LA BELLEZZA DELLA POESIA LATINA (3) LA VEGLIA DI VENERE (PERVIGILIUM VENERIS)

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Il Pervigilium Veneris (La veglia di Venere) è un carme latino di 93 versi settenari trocaici e fa parte della raccolta poetica dell’Anthologia latina del VI sec. d.C.. Il componimento poetico è di autore ignoto e la sua datazione oscilla tra il II sec. d.C. e il IV sec. d.C.; ma alcuni studiosi hanno dato altre datazioni più basse (VI sec. d.C.). Alcuni studiosi lo attribuiscono a Floro (II sec. d.C.) altri studiosi, invece, lo attribuiscono a Tiberiano (IV sec. d.C.). Ma, in sostanza, del poemetto non si sa perfettamente né il secolo di scrittura né il luogo di composizione, perché gli studiosi non hanno date e dati certi sul componimento poetico. I dati che offre il testo de “La Veglia di Venere” sono molto vaghi ed imprecisi; per questo motivo la data resta incerta così come resta anonimo il suo autore (o autrice). E’ probabile, comunque, che esso sia stato scritto in occasione di una festa primaverile in onore della dea Venere che si festeggiava all’inizio del mese di aprile, ma non si conosce né il luogo né il tempo di questa festa. Potrebbe essere sia una provincia della Sicilia che una regione dell’Italia o una provincia periferica dell’Impero Romano. Il contenuto del carme descrive, in sintesi, la veglia della festa in onore della dea Venere che viene definita “amorum copulatrix“.
Il carme è composto da 10 strofe o stanze tutte introdotte dal famoso ritornello “Domani, chi non amò mai, ami e chi amò, domani, ami”. Il significato del primo emistichio si riferisce alle vergini che dopo la veglia sono pronte ad amare il proprio promesso sposo, mentre chi già ha amato continuerà ad amare la propria amata. Ecco in sintesi il riassunto delle 10 strofe:
Nella prima strofa l’autore presenta l’arrivo della nuova primavera e il bosco si apre alla pioggia.
Nella seconda strofa il poeta presenta la nascita della dea Afrodite secondo il mito greco. Infatti Esiodo narrava che Afrodite era nata dalla schiuma del mare stillante gocce di acqua marina.
Nella terza strofa il poeta presenta lo sbocciare di molte rose che all’inizio del giorno si sposano con la rugiada lasciandosi dietro il pudore e mostrando tutta la loro bellezza purpurea così come faranno le giovani fanciulle spose ai nuovi amori.
Nella quarta strofa il poeta presenta il comando della dea Afrodite alle sue ninfe di andare nel bosco di mirto accompagnate dal disarmato Cupido.
Nella quinta strofa il poeta presenta l’invito della dea Afrodite alla dea Diana di lasciare sgombro il campo per permettere la corsa dei giovani festeggianti tra corone di fiori e intrecci di mirto.
Nella sesta strofa il poeta presenta la dea Venere, adornata e circondata dai fiori di Ibla e dell’Etna e con accanto le Grazie, che detta le sue leggi dell’Amore a tutti gli esseri viventi.
Nella settima strofa il poeta presenta il mito di Giove che feconda la terra e la dea Venere che dà vita a tutti gli esseri viventi.
Nell’ottava strofa il poeta presenta una brevissima genealogia della stirpe romana da Enea a Cesare Ottaviano Augusto ed oltre.
Nella nona strofa il poeta presenta la nascita di Cupido figlio di Venere dalla madre Terra allevato dalla madre Venere tra morbidi baci di fiori.
Nella decima strofa il poeta presenta alcuni esempi di amori di animali, il toro, il gregge, gli uccelli, i cigni e allude anche al mito di Tereo che tagliò la lingua a Filomela per non farla parlare dell’oltraggio ricevuto. Infine, il poeta riferisce il noto episodio della città di Amicle che fu distrutta dai nemici perché era stato imposto il silenzio ai suoi cittadini che avevano annunziato il falso arrivo dei nemici. A questo punto del carme il poeta fa irruzione con il proprio io e invoca l’arrivo della primavera dato che lui ha perso ogni parola. Il poeta, infatti, esprime tutta la sua solitudine e la sua mancanza di poesia. Vuole rompere il suo silenzio e ritornare a creare poesia ed essere guardato di nuovo da Apollo.
Da questo dualismo, tra i canti e la gioia dei giovani amanti e veglianti di Venere, nasce uno dei temi fondamentali del carme, così come è espresso dal primo paragrafo del libro “La veglia di Venere” dove il curatore così spiega il dramma del carme: “Il carme di Venere si chiude con un improvviso cambio di rotta. Alla iterata felicità del domani (cras), alla forza della dea che sommuove e vivifica, segue assolutamente inattesa, la dimensione personale della solitudine e del dolore. Con una primavera di canti, echeggianti, con una divinità benevola si era aperto il carme (ver novum, ver iam canorum). Con il silenzio, la rovina, gli emblemi di tenebrose saghe tracie e la desolazione di una città perduta, Amicle, esso si conclude”. (Da La veglia di Venere, BUR edizione pagina 7).

