LA BELLEZZA DELLA POESIA LATINA (17). BRANI SCELTI DA “DE RERUM NATURA” di TITO LUCREZIO CARO (96-53 a.C.).

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LIBRO I

Madre della stirpe d’Enea, somma gioia d’uomini e dei, (v. 1)
alma Venere, che sotto gli astri che trascorrono in cielo
popoli il mare ricco di navi, le terre ricche di messi,
ché solo per te nasce ogni forma di vita nel mondo
e, nata, può vedere la luce del sole: te, o dea,
fuggono i venti; fuggono al tuo arrivo le nubi del cielo;
germina, al tuo passaggio, di fiori soavi la terra
con mutevole grazia; per te ridono le distese del mare
e, fattosi tutto sereno, brilla il cielo di luce diffusa.
Ché appena si schiude il volto della primavera
e, disserrato, ritorna il soffio del vivificante favonio
subito, o diva, gli uccelli dell’aria danno segno di te
e del tuo arrivo, il cuore colpito dalla forza del tuo potere.
Poi fiere ed armenti balzano lungo i pascoli lieti
e attraversano i rapidi fiumi e così, preso da incanto,
ogni animale cupidamente ti segue la dove tu intendi condurlo.
Nei mari infine e sui monti, nelle acque vorticose dei fiumi,
nelle frondose dimore d’uccelli e nelle verdi pianure,
in tutte incutendo nel cuore ogni carezzevole amore,
fai sì che ogni specie si propaghi bramosamente nel tempo.
E siccome tu sola governi la natura delle cose
né senza di te alcunché potrà mai salire alle divine
regioni della luce o divenire lieto ed amabile,
io voglio che sia tu la compagna nello scrivere questi miei versi
che intorno alla natura io mi sforzo di venire componendo
per il nostro Mammiade che tu, o dea, hai voluto
che in ogni tempo eccellesse, dotato di ogni virtù.
Tanto più dunque, o divina, concedi ai miei detti ogni grazia
e fa’ in modo che nel frattempo, sopiti per mare e per terra,
cessino tutti i travagli feroci di guerra.
Tu sola puoi infatti donare una pace tranquilla ai mortali
perché è Marte, l’armipotente, che regge le fiere
opre di guerra; il quale però, vinto dall’eterna ferita d’amore,
spesso tutto in te si raccoglie, nel solo tuo grembo,
e mentre in te volge i suoi occhi, reclinando il capo tornito,
si sazia d’amore in te volgendo i suoi avidi sguardi
e cogliendo, supino, dalle tue labbra il respiro vitale.
Quand’egli così riposa sul tuo corpo santo, tu, o dea,
china soltanto su lui, effondi dalle tue labbra dolci parole
chiedendo per i Romani, o inclita, una pace tranquilla:
né io infatti potrei, in un tempo avverso alla patria,
scrivere serenamente quest’opera, né la nobile stirpe di Memmio
potrebbe, in siffatti frangenti, mancare alla bellezza comune.
Ogni natura divina, di per sé, deve infatti godere
in somma pace di una vita immortale
separata dalle nostre vicende, da esse infinitamente lontana:
esente da ogni dolore, immune da rischi,
potente delle sole sue forze, non bisognosa di noi,
non si piega ai nostri meriti né l’ira la tocca.
Alla vera dottrina ora presta un libero ascolto
e, scevra da qualsiasi altra cura, una mente sagace:
non vorrei che i miei doni che tanto fedelmente ti porgo
vengano, ancor prima d’essere intesi, rifiutati con spregio. (v. 54)

