Biografia di Decimo Magno Ausonio
D.M. Ausonio nacque a Burdigala (attuale Bordeaux) intorno al 310 d.C., studiò a Tolosa da suo zio E.M. Arborio. Nel 328 Ausonio ritornò a Bordeaux. Nel 334 d.C. cominciò ad insegnare grammatica e si sposò con una nobile fanciulla di nome Attusia Lucana Sabina. Da questo matrimonio nacquero tre figli, ma ne sopravvissero due. La moglie morì intorno al 343 d.C. quando aveva appena 28 anni. Il poeta non si risposò più e rimase vedovo per tutta la vita. La famiglia della giovane sposa gli aprì, comunque, le porte della politica. Insegnò per 30 anni retorica fino al 364 d.C. quando fu chiamato dall’Imperatore Valentiniano I a Treviri per istruire il figlio Graziano che diventò Imperatore dal 375 d.C. fino al 383 d.C..
Dopo la morte di Graziano, Ausonio si ritirò nella sua villa di Bordeaux, per scrivere e curare le sue ultime opere. Morì intorno al 393 – 394 d.C.,. D.M. Ausonio scrisse per tutta la sua vita su moltissimi argomenti, sia politici sia famigliari e sia poetici e in svariati generi metrici e le sue opere furono pubblicate con il titolo Opuscola (Operette).
Io, Biagio Carrubba, ho scelto da tutta la sua opera tre lacerti differenti nel genere metrico, ma che hanno in comune il tema dell’amore. Il primo lacerto, molto bello, è un epigramma scritto intorno al 325 – 326 d.C. quando la moglie era ancora in vita.
Ecco il testo dell’epigramma.
A SUA MOGLIE
Torniamo a vivere, o moglie mia, i giorni vissuti e chiamiamoci ancora coi nomi che ci siam dati la prima notte; il tempo, coi sui giorni che passano, non cambi nulla per noi; che io sia sempre per te il tuo ragazzo e tu per me la mia fanciulla. Anche s’io fossi più vecchio di Nestore e tu fossi vittoriosa rivale della cumana Deifobe, ignoriamo che cosa sia la maturità della vecchiaia. Conviene conoscere il valore dell’età, non contarne gli anni.
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Il secondo testo, delizioso e discreto, riguarda la descrizione di un matrimonio: preparativi, pranzo di nozze, uscita della sposa, uscita dello sposo, doni e l’entrata nel talamo nuziale. Ausonio scrisse questa operetta con il titolo Cento Nuptialis (Centone nuziale) su richiesta dell’Imperatore Valentiniano I che ne aveva scritto una sullo stesso argomento. Ausonio alla fine dell’opera si scusa con i lettori perché ha descritto la Prima notte di nozze su richiesta dell’Imperatore e il suo intento non era altro che quello di far ridere il pubblico. Questa operetta è un centone virgiliano; infatti Ausonio utilizza moltissimi versi presi dalle opere di Virgilio, ma li adatta al suo intento e alla nuova opera, per esaudire il desiderio dell’Imperatore. Questa operetta fu scritta intorno al 368 d.C..
Ecco il testo del lacerto che ha per titolo Imminutio (Deflorazione).