La veglia di venere_foto_2
II
Il carme non ha un andamento regolare e simmetrico, bensì composto da 10 strofe diseguali per numero di versi e non è molto coerente nel passaggio tematico da una strofa all’altra. Il filo conduttore del poemetto è quello della celebrazione di Venere come la dea che detta la sua legge dell’Amore su tutti gli esseri viventi animali, flora, ninfe e giovani amanti. Ma nonostante questa diseguaglianza tra le strofe e la disarmonia dei temi, il poemetto risulta, comunque, molto gradevole e bello. Gradevole perché il ripetersi del ritornello conferisce al carme una cadenza e un ritmo molto veloci e melodiosi che rimangono impressi nella memoria dei lettori, così come il ritornello era cantato o recitato dai veglianti e dai giovani che aspettavano con gioia e con trepidazione l’inizio della primavera, l’inizio delle feste in onore della dea Venere e, soprattutto, erano desiderosi di dare inizio ai loro amori. E’ bello perché il carme esprime tutta la gioia e la felicità dei giovani che si apprestavano a vivere i loro amori e perché ci fa rivivere a noi contemporanei, l’ansia e l’attesa per la festa della dea Venere così come si svolgeva nel II o nel IV sec. d.C. nell’Impero Romano. L’irruzione finale del poeta, che esprime tutta la sua desolazione e il suo silenzio, dà al poema un tocco tragico ed inaspettato che lo fa assomigliare a “L’arrivo della primavera ”di Pentadio.
Io, Biagio Carrubba, trovo il poemetto “La veglia di Venere” molto gradevole perché contiene, certamente, ancora a distanza di secoli, una bellezza fresca, ma contenuta e moderata, dovuta alla disomogeneità delle strofe che in qualche modo disturba e sottrae un po’ di bellezza alla perfezione del carme.Il poemetto manca, sicuramente, del finale vero e proprio o di altre stanze che avrebbero proseguito il carme in forma completa e perfetta. E ciò avrebbe dato una maggiore bellezza poetica al carme; ma, forse, è meglio così, cioè rimasto incompleto perché altrimenti il carme sarebbe scaduto in un canto popolare di una sagra paesana, perdendo così la bellezza poetica, che, invece, contiene abbondantemente in modo chiaro e netto.

 Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Nuova primavera! Primavera di canzoni! In primavera nacque il mondo
In primavera si fondono gli amori, si sposano gli uccelli
scioglie la chioma la foresta alla feconda pioggia.
Domani lei, che amori accoppia, fra ombre d’alberi
intreccia verdi rifugi con virgulti di mirto.
Domani dice le leggi Dione, assisa sul solenne seggio.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

In quel giorno il mare – gorgo di spuma, di celeste sangue –
tra schiere azzurre, tra bipedi cavalli
creò Dione stillante d’amorose acque.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Essa screzia la stagione che si accende di fiorenti perle
essa gli stami che al soffio di Zefiro turgidi si fanno
spinge ai petali amorosi; essa effonde fresche stille
di rugiada lucente, che notturna frescura regala.
Scintillano le lacrime tremule, il peso le fa cadere:
la goccia sull’orlo si arresta facendosi piccola sfera.
Sbocciando già i petali rossi hanno tradito pudore;
la rugiada, che stillano gli astri nelle notti chiare,
domani scioglie i seni verginali dell’umida veste.
Essa comanda che le vergini, fresche rose vadano spose.
Impasto di sangue di Venere, di baci d’Amore
di gemme, di vampe scarlatte di sole
domani non si vergognerà la rosa d’offrire, sposa con unico legame,
l’acceso fiore, ora segreto sotto fiammeggiante veste.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

