LA BELLEZZA DELLA POESIA LATINA (11). “ELEGIE DELLA VECCHIAIA”, di MASSIMIANO, ILLUSTRE POETA SCONOSCIUTO DEL VI SEC. d.C.

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Il componimento poetico “Elegie della vecchiaia” è stato scritto, in latino, quasi sicuramente, tra il 545 e 555 d.C. dal poeta elegiaco “Massimiano” come lui stesso si auto nomina nella IV elegia dell’opera poetica. Gli studiosi ammettono anche altre date di composizione, ma la data più probante rimane questo decennio. Il componimento poetico è composto di 6 elegie di varia lunghezza.
La prima elegia è composta da 292 versi;
la seconda elegia è composta da 74 versi;
la terza elegia è composta da 94 versi;
la quarta elegia è composta da 60 versi;
la quinta elegia è composta da 154 versi;
la sesta elegia è composta da 12 versi.
Tutte le elegie sono scritte in distici elegiaci.
Il tema dell’opera poetica è La vecchiaia del protagonista Massimiano, il quale racconta la sua vita, partendo dalla sua tarda età. Io, Biagio Carrubba, suppongo che il protagonista avesse, allora, all’incirca 80 anni che, certamente, non erano pochi nel VI sec. d.C.. Il protagonista racconta i suoi amori giovanili, maturi e quello senile: Licoride, Aquilina, Candida, e per ultimo la Fanciulla greca, con la quale il poeta ebbe una relazione amorosa, quando lui doveva avere, all’incirca, l’età di 70 anni. L’opera nel complesso risulta bella e gradevole, stuzzicante e provocante perché viene fuori l’invito a godersi le gioie della vita: la gioventù, il sesso, i cibi e i banchetti. Ma ciò che colpisce di più nell’opera elegiaca è certamente in positivo il lungo elogio finale della mentula, considerata come principio universale della vita. Credo che il poeta si esprima per metonimia e per sineddoche, cioè usa il concreto per l’astratto e quindi menziona il membro al posto dell’Amore universale. L’uso corretto del distico elegiaco, la ricchezza di molte figure retoriche come le similitudini, le metonimie, le sineddoche, gli adynaton e tante altre assicurano al testo poetico una lettura appassionante, gradevole e piacevole.

                                                                 2
                                            Sintesi della prima elegia.

Il poeta, nell’incipit della prima elegia, pone due domande retoriche o reali:
“Perché nemica vecchiaia indugi ad affrettare la fine?
E perché in questo corpo così stanco ti attardi?”
Il poeta poi invoca la morte:
“Libera, ti prego, l’infelice vita da una tale prigione:
ormai la morte per me è una liberazione, vivere è una condanna”.
Dopo questa invocazione, il poeta, sul filo della sua memoria, racconta la sua giovinezza. Fu un avvocato di grido; fu anche un poeta di successo, ebbe anche altre virtù, come la grazia della bellezza e la valentìa del corpo. Andava a caccia con un corpo robusto e sopportava con forza e vigore tutte le avversità della vita. Beveva molto, e a volte, riusciva a vincere, perfino, lo stesso Dio Bacco. Solo la vecchiaia ora lo sottomette e lo fa vivere male. In gioventù corteggiava molte donne ed era anche molto corteggiato, ma non si sposò mai perché cercava la donna ideale che non trovò mai, anche se provò la gioia di molti amori. Ora una lunga lista di malanni lo affliggono, tanto è che vuole morire e così commenta:
“Per gli infelici è dolce morire, ma la morte se agognata, si allontana,
se invece deve essere causa di lutti prematuri, a precipizio accorre”.
Ormai da vecchio ha perso ogni grazia; la sua mente è offuscata, i suoi sensi sono assopiti e non può godersi le gioie della vita: i cibi, le vesti e il sesso. La natura avanza velocemente e tutto travolge e così commenta:
“E’ colpa amare le facezie, è colpa amare i banchetti e i canti?
O infelici coloro i cui piaceri ricadono a colpa”.
Ormai la vecchiaia lo ha sommerso di ridicolo e lui parla e riparla continuamente, senza rendersi conto della derisione degli altri. Il suo portamento è ormai decaduto e il suo corpo è ormai triste e non è più quello giovanile di una volta; la sua corporatura si è ristretta ed incurvata la pelle si è rattrappita; ormai da vecchio, decrepito, invoca la madre terra di riprenderselo e così commenta:
“Tutte le cose ritornano al loro principio e ricercano la madre,
e ciò che prima fu nulla ritorna nel nulla”.
Anche il protagonista invoca la morte e desidera ritornare nella madre-terra perché si sente un miserando cadavere e non sopporta più gli elementi della vita. Il caldo gli nuoce, il giorno gli è molesto e la stessa luce si fa gravosa. A questo punto afferma disperato e affranto:
“Meglio morire di morte risoluta, che trascorrere una vita di morte,
e così seppellire le sensazioni nelle proprie membra”.
Il finale della prima elegia si conclude con la deprecazione della vecchiaia perché il vecchio riceve continuamente contumelie e disprezzi da parte di fanciulli e fanciulle che lo deridono continuamente. Il poeta termina la prima elegia affermando:
“Fortunato chi ha avuto in sorte di trascorrere una vita tranquilla
e di concludere con serena fine i suoi giorni:
per gli infelici è ben duro il ricordo dei beni passati,
più pesantemente rovina quel che cade dalla cima più alta”.