“Quando, soli soli, sono vicini nell’ombra della notte e la stessa Venere li anima, essi si apprestano a nuovi combattimenti. Egli si leva tutto dritto: nonostante ogni inutile sforzo di lei, egli si incolla alla sua bocca e al suo viso, la incalza pieno do ardore, cercando di raggiungere perfidamente parti più riposte: estrae di tra le cosce una verga, che le vesti celavano, rossa come le sanguinanti bacche dell’ebbio e come il cinabro, dalla testa scoperta e dai piedi allacciati, orribile mostruosità, deforme, enorme e cieca e, bruciando, preme la sposa tremante. In un luogo appartato, dove conduce uno stretto sentiero, vi è una fessura infiammata e palpitante, dalla cui opacità fuoriescono esalazioni mefitiche. Nessun essere puro ha diritto, senza commettere colpa, di soffermarsi sulla sua soglia. Là si apre una orribile caverna dalle cui fosche profondità si effondono esalazioni che offendono l’odorato. Là si dirige il giovane per vie conosciute. Stendendosi sulla vergine egli conficca i nodi e la dura scorza del suo giavellotto con lo slancio di tutte le sue forze. Si è confitto il dardo e beve, dal profondo, il sangue virginale. Risuona e geme la cava caverna. Ella, sul punto di morire, vuol tirare fuori l’arma con la mano, ma, tra le ossa la punta è penetrata troppo a fondo nella ferita delle carni vive. Tre volte sollevandosi e appoggiandosi sul cubito, ha cercato di raddrizzarsi, tre volte è ricaduta sul letto. Quello, imperterrito, sta confitto. Senza indugio, senza riposo: attaccato e incollato al suo chiodo non smetteva per nulla e volgeva gli occhi verso le stelle. Va e viene con ritmo cadenzato e, colpendo il ventre, trapassa i fianchi e batte col suo archetto d’avorio. Già sono quasi alla fine della corsa e, affaticati, si avvicinano al termine: allora un compresso anelito scuote le loro membra e le loro labbra riarse, da tutte le parti cola a rivoli il sudore; egli, sfinito, viene meno e un liquido sprizza a gocce dal suo inguine”.
Il terzo testo è tratto da un’opera intitolata Parentalia (I Parentali). E’ una bellissima commemorazione nel confronti della moglie che era morta ormai da molti anni, ma che per lui rimaneva la sua unica amata moglie. Questa operetta fu scritta intorno al 380 d.C..
ATTUSIA LUCANA SABINA, MIA MOGLIE
Fino a questo momento il mio canto funebre ha celebrato parenti assai cari e ben degni dei pianti versati alle loro esequie; i suoi pii accenti hanno pagato il mio debito alla loro memoria. Ora devo ricordare quello che per me è un dolore, una tortura, un fulmine che mi brucia, la morte della mia sposa rapitami immaturamente. Nobili erano i suoi antenati e, di discendenza senatoria, era illustre per nascita, ma più illustre ancora era la mia Sabina per le sue rare virtù. Ancor giovane ti ho pianto, privato dei miei verd’anni delle mie speranze; vedovo, ti piango ancora dopo nove Olimpiadi. Ora, vecchio, non riesco a lenire il mio dolore, che sempre ogni giorno mi si ravviva come se fosse ieri. Che se alcuni riescono a ricevere dal tempo una consolazione alla loro pena, col passare degli anni invece la mia ferita si aggrava. Vedovo, torturo la mia canizie delusa e la solitudine non fa che rendere più tormentosa la mia tristezza. Nel silenzio della casa muta, nel gelo del letto, la mia ferita si allarga, poiché non posso render partecipe nessuno né di dolori né di gioie. Mi sento afflitto se altri ha una buona moglie, ancor più mi affliggo se ne ha una malvagia: tu sei sempre presente come punto di paragone. Nell’un caso e nell’altro, il pensare a te è per me un supplizio: se una è malvagia, perché tu sei stata diversa; se è buona, perché sei stata come lei. E non mi rammarico per le ricchezze inutili e nemmeno per i piaceri vani, ma perché così giovane sei stata rapita al tuo giovane sposo. Gaia, pudica, riflessiva, nobile per nascita e per bellezza, tu sei stata il dolore e le fierezza di tuo marito Ausonio. Eri sulla soglia dei ventott’anni, quando hai abbandonato due figli, che erano il nostro pegno d’amore. Per grazia di Dio fioriscono, come avevi sperato, nell’abbondanza di quei beni che desideravi per loro. E faccio voti che crescano vigorosi perché un giorno il mio cenere possa annunziare al tuo che tutti e due sopravvivono.
Io, Biagio Carrubba, ho scelto questi tre lacerti perché li trovo molto belli: il primo è, sicuramente, un atto di gratitudine e di ringraziamento per la moglie ancora in vita; il secondo è simpaticissimo, divertente, ed è, anche, un’eccitante descrizione, erotica e legittima, della prima notte di nozze. Il terzo è, sicuramente, una appassionante e commovente commemorazione di fedeltà e di castità verso la moglie morta ormai da parecchi anni.
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