli astri e dei fiumi con gli incantesimi della donna di Cytaia (?).

E voi amici, che tardaste troppo a sollevare il caduto,

cercate aiuti per un cuore ormai infermo.

Sopporterò con saldezza le torture del ferro e del fuoco,

purché sia libero di dire ciò che l’ira mi detta.

Portatemi in mezzo a popoli e a mari remoti,

dove nessuna donna possa conoscere il mio cammino:

voi, il cui dio accondiscende con favorevole orecchio,

rimanete, e l’amore vi sia sempre sicuro e reciproco.

Quanto, a me, la mia Venere mi travaglia con amare notti,

e Amore non mi abbandona mai lasciandomi libero.

Vi ammonisco, evitate questo male: ognuno indugi

nella propria passione, né si stacchi da un sentimento consueto.

Ché se alcuno tarderà ad ascoltare i miei ammonimenti,

ahi, con quanto dolore ricorderà le mie parole!

Elegia XIX

Adorata Cinzia, non temo i tristi Mani,

né voglio ritardare i fati dovuti all’estremo rogo;

ma che una volta spirato, per caso rimanga privo del tuo amore,

ciò temo, più duro della stessa morte.

Non così lievemente il dio fanciullo s’impresse

sui  miei occhi al punto che la mia polvere ne sia priva,

smemorata d’affetto. Laggiù, nei tenebrosi recessi,

l’eroe filàcide non poté dimenticare l’amata sposa,

ma desiderosa di stringere in un vano abbraccio la sua fonte di gioia,

il Tessalo, ormai ombra, raggiunse l’antica dimora.

Laggiù, comunque sarò, sia pure soltanto fantasma,

sarò detto tuo: un grande amore varca anche le rive fatali.

Laggiù vengano in coro le belle eroine,

parte del bottino dardanio agli eroi argivi,

nessuna di loro, o Cinzia, mi sarà più gradita

della tua bellezza e (ciò mi conceda la giusta Terra)

anche se ti trattenga una sorte di lunga vecchiezza,

le tue ossa saranno sempre care al mio pianto.

Possa tu, viva, sentire ciò sul rogo che mi arde.

Allora la morte non mi sarebbe amara dovunque.

Ma come temo, o Cinzia, che spregiato il sepolcro,

Amore crudele ti distolga dalle mie ceneri e t’induca

ad asciugare malvolentieri le fluenti lagrime! Una fanciulla,

per quanto fedele, si piega ad assidue minacce.

Perciò noi amanti, finché si può, godiamo:

mai nessuno tempo l’amore è lungo abbastanza.

Libro II

Elegia XV

Oh me felice, o notte per me splendida,

e dolce letto reso beato dalla mia delizia!

Quante parole ci siamo detti distesi accanto alla lucerna,

e quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato,

allontanato il lume. Infatti ella ora lottava con me

a seni nudi, ora indugiava a lungo coperta dalla tunica.

Ella con le labbra mi aprì gli occhi assonnati,

e disse: “Così, insensibile, giaci?”.

Come abbiamo intrecciato le braccia in diverse forme d’amplesso!

Quanti lunghi baci ho impresso sulle tue labbra!

Non giova guastare i piaceri di Venere con movimenti ciechi;

se non lo sai, gli occhi sono la guida dell’amore.

Si dice che lo stesso Paride si consunse vedendo nuda la Spartana,

mentre si alzava dal talamo di Menelao;

nudo anche Endimione, narrano, conquistò la sorella di Febo,

e giacque a sua volta insieme con la dea nuda.

Se invece tu con animo ostinato ti adagerai vestita,

ti strapperò la veste e proverai la forza delle mie mani;

e anzi se l’ira da te provocata mi spingerà a trascendere,

dovrai mostrare a tua madre le braccia ferite.

Non ancora dei seni cadenti ti impediscono tali giochi:

badi a queste cose colei che si vergogna di avere già partorito.

Finché i fati ce lo permettono, saziamoci gli occhi di amore:

viene per te una lunga notte,

e il giorno non tornerà. Oh volessi che una catena ci avvincesse

così che nessun giorno ci potesse più separare.

Ti siano d’esempio le colombe congiunte in amore,

il maschio e la femmina stretti in un connubio totale.

Erra colui che cerca la fine di un folle amore:

un amore vero non conosce alcun limite né misura.

La terra ingannerà con false messi gli aratori,

e più presto il sole spingerà i cavalli neri,

e i fiumi cominceranno a far rifluire le acque alla sorgente,

e i pesci saranno asciutti nei gorghi disseccati,

che io possa rivolgere altrove i miei affanni d’amore;

di lei sarò vivo, di lei morrò!

Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti,

anche un anno di vita sarà lungo.

Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:

chiunque in una sola notte può trasformarsi in un dio.

Se tutti desiderassero trascorrere una tale vita,

e giacere con le membra oppresse da molto vino,

non vi sarebbe il crudele ferro né una nave da guerra,

e il mare di Azio non travolgerebbe le nostre ossa,

né Roma espugnata tante volte dai propri trionfi,

sarebbe stanca di sciogliere i suoi capelli.