                                                          Finisce con questi versi la prima elegia.

Nota di commento.

Come si evince da questa elegia il protagonista Massimiano doveva essere un oscuro funzionario della corte di un Imperatore gotico che partecipò alla ambasceria con l’Imperatore Giustiniano. Ma il poeta non cita né i due imperatori né la guerra gotico- bizantina svoltasi tra il 535 e il 555 d.C., per cui tutto rimane nel vago e nell’indefinito. Il poeta, comunque, mostra di avere una solida cultura greco-latina, di aver letto “La consolazione della filosofia” di Boezio e di saper usare molto bene la retorica greco-latina e di volere esprimere con forza la sua tesi e cioè: che l’amore è più forte della morte. Infatti nella penultima elegia il poeta fa dire alla fanciulla greca il suo inno all’amore e invita tutti al carpe diem, dettato e proclamato questa volta da una fanciulla anziché da un uomo, così come era sempre avvenuto nella letteratura latina-greca.

Libro elegie della vecciaia

II
Sintesi della seconda elegia.

Il poeta, nell’incipit della seconda elegia, presenta la donna da lui amata nel corso della sua vita. Il nome di questa donna è Licoride, e così la introduce:
“Ed ecco Licoride la bella da me troppo amata,
con cui ebbi uno stesso cuore, una sola vita”.
Il poeta comincia a lamentarsi di Licoride perché lei lo ha lasciato ed abbandonato e lo reputa troppo vecchio, anzi lei fa di tutto per disprezzarlo. Lei si ritiene ancora giovane e cerca altri uomini più giovani e lancia verso il poeta molteplici imprecazioni. Il poeta si rammarica di questo abbandono e così sconsolato commenta:
“Nulla è ormai tutto quello che vissi: ogni cosa
trascina con sé scorrendo il tempo e l’ultima ora”.
Il poeta invidia i giovani che sono gioiosi del loro amore, mentre i vecchi sono abbandonati dalla loro virilità e hanno dimenticato i loro amplessi. Allora il poeta si chiede: forse le donne vivono solo il presente, come le bestie? Infatti Licoride ha abbandonato il poeta per un futuro non certamente sperimentato. Il poeta ricorda a Licoride che lui un giorno le era piaciuto:
“Se ora non sono valido, tu ricorda che un dì io fui pieno di vigore
sia sufficiente perché ti piaccia, che una volta ti piacqui”.
Il poeta termina l’elegia con un struggente appello a Licoride:
“Il riguardo vinca la passione, una dolce devozione succeda all’amore:
vale di più la ragione, sempre del cieco istinto.
Con queste parole lacrimevoli piangemmo, l’annosa età:
è gravoso lungamente ricordare quello che ci addolora”.

Finisce con questi versi la seconda elegia.

                                                                               Nota di commento.
Io, Biagio Carrubba, credo che da questa seconda elegia venga fuori la tesi fondamentale di tutta l’opera e cioè che il poeta ama ed ha amato soltanto una donna veramente fra i tanti amori che ebbe, e spera ancora di ritornare da lei perché la considera il suo vero amore, tanto che nel finale dell’elegia il poeta vuol tornare con lei anche se non come marito o come convivente, almeno come padre. Si evince da questa elegia che il poeta preferisce un amore lungo e fedele ad un amore intenso, breve e furtivo.