LIBRO II

Tutto infatti deve essere ristorato dal cibo (v. 1146)
a che ne sia sostenuto e ne sia rinnovato;
ma invano, se le vene non tollerano quant’è sufficiente
né la natura fornisce quanto è necessario alla vita.
Già ormai la nostra età è fiaccata e la terra.
Che ha dato vita a tutte le specie e ad esseri dai corpi possenti,
esausta dai parti, non crea che meschini esemplari.
Non fu certo, a quanto io credo, una fune d’oro scesa dal cielo
a calare dall’alto, nei campi, le stirpi mortali,
né le crearono il mare né le onde che batton gli scogli,
ma fu la terra a crearle, che ora le nutre di sé.
E creò anche, al principio, e spontaneamente per i mortali,
le nitide messi e gli ubertosi vigneti;
fu essa a donare i dolci frutti e i pascoli lieti
che ora, invece, si sviluppano a stento, cresciuti dalla nostra fatica.
Vi affatichiamo i buoi, le forze dei contadini;
vi consumiamo il vomere e i campi ci contraccambiano a stento,
tanto sono avari di frutti e accrescono la nostra fatica.
E ormai, scuotendo il capo, il vecchio aratore sospira
che è sempre più spesso nel nulla che cadono le sue gravi fatiche
sicché, quando all’età sua paragona i tempi passati,
loda spesso la buona fortuna del padre.
Ed anche il triste colono di una vecchia vigna avvizzita
incolpa il passare del tempo, incolpa l’età, brontolando
che gli antichi, gente virtuosa e devota,
campavano facilmente la vita sopra un podere ristretto
quando a ciascuno era data molto minore porzione di terra.
Non s’avvede che è invece il tutto che si viene via via consumando
e si avvia a decomporsi, stremato dal lungo corso del tempo. (v. 1174)

LIBRO III

E’ te che da tante tenebre sei stato capace, per primo,
di levare così vivida luce e illuminare le gioie della vita,
è te che seguo, onor della Grecia; ed ora depongo ed imprimo
i miei passi sulle orme dal tuo piede segnate; e non
per il desiderio di gareggiare con te ma perché, pieno d’amore,
intendo imitarti: come, del resto, potrebbe contendere
coi cigni la rondine o un capretto dalle tremule membra
emulare, nella corsa, lo slancio di un forte destriero?
Tu, padre, hai trovato la verità; tu ci prodighi
paterni precetti; dalle tue carte, glorioso maestro,
proprio come le api che sui clivi fioriti delibano tutte le essenze,
noi ci nutriamo di tutte le tue auree parole,
sempre quanto mai degne di no vita immortale.
Appena la tua ragione ha cominciato a proclamare,
in virtù del tuo genio divino, quale sia la natura di tutte le cose,
ecco svanire i terrori del cuore, dileguarsi le barriere del mondo
ed ecco che io vedo ogni cosa prodursi nello spazio infinito.
Appare degli dei la potenza, appaino le lor quiete dimore
Che no scuotono i venti né cospargono le nubi di nembi
né la neve indurita, bianca di gelo, offende cadendo,
ma dove, si d’esse, sempre s’incurva un limpido cielo
e sorride di una luce dovunque e ampiamente diffusa.
Tutti i beni, poi la natura, elargisce
e non c’è cosa che mai disfiori la pace dell’animo.
Al contrario da nessuna parte compaiono i templi acherontei
e la terra non m’impedisce di distinguere tutto ciò che,
sotto di noi, viene compiendo nella profondità dello spazio.
Davanti a tanto spettacolo provo un non so quale piacere divino
ed un brivido perché, grazie al tuo genio,
la natura si è dovunque svelata, aprendosi a noi. (v.30)

LIBRO IV

Non sempre respira però d’un finto amore la donna (v. 1192)
quando, stretta al suo uomo, congiunge i due corpi,
li unisce e copre quello di lui di baci con labbra frementi.
Spesso lo fa con trasporto e cercando un comune piacere
Lo sprona a percorrere fino in fondo il cammino d’amore.
Per quale altra ragione gli uccelli, gli armenti, le fiere,
le greggi o le cavalle vorrebbero sottomettersi ai maschi
se non perché il loro istinto si accende, arde, trabocca
e accolgon con gioia l’amore di chi ei assale?
Non vedi come anche le coppie legate da un comune piacere
spesso si van torturando nei lacci concordi?
Quante volte, nei trivi, due cani che si voglion al fin separare
tirano rabbiosamente in due direzioni contrarie
e pur restano avvinti nei tenaci legami di Venere!
Cosa che non farebbero mai se non conoscessero il mutuo piacere
che li può gettare nella rete e tenerveli incatenati.
Dunque, più che mai, come dico, la voluttà è dell’uno e dell’altra.
Se poi accade, nell’unirsi dei semi, che la donna vinca
prevenendo con uno slancio improvviso il vigore dell’uomo,
i figli nascono simili a lei, in virtù del seme materno,
come ai padri se a prevalere è quello dell’uomo. Ma quelli che vedi
conservare l’aspetto di entrambi mescidando i tratti dei genitori,
sono formati, insieme, dalla sostanza paterna e del sangue materno;
il che avviene solo nel caso che i semi, eccitati dall’impulso di Venere
a spargersi per le membra, sono stati spinti a incontrarsi
da un reciproco ardore concorde,
e nessuno ha vinto od è stato sopraffatto dall’altro. (v. 1217)