Questo certo potranno elogiare di me i miei discendenti:

le mie coppe non hanno mai offeso alcuno degli dèi.

Tu ora, mentre il giorno splende, non lasciare i frutti della vita:

se mi darai tutti i tuoi baci, me ne darai pochi.

E come i petali si distaccano dai serti avvizziti,

e li vedi galleggiare sparsi nelle coppe,

così per noi, che ora amanti nutriamo un vasto sentimento,

forse il domani concluderà i fati.

Libro III

Elegia I

Spirito di Callimaco, e sacri riti del coo Filita,

vi prego, permettetemi di entrare nel vostro bosco,

per primo io, sacerdote, mi accingo a guidare dalla pura fonte

tra i misteri italici la schiera greca.

Ditemi, in quale antro entrambe modulaste i carmi?

Con quale piede entraste?  Quale acqua beveste?

Ah, lontano da me chiunque trattiene Febo tra le armi!

Scorra levigato con sottile pomice il verso

per cui la sublime Gloria mi solleva da terra,

e la Musa nata da me trionfa sui cavalli inghirlandati,

e sul cocchio gli Amori fanciulli sono trasportati con me,

e una folla di scrittori fa da corteggio alle mie ruote …

Perché contendete con me inutilmente a briglia sciolta?

Non è dato correre alle Muse per un’ampia via.

Molti, o Roma, aggiungeranno agli annali la tua gloria,

e molti canteranno che Bactra sarà il confine dell’impero:

ma un’opera che tu possa leggere in tempo di pace,

la mia pagina l’ha tratta giù dal monte delle Sorelle

per una via sinora non percorsa. Date, o Pegasidi, molli corone

al vostro poeta; non si confà al mio capo un duro serto.

Ma ciò che a me vivo ha sottratto l’invida turba,

dopo la morte me lo renderà l’Onore in misura raddoppiata.

Il tempo dopo il trapasso fa divenire tutte le cose più grandi,

dopo le esequie, la rinomanza corre più vasta sulle bocche.

Infatti chi saprebbe che una rocca fu abbattuta da un cavallo di abete,

e che i fiumi contrastarono l’eroe emonio,

l’idèo Simoenta e lo Scamandro, prole di Giove?

E che Ettore insanguinò tre volte le ruote che lo trascinavano sui campi?

A stento Deifobo ed Eleno e Polidamante e Paride,

qualunque ne fosse il valore nelle armi, sarebbero noti alla loro terra.

Ora si parlerebbe appena di te, Ilio, e di te,

Troia, abbattuta due volte dalla potenza del dio etèo.

E quell’illustre Omero, cantore della tua fine,

sentì accrescersi la fama dalla sua opera tra i posteri.

Me Roma loderà fra i suoi tardi nipoti.

Io stesso prevedo quel giorno, quando sarò cenere.

A una pietra che indichi le mie ossa in un sepolcro non spregiato,

ho provveduto io, se il dio licio esaudisce i miei voti.

Elegia II

Intanto ritorniamo nel cerchio della nostra poesia;

si compiaccia la fanciulla emozionata dal consueto canto.

Tramandano che Orfeo con la sua lira tracia trattenesse le fiere

e arrestasse i fiumi resi impetuosi dalla piena.

E narrano che le rocce del Citerone mosse per virtù di magìa

si unirono spontaneamente per formare le mura di Tebe,

e anzi, o Polifemo, alle pendici del selvaggio Etna,

Galatea piegò al tuo canto i madidi cavalli:

e ci stupiremo dunque se con il favore di Bacco e di Apollo

lo stuolo delle fanciulle venera le mie parole?

Certo la mia casa non poggia su colonne di marmo tenario,

né possiede soffitti dorati fra eburnee travi,

né i miei giardini eguagliano quelli dei Feaci,

l’acquedotto marcio non irriga le mie grotte istoriate;

ma mi tengono compagnia le Muse, e i carmi cari al lettore,

e v’è Calliope, ormai sazia dei miei ritmi.

Fortunata colei chiunque sia, se la celebrano i miei versi!

I miei carmi saranno durevole testimonianza della tua bellezza.

Infatti né il fasto delle piramidi elevate fino alle stelle,

né il tempio di Giove elèo che emula il cielo,

né il tesoro sontuoso del sepolcro di Mausolo,

possono scampare alla estrema condizione della morte.

Le fiamme o le piogge cancelleranno ogni sorta di pregio,

o cadranno vinti dal peso degli anni, sotto i loro colpi.

Ma la fama conquistata con l’ingegno non sarà annullata dal tempo:

l’ingegno ha una sua gloria immune dalla morte.

Elegia XXV

Ero divenuto oggetto di riso tra i convitati nei banchetti

e chiunque poteva divertirsi a sparlare di me.

Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:

rimpiangerai spesso la mia fedeltà mordendoti le unghie.