III

Sintesi della terza elegia.

Il poeta, nell’incipit della terza elegia, ricorda e racconta la storia infelice del suo primo amore. Il poeta era ancora giovanissimo, quando fu preso dall’amore per Aquilina che corrispondeva al suo amore:
“Preso dal tuo amore io folle, oh Aquilina, mi trascinavo
pallido e triste, preso dal tuo amore”.
Il poeta dice che era ancora inesperto sull’amore, ma anche Aquilina non era abile a scoprire il suo. Comunque sia i due giovani cominciano ad amarsi e ogni volta che si incontrano manifestano il loro desiderio d’amarsi, sebbene fosse contrastato dal suo precettore e dalla madre di lei, che sorvegliano i giovani. I due giovani, però, eludono la loro sorveglianza con vari artifici. Ma un giorno la mamma di lei scoprì i loro incontri e cominciò a colpirla. Le busse di Aquilina rafforzarono in lei il suo amore per il poeta che lo considera acquistato a prezzo dei suoi supplizi e gli dice:
“Mi è grato tollerare sofferenze per te subite:
tu di tanto sangue sarai dolce guadagno”.
A questo punto entra in scena un certo Boezio, amico del poeta, il quale gli consiglia di rivelargli qual è il motivo del suo dolore. Il poeta, dopo qualche resistenza per pudore, confessa tutto e gli spiega che soffre per amore. Boezio allora gli consiglia di conquistare il consenso dei genitori della ragazza per avere accesso libero a lei. Il poeta in un primo momento rifugge da questa soluzione, ma poi accetta la proposta di Boezio, il quale con il suo denaro compra il consenso dei genitori. Anche la ragazza si avvicina al poeta, ma ormai ha perso ogni desiderio e amore per il poeta:
“Ella, vedendo che le sue aspirazioni non hanno successo,
ne odia la causa e triste si allontana con l’inviolato corpo”.
Ritorna Boezio il quale conforta e rincuora il giovane poeta dicendogli che lui deve alzare le insegne del trionfo perché si è dimostrato padrone dei suoi desideri. Anche il poeta perde così ogni desiderio di peccare e si allontana da lei:
“Insoddisfatti entrambi ugualmente tristi ci separammo:
motivo della separazione fu la scelta di una vita casta”.

Finisce con questi versi la terza elegia.

Nota di commento.

Gli studiosi dell’opera poetica hanno discusso molto su chi fosse questo Boezio: o il grande filosofo autore della “Consolazione della filosofia”, oppure un semplice amico di Massimiano, omonimo di Boezio. A questo dubbio gli studiosi non hanno saputo dare una risposta certa e definitiva, dato che il componimento elegiaco resta nel vago e nel generico e non dice nulla sulla situazione storica in cui fu scritto. Chiunque sia Boezio, l’elegia mette in mostra ancora una volta il messaggio del poeta il quale, accetta, saggiamente, la decisione del filosofo di allontanarsi da Aquilina.

IV
Sintesi della quarta elegia.

Il poeta, nell’incipit della quarta elegia, propone il racconto di un altro amore finito male. La giovane donna amata questa volta dal poeta era una giovane donna splendente e molto bella, come la descrive il poeta all’inizio della elegia:
“Ci fu una giovane cui la splendente bellezza aveva dato il nome
di Candida; era infatti bene acconciata in ogni sorta di maniere”.
Era una danzatrice, ornata di pendenti e sonagli che emettevano svariati suoni. Il poeta s’innamorò subito di lei e cominciò a cantare le canzoni di lei e ricordava volentieri ogni parte del suo corpo, anche se le aveva viste una sola volta. Qualcuno, vedendolo, gli diceva:
“Massimiano canta; ama una cantante”.
Una sera il poeta, preso dalla infatuazione per la ragazza, la chiama nel sonno più volte senza accorgersene, e gridava:
“Candida affrettati, perché, Candida, indugi?”
Il padre di lei si accorse di questa smania e lo riprese chiedendogli se questa sua infatuazione era solo amore o questo ardore era solo un sogno? Il poeta, nella parte finale, della elegia si rammarica di essersi tradito con le sue stesse parole, e conclude, con forte rincrescimento:
“Ed ora, l’intera vita è infelice senza crimini d’amore
e il vecchio si vergogna… di non aver potuto peccare”.
Il vecchio, dunque, vedendo che aveva perso l’occasione di peccare, si rammarica di non aver peccato in gioventù e l’elegia finisce con il lamento del poeta il quale si chiede:
“Talvolta siamo presi e trascinati dai vizi di buon grado
e i cuori accecati vogliono ciò che non desiderano”.