LIBRO V

Spesso, per ignoranza, quegli uomini versavano a se stessi il veleno;
ora, meglio istruiti, i nostri lo propinano agli altri.
Quando poi quegli uomini si procurarono e fuoco e pelli e capanne
e la donna, unita ad un uomo, passò in una sola lacuna
invalsero, e i genitori videro i figli da loro creati,
il genere umano cominciò a farsi men rude.
Si deve infatti al fuoco se i corpi, infreddoliti, si resero
meno capaci di sopportare il gelo sotto la volta del cielo;
Venere fiaccò le forze ed i bimbi, con le loro carezze,
mitigarono la fiera indole dei genitori.
Allora i vicini cominciarono anche a stringer tra loro
di buon grado amicizie, a non volersi più danneggiare ed offendere
e, con gesti e con balbettii, raccomandarono
al rispetto donne e fanciulli, esprimendo in tal modo il pensiero
che mostrare pietà per i deboli era giusto per tutti.
Non in tutto, è vero, si poté ottenere concordia,
ma la maggior parte degli uomini mantenne fede agli accordi;
già allora, diversamente, il genere umano sarebbe andato distrutto
né avrebbe potuto protrarre sino a oggi la sua discendenza. (v. 1027)

Ormai gli uomini, al sicuro di solide torri, trascorrevan la vita (v. 1440)
e coltivavan la terra divisa in distinti poteri;
ormai la distesa del mare fioriva di ali di vele
e già tutti, per i patti conclusi, avevano ausiliari e alleati
quando i poeti cominciarono a tramandare le gesta compiute
con i loro poemi: la scrittura era stata trovata da poco.
per questo la nostra età non può penetrare il passato
se non per le tracce che la nostra mente ci lascia intravedere.
Navi e culture dei campi, mura, leggi,
armi, strade, vestiti e altre simili cose,
ed anche le raffinatezze e i vantaggi del lusso
– carmi dipinti, statue di un’arte matura -,
a insegnarli furono via via il bisogno e il travaglio
dell’alacre mente nel suo lento ma progressivo cammino.
Così, passo passo, il tempo manifesta ogni cosa
e la ragione la viene innalzando alla luce. (v. 1455)
Vedevano infatti, nel loro cuore, una cosa chiarirsi con l’altra,
fimo a che, con le arti, raggiunsero la vetta suprema.

LIBRO VI

La morte finì per colmare di corpi senza più vita (v. 1272)
gli stessi santuari dei numi, sì che i templi degli abitanti del cielo
rimanevano ingombri dei cadaveri di tutti quegli ospiti
di cui i guardiani li avevan riempiti.
Ormai non si faceva più conto né del culto
né della potenza divina: soverchiava il dolore dell’ora,
così come non più si osservava il rito della sepoltura
con cui prima, quel popolo, usava celebrare le esequie:
smarriti, tutti vivevano in balia del disordine, e ognuno,
così come poteva comporli, inumava, triste, i suoi morti.
A molti altri orribili atti si giunse per il bisogno e l’urgenza:
non mancò infatti chi ebbe, ad alte grida, a gettare i suoi morti
sopra cataste dei roghi approntate per altri,
subito appiccandovi il fuoco; spesso si preferiva così
azzuffarsi a sangue piuttosto che abbandonare i propri cadaveri. (v. 1286)

Modica 11/ 08/ 2016 Prof. Biagio Carrubba

Modica 11/ 08/ 2016                                                                                                                          Prof. Biagio Carrubba

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