La dea ha mandato le Ninfe nel bosco di mirti:
e con le belle si avvia il ragazzo: non si può pensare
che faccia festa Amore, se ha impugnato i dardi.
Andate Ninfe, Amore ha deposto le armi, fa festa;
ha il comando di andare senz’armi, nudo
non deve ferire, né d’arco, né di freccia, né di fiamma.
Ma state in guardia, Ninfe, poiché Amore è bello:
è tutto armato, proprio quando è nudo, Amore

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Venere manda da te le sue vergini con pari pudore.
Una sola cosa chiediamo: piégati, vergine Delia,
fa’ che il bosco non s’arrossi di cacce selvagge!
Te lo chiederebbe lei, la dea, se potesse piegare il tuo pudore.
Vorrebbe, la dea, che tu venissi, se fosse posto per una vergine.
Già vedresti nelle tre notti i festanti cori
percorrere le tue radure a schiera
fra corone di fiori, fra intrecci di mirto.
Non manca Cerere, non manca Bacco, né il dio di poesia.
Tutta l’intera notte si sta svegli in canzoni:
regni nel verde Dione. Tu ritirati, Delia!

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Comandò la dea che il suo trono s’ergesse su corolle d’Ibla.
Sovrana dirà lei le leggi: al fianco, le sue Grazie.
Ibla, spargi i fiori, quanti tutto l’anno regala;
Ibla, vestiti di fiori, quanto si distende Etna.
Qui ci saranno le belle del piano, le belle del monte,
le belle che stanno nei boschi, in foreste, nei fonti.
La madre del fanciullo alato comandò che tutte fossero presenti
e comandò che nulla cedessero le belle a nudo Amore.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

E dia verdi ombre ai freschi fiori.
Domani sarà il giorno, quando Etere antico strinse nozze
per dar vita alla stagione con le sue nubi primaverili.
Coniugale pioggia fluì nel grembo alla fertile sposa
per fondersi al gran corpo, e nutrire ogni frutto.
Lei, la dea della vita, con spirito che invade mente e sangue
con misteriosa forza, dentro, tutto regge
attraverso cielo, terre e fondo mare
inaugurò il suo libero scorrere in tracce
di vita, ordinò al tutto di scoprire le strade della vita.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Essa le genti troiane trasfuse nel Lazio,
essa la fresca Laurente diede per sposa a suo figlio;
poi la vergine casta concede, dal tempio, a Marte.
Essa romulee nozze creò con genti sabine
per dar vita ai Ramnensi, ai Quiriti e in tempi futuri
alla madre di Romolo, a Cesare suo discendente.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Piacere feconda le zolle, le zolle sentono Venere:
anche Amore, figlio di Dione, si dice nacque dalla zolla.
Mentre la terra partoriva Amore, lei lo accolse in seno:
essa l’allevò fra morbidi baci di fiori.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

Ecco, già sotto le ginestre i tori s’adagiano
certo, ciascuno, del nodo nuziale che lo stringe.
Sotto l’ombre, coi maschi, ecco le pecore in gregge;
comandò la dea che non stessero muti gli uccelli del canto.
Già i cigni sonori col roco grido assordano gli stagni:
c’è la nota della donna di Tereo sotto l’ombra del pioppo;
diresti che con la poetica voce note d’amore s’esprimano,
non che si pianga la sorella per il selvaggio sposo.
Lei canta, noi tacciamo. Quando verrà la mia primavera?
Quando diverrò rondine, e smetterò di tacere?
Ho perduto nel silenzio il canto. Apollo non ha occhi per me.
Anche Amicle distrusse il silenzio mentre tutto taceva.

Domani ami chi non amò mai, e chi amò domani ami!

 

Modica 19/ 03/ 2016 Prof. Biagio Carrubba

Modica 19/ 03/ 2016                                                                                                                     Prof. Biagio Carrubba

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