Finisce con questi versi la quarta elegia.

Nota di commento.

Anche questo amore è fallimentare per il poeta; infatti non raggiunge lo scopo di avere un amplesso con la danzatrice ed ora da vecchio si rammarica di aver perso un’altra buona occasione d’amore. Il poeta non soddisfa così il suo appetito e desiderio sessuali. Il rammarico di questa mancata soddisfazione e copulazione rimanda e rafforza, però, il suo invito al carpe diem, a vivere cioè la vita attimo per attimo cogliendo tutte le buone occasioni che la vita offre senza farsene sfuggire nemmeno una. Questa elegia rimane comunque la più divertente e la più buffa fra tutte le altre elegie, perché il poeta svela, inconsciamente, il suo amore nel sonno al padre che riesce a far fallire l’incontro amoroso tra i due giovani.

V
Sintesi della quinta elegia.

Il poeta, nell’incipit della V elegia, inizia a raccontare la storia del suo ultimo rovinoso amore per una fanciulla greca, conosciuta nella terra d’oriente:
“Qui affrontandomi figlio dell’Itala nazione, m’involse
nei raggiri consueti alla sua gente una greca fanciulla”.
Tutto ha inizio quando la bella fanciulla greca cominciò a fare la corte al poeta, il quale dapprima resiste alle avance della fanciulla, ma poi cede all’arte seduttiva di lei che lo conquista. La fanciulla greca comincia a cantare sotto la finestra del poeta e si mostra piena di pallore, lacrime e lamenti, cosicché il poeta preso da questa commiserazione s’innamora di lei e alla fine il misero innamorato diventa proprio lui. La fanciulla greca aveva una bellezza singolare, era molto piacente, componeva carmi sapienti e sapeva far vibrare la duttile lira. Il poeta s’innamora subito di lei; egli si sente un secondo Ulisse ammaliato dal canto delle sirene. Il poeta, quindi, viene completamente sedotto dalla fanciulla greca quando la vede danzare e ballare al ritmo della musica e quando le afferra i capezzoli duri del sodo seno che lo fanno avvampare di ardore. A questo punto quando l’amore fra i due sembra ormai fatto succede l’imprevisto e cioè la defaillance sessuale del poeta dopo la prima notte d’amore. Infatti dopo la buona riuscita della prima notte d’amore il poeta mostra in pieno la sua impotenza sessuale; l’ardore gli rifluì invano e fu insensibile a Venere.
“Ed ella, come richiedendo il dovuto tributo, accanita
mi assalì e mi rimprovera dicendomi -rendimi il debito-”.
Il poeta però non era più in grado di soddisfare le voglie sessuali della bella fanciulla greca che tenta invano di riaccendere con le sue mani la verga del poeta. La fanciulla greca cominciò a manipolare la verga, ma nemmeno col fuoco delle sue mani riusci a svegliare il torpore del poeta che cercava di giustificarsi con delle giustificazioni. Ella, quindi, credendole menzogne gli disse:
“Non puoi ingannare chi ti ama;
il cieco amore ha sempre moltissimi occhi.
Ed anzi non evitare mai il gradito gioco:
getta lontano le tristezze e ristorati coi dilettosi spassi”.
Il poeta, allora, incita la bella fanciulla greca a continuare la sua opera di stimolazione della verga. Ma non c’è niente da fare, la verga rimane inerte e non riesce a drizzarsi; lei, afflitta, la guarda come un deposto cadavere, un peso morto. A questo punto la fanciulla greca presa dallo sconforto comincia il suo lamento per la mentula:
“Virile mentula, tu che operosa officiavi i miei giorni festivi,
una volta eri la mia delizia e la mia ricchezza.
Con quale gorgo di lacrime compiangerò la tua morte?”
Il poeta, umiliato e depresso, allora rimprovera la greca fanciulla perché lei è presa da un male più gravoso; la fanciulla greca così gli risponde:
“Non capisci, me ne accorgo, o perfido, non capisci:
non piango una sventura privata, ma il caos universale”.
Comincia qui il famigerato elogio della mentula.
La mentula genera la specie umana, la specie degli animali e degli uccelli e tutto ciò che respira sulla terra.
Senza di essa non c’è armonia fra i due sessi e viene meno il massimo piacere del matrimonio. Essa stringe i due cuori in modo così forte da farne un solo corpo. Se manca la mentula, la donna, per quanto bella, perde valore e l’uomo diventa brutto. La fanciulla greca raggiunge il suo apice di elogio della mentula e dice:

“Và felice, ti dico, tu che sempre t’accompagni agli uomini felici;
godi delle gioie a te connaturate!”
Tutto s’inchina a te; i tuoi colpi di ira propiziano maggiori beni. Anche la vergine si sottomette a te felice e sopporta in silenzio il dolore del sangue mai versato. Ella riesce a calmare il cuore dei feroci tiranni; piega le feroci tigri a provare le dolci passioni dell’amore.
“Straordinaria è la tua forza e straordinaria è la tua benigna indulgenza”.
Tu, o vergine, ami i vinti e vuoi anche tu stessa essere vinta. La tua ira è breve, ma la tua volontà rimane sempre immutabile. Dette questa parole la fanciulla greca, sfinita, tacque:
“Rimase infine muta, placata dal lungo doloroso sfogo;
e m’abbandonò quasi si fosse concluso il mio funerale”.

Finisce con questi versi la quinta elegia.

Nota di commento.

La quinta elegia è l’elegia più famosa e più inquietante dell’intera opera poetica. L’elogio della mentula, così sfacciato e manifesto, non aveva mai avuto una grande fama ed illustrazione in tutta la tradizione erotica greca-latino. Qualche epigramma su di essa era stato scritto nell’Antologia Palatina e qualche altro epigramma l’aveva scritto anche Marziale, oltre a qualche carme che si trova nei carmi priapei, ma tutti questi carmi erano in funzione e a favore della virilità maschile. Invece ora qui l’elogio della mentula è proclamato e declamato da una giovane donna greca che ha il solo scopo di innalzare un inno all’amore e alla vita, tout court, che nasce, cresce, matura, vive e muore sulla Terra.

VI
Sintesi della VI elegia

Il poeta, nell’incipit della VI ed ultima elegia, ritorna al tema iniziale della vecchiaia con cui si era aperta la prima elegia:
“Vecchiaia età verbosa, cessa, ti prego, i tuoi meschini lamenti.
Vuoi forse scoprire ancora i tuoi difetti?”
A questo punto comincia l’epilogo finale di tutta l’opera. Il poeta, rivolgendosi alla vecchiaia,  dice che essa conduce alla morte, ma se la morte è uguale per tutti, la vecchiaia è diversa per tutti. Ognuno la deve percorrere nel miglior modo possibile e superarla con un rapido passo deciso. Ed ecco l’ultimo distico elegiaco di tutta l’opera, nel quale il poeta riprende il discorso in prima persona e chiude con un finale inaspettato il filo dei suoi ricordi e di tutta la sua vita:
“Ed ora io, infelice, mi alzo come una tomba già pianta,
ma credo che, pur defunto, per questa parte, vivrò”.
Un finale bello, ma inaspettato, perché il poeta, rispetto alla prima elegia, dove invocava la morte, ora, alla fine della sua vita, ha capito che la vecchiaia, per quanto brutta, triste e insopportabile, fa parte della vita stessa che bisogna vivere fino all’ultimo giorno. L’epilogo, quindi, è molto importante perché il poeta rinfrancato dalla sua stessa  opera poetica vuole vivere fino alla fine dei suoi giorni. Ed spera che la sua opera lo fa faccia vivere oltre la sua stessa morte. Tesi che si avvicina molto a quella espressa da Agozzino nel suo bel libro su Massimiano che nel commento della sesta elegia così scrive:
“La ghirlanda di queste elegie qui si chiude con la finale gnome della consapevolezza: non più inutili pianti. Il pianto aggiunge danno a danno e reduplica la sciocca ribellione dell’uomo a ciò che “è”. ( Da Massimiano a cura di T. Agozzino, Bologna 1970 pag. 333 ).