Non mi lascio commuovere dalle lacrime: conosco già l’inganno della tua arte;

il tuo pianto, o Cinzia, scaturisce sempre da una insidia.

Piangerò, allontanandomi, ma l’offesa è più forte delle lacrime:

tu non vuoi che il nostro legame proceda felice, conveniente ad entrambi.

Ora addio, soglia lacrimante per le mie parole,

addio porta, malgrado tutto, non infranta dalla mia mano irata.

Ma te incalzi la tarda età, se pur celerai gli anni,

e sopraggiungano le squallide rughe della tua bellezza!

Allora possa tu desiderare di svellere dalla radice i capelli bianchi,

mentre lo specchio, ahimè, rimprovererà il tuo volto grinzoso,

e a tua volta respinta, sopportare l’altero disprezzo,

e vecchia lamentarti di subire ciò che un tempo infliggesti.

La mia pagina ti predice tale funesta sorte:

apprendi a temere il destino della tua bellezza.

Libro IV

Elegia VII (Ultima parte)

(L’altezzosa Cinzia parla al poeta ubbidiente).

“Così con le lagrime della morte saniamo gli amori della vita,

ed io nascondo le molte colpe della tua perfidia.

Ma ora ti affido le mie volontà, se per caso ti lasci commuovere,

e se l’erba magica di Clori non ti possiede tutto.

La nutrice Partenie non manchi di nulla nei suoi tremuli anni:

non è mai stata avida con te, e lo avrebbe potuto.

La mia dolce Latri, che trae il nome dal suo lavoro,

non debba porgere lo specchio alla nuova padrona.

E tutti i versi che hai composto nel mio nome,

bruciali per me: cessa di tenere con te le mie lodi!

Strappa dal sepolcro l’edera che nei suoi pugnaci corimbi

si lega alle mie tenere ossa con implicate chiome.

Dove l’Aniene fecondo di frutti si distende nei campi alberati,

e mai sbiadisce l’avorio per la protezione di Ercole,

scrivi su una colonna un’epigrafe degna di me,

ma breve, che possa leggerla il viandante che proviene frettoloso dalla città:

-Qui in terra tiburtina giace la splendida Cinzia;

gloria, o Aniene, s’è aggiunta alle tue rive-.

E tu non disprezzare i sogni che giungono dalle porte dei beati:

se vengono, tali sacri sogni, devono avere un senso.

Di notte vaghiamo, la notte rende libere le ombre rinchiuse;

tolte le sbarre, anche Cerbero erra.

All’alba l’inferna legge c’impone di tornare agli stagni del Lete:

c’imbarchiamo, e il nocchiero soppesa il carico.

Ora ti possiedano altre; ben ti avrò io sola:

sarai con me, e consumerò le tue ossa con le mie ad esse mischiate”.

Dopo che finì di parlarmi con tono di dolente rimprovero,

l’ombra si dileguò nel mezzo del mio abbraccio.

Elegia XI (Ultima parte)

(Parla Cornelia rivolgendosi al marito Paolo).

Se poi egli memore si appagherà di restare fedele alla mia ombra,

e stimerà che tanto valgono le mie ceneri,

sin da ora imparate a preoccuparvi della sua futura vecchiaia,

e nulla tralasciate per lenire i suoi affanni di vedovo.

Il tempo che è stato sottratto a me, si aggiunga ai vostri anni:

così, grazie alla mia prole, Paolo si consoli di essere vecchio.

E’ bene così: io madre non ho mai vestito a lutto:

e tutta la schiera dei congiunti venne alle mie esequie.

Ho finito di perorare la mia causa. Testimoni in pianto per me,

alzatevi, mentre la terra benigna mi ripaga del sacrificio della vita.

Il cielo si apre alle caste indoli: possa con i miei meriti

essere degna che le mie ossa siano portate tra gli illustri avi.

Finale

Io, Biagio Carrubba, ancora una volta, ammiro la bellezza della poesia latina, perché ritengo le ELEGIE di Properzio un’opera poetica magnifica e bella. Infatti ritengo che quest’opera poetica sia piena di fascino che perdura fino ad oggi. Come è noto, le ELEGIE di Properzio furono il modello elegiaco, ben presto, imitato dal grande poeta latino Ovidio che lo emulò nella sua prima opera elegiaca dal titolo “Amores”. Credo, inoltre, che anche il grande poeta Francesco Petrarca abbia preso molto da quest’opera di Properzio. Infine dico che la più bella elegia tra tutte è l’elegia numero XV del secondo libro dove Properzio, oltre a riaffermare la poetica del carpe diem, elogia ed invita a godere dell’amore fisico delle donne, le quali con le loro notti d’amore e con la loro bellezza, trasformano l’uomo in Dio. Ecco i tre bei versi che esprimono questo concetto:

“Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti, anche un anno di vita sarà lungo.

Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:

chiunque in una sola notte può trasformarsi in un Dio”.

MODICA, 04/11/2024     

PROF. BIAGIO CARRUBBA

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