Nota di commento

Mi pare che la bellezza dell’opera elegiaca di Massimiano sia dovuta alla capacità dell’autore di descrivere con cruda realtà la vecchiaia e sia alla capacità di esaltare la concezione filosofica del naturalismo biologico insita nella natura, escludendo così ogni sorta di finalismo teologico sia della religione cattolica sia del politeismo pagano, rimanendo così nell’alveo della concezione materialistica della natura. Ma ciò che rende questa opera bella ed originale è, senza dubbio, l’invito al classico carpe diem dettato questa volata da una fanciulla greca che invita il poeta a non disertare il piacevole gioco amoroso anche se affrontato in tarda età. Il fascino deriva, inoltre, dall’elogio alla mentula e alle vergini, che si sottomettono volentieri e sopportano con piacere i dolori della prima notte della mentula. Un altro motivo di fascino dell’opera è l’uso della metonimia e della sineddoche, che rappresentano e manifestano l’elogio perenne e vivo all’Amore universale e naturale che dà la vita a tutti gli esseri di questa terra.

Finale.

Le sei elegie “Elegie della vecchiaia” dell’illustre e sconosciuto poeta latino Massimiano presentano moltissimi problemi testuali che soltanto i grandi latinisti, nel corso dei decenni passati, hanno cercato di risolvere, ma ancora alcuni nodi non sono stati risolti. Non si è capito, per esempio, chi sia stato veramente Massimiano e sono ancora incerte le sue date di nascita e di morte. Più incerta è la data di composizione delle sei elegie, comunque pare certo che tutta l’opera sia stata composta tra il 545 d.C. e 555 d.C.. Gli studiosi poi hanno dato diverse interpretazioni al testo e alle maggiori figure vere o simboliche presenti nelle elegie come: Licoride, Aquilina, Candida, la fanciulla greca e per finire Boezio, del quale ancora si discute se sia il grande filosofo latino o un amico del poeta che ha lo stesso nome. Comunque stiano le cose, io Biagio Carrubba, lascio, volentieri, allo studio dei grandi latinisti che, in questi decenni, hanno pubblicato diverse opere di spiegazioni e chiarimenti sulle sei elegie, come ha fatto il grande poeta latinista Alessandro Fo. Io, Biagio Carrubba, non mi cimento, certamente, con le sottili analisi linguistiche e testuali delle elegie fatte dai professionisti del latino, mi limito solo a pubblicare la V e la VI elegia perché reputo l’intera opera elegiaca molto bella e degna di essere pubblicata e letta con piacere da tutti gli amatori della poesia latina.

Testo della V elegia.

Inviato con officio d’ambasciatore nelle terre d’Oriente,
per intessere a beneficio di tutti serena trama di pace,
mentre cercavo di stringere accordi tra i due imperi,
incappai in colpevoli guerre del mio cuore.
Qui affrontandomi figlio dell’Italia nazione, m’avviluppò
nei raggiri consueti alla sua gente una greca fanciulla.
Infatti simulando d’essere vinta d’amore per me,
fece al contrario che vinto fossi io da un vero amore.
Di notte stava insonne presso le mie finestre,
dolce cantando in un sussurro non so qual greca melodia.
E allora comparivano lacrime, lamenti, sospiri, pallori
e tutto ciò che nessuno penseresti possa fingere.
Infine quasi commiserando la troppo afflitta amante
divenni allora miserando proprio io.
Di singolare bellezza ella era, d’aspetto onesto,
piacente, dallo sguardo lampeggiante e non meno gradevole per l’arte,
sapiente nel far parlare con le dita le corde, nel creare carmi sapienti
e nel far vibrare la docile lira.
Uguagliandola, ammirato pei canti, alle Sirene
ecco divengo io, pazzo, un secondo Ulisse;
e siccome non potevo evitare scogli tanto pericolosi,
mi porto inconsapevole tra rocce e bassifondi infidi.
Mi lasci vincere, lo ammetto, ignaro allora dell’astuzia greca,
mi lasci vincere vecchio d’italica ingenuità.
E non poteva vincere un sol vecchio l’astuzia
da cui Troia, pur difesa dal suo Ettore, fu vinta?
Abbandonai l’impegno e la cura dell’officio intrapreso
tutto prono ai tuoi ordini, o spietato Amore.
E rammentar che tal piaga fui vinto non mi adonta:
Giove stesso fu soggetto a queste vampe.
Chi potrebbe ridire il disporsi dei passi secondo un preciso ritmo
e il muover lieve dei piedi sotto gli applausi rinnovantisi?
Era sublime perdersi contando i capelli piegati in trecce ondulanti,
era sublime la nera chioma a contrasto col biancore delle carni.
Facevano avvampare lo sguardo i capezzoli duri del sodo seno
che una sola mano poteva racchiudere in una stretta.
Ah, quanto eccitava la fantasia il flessuoso piegarsi della vita
e sotto il piatto ventre la ben tornita coscia!
Temevo di stringere forte così tenere membra:
si sentivano nella stretta degli amplessi l’ossa scricchiolare.
“Ora” gridava “le tue grandi braccia mi fanno male:
il mio corpo schiacciato non sopporta il tuo peso”.
Gelai, quando caldo desiderio era nelle carni le abbandonò,
e si mostrò la vergognosa colpa della mia verga:
non così flaccido il mescolato caglio rende il latte
né così molle sarà la spuma del bianco liquido rappreso.
Ma la prima notte in verità mi soccorse, ed assolse
I sui compiti, che ad un uomo d’età mal si propongono;
la seconda distrusse le mie forze, vano rifluì
l’ardore e come prima fui insensibile a Venere.
Ed ella come richiedendo il dovuto tributo, accanita
m’assale e rimprovera: “Rendimi il debito”.
Ma ormai nulla l’urlato rimprovero, nulla le dolci parole ottenevano:
nessuno può ridare ciò che la natura nega.
Arrossii e ancora rimasi istupidito; la vergogna mi paralizzò
e lo sgomento mi impedì di compiere la dolce impresa.
Cominciò a manipolare le carni ardenti invano
e a stimolarmi con le sue dita.
Nulla, neanche il tocco di quel fuoco giovò al mio torpore:
il freddo come prima persistette pur nel pieno fervore dell’opera.
“Quale crudele femmina ti ha strappato a me?” gridò,
“dalle braccia di chi stanco torni alle battaglie d’amore?”
Giuravo che la mente era travagliata da laceranti affanni
e l’afflitto cuore non poteva abbandonarsi alla voluttà.
Ella credendola una menzogna “Non puoi” disse “ingannare chi t’ama:
il cieco amore ha sempre moltissimi occhi.
Ed anzi non evitare mai il gradito gioco:
getta lontano le tristezze e ristorati coi dilettosi spassi.
Giacché i gravosi pensieri istupidiscono i sensi:
ha minor gravezza un peso non continuo.
Allora io abbandonatomi sul letto con tutto il corpo
dopo un lungo pianto proferii parole di questo tenore:
“Ah davvero noi vecchi siamo costretti a confessar colpe e vizi,
perché non si pensi per caso spento il nostro ardore.
Ahimè, non si devono incolpare le mie intenzioni!
Sono punito, infelice, ad opera della senile fiacchezza.
Ed ora ti affido le armi per lunga inattività arrugginite,
armi davvero votate al tuo servizio.
Fa’ tutto ciò che puoi! Io ho rinunciato, tuttavia questa verga
è tanto più restia agli stimoli, quanto meno ardente è l’amore”.
Abili arti subito indecentemente applica
e vuole con i suoi ardori infondere in me la vita.
Quando poi ben s’avvide della morte dell’amato membro
Né vide drizzarsi, quasi deposto cadavere, il morto peso,
s’alza dal vedovo letto e afflitta ricadendovi
con queste parole consola la sua luttuosa perdita:
“Virile verga, tu che operosa officiavi i miei giorni festivi,
una volta mia gioia e mia ricchezza,
con quale gorgo di lacrime compiangerò la tua morte?
Quali inni innalzerò degni dei tuoi innumerevoli meriti?
Tu solevi spesso soccorrermi nel mio cocente ardore
e volgere in gioco le inquiete vampe del mio animo,
tu per tutta intera la notte mi eri carissima compagna
partecipe della mia letizia e della mia afflizione,
fidatissima complice e parte del mio segreto,
insonne, sempre presente agli intimi offici:
dove ti se ne andò il fervore, per cui piacevi sul punto di colpire,
dove il tuo capo guerriero e feritore?
Ma sì, ecco, giaci non più sorretta come un tempo d’alcun rosso turgore,
ma sì pallida a capo basso ecco giaci.
A nulla le carezze, a nulla i dolci incantesimi ti giovano,
non tutto ciò che suol eccitare la mente.
Dunque, come di fronte ad una salma esposta, ti piango, o benemerita,
muore infatti ciò che vien meno all’usato dovere”.
Io lei che a voce bassa mista a lacrime cantava funebre nenia
rimproverai con queste parole deridendola:
“Mentre compiangi o donna la pigra fiacchezza del mio membro,
mostri d’esser vinta da più gravoso male”.
Ed ella fuori di sé: “Non capisci, me ne accorgo, o perfido, non capisci:
non piango una sventura privata, ma il caos universale.
Questa la specie umana e delle greggi, degli uccelli e delle indomite fiere
e quando su tutta la terra respira, questa genera.
Senza questa non c’è alcuna armonia tra i due sessi,
senza questa viene meno il massimo piacere del matrimonio.
Questa stringe due cuori con un legame tanto forte,
che li fa essere due in un corpo solo.
Se questa manca, la donna, per quanto bella, perde valore;
e se mancherà, anche l’uomo sarà vergognosamente brutto:
come se una brillante gemma non impreziosisse il rutilante oro,
estraneo genere di metallo ingannevole e cause di mortali sciagure.
Schietta fedeltà e fidati segreti s’intrattengono con te:
o bene veramente a noi propizio e ferace!
Va’ felice, ti dico, tu che sempre t’accompagni agli uomini felici
e godi delle gioie a te connaturate!
Tutto si inchina a te; e, quel che più conta, spontaneamente
si piegano ai tuoi ordini più alti poteri.
Né chi ti è sottomesso se ne duole, ma si compiace d’esserti sottoposto:
i colpi della tua ira propiziano maggiori beni.
Anche la saggezza stessa che governa il mondo
ai tuoi comandi offre le sue mani indomite.
Sotto di te si stende la vergine raggiunta dal suo corpo gradito
e felice giace aspersa di un sangue mai versato.
Sopporta in silenzio il suo dolore e pur lacerata sorride,
amica del suo carnefice l’applaude.
Non sempre ti si confà l’azione delicata e dolce,
ma i tuoi scherzosi cimenti s’accompagnano forti atti di valore.
Infatti impiegando ora l’astuzia, ora grandi forze
vinci tutto quanto più s’oppone a Venere.
Infatti fatiche insonni spesso t’apparecchiano
piogge, pericoli, scontri, offese, nevi.
Tu spesso mi consegni vinto il cuore dei feroci tiranni,
grazie a te anche Marte sanguinario sarà arrendevole.
Tu poi che i Giganti ebbe sconfitti e spenti
strappi all’irato Giove le folgori tricuspidi.
Tu le feroci tigri pieghi a provare la dolce passione,
ad opera tua il leone stesso si trasforma in delicato amante.
Straordinaria è la tua forza, straordinaria la tua benigna indulgenza:
ami i vinti e vuoi tu spesso esser vinta.
Ecco vinta giaci e poi riacquisti forza e spirito,
ami daccapo essere vinta e vincere poi di nuovo.
L’ira tua è breve, infinita la clemenza, il volere sempre risorgente,
e quando vien meno la possanza, la tua volontà rimane comunque immutabile”.
Rimase infine muta, placata dal lungo doloroso sfogo;
e m’abbandonò quasi si fosse concluso il mio funerale.

Testo della VI elegia.

Vecchiaia età verbosa, cessa, ti prego, i meschini lamenti.
Vuoi forse scoprire ancora i tuoi difetti?
Basti l’aver appena toccato l’indegna vergogna:
trattare più e più volte le proprie colpe rappresenta una colpa.
E’ uguale per tutti la via che conduce alla morte, ma non unico
è il modo di vivere e di morire per ciascuno.
Per questa via vecchi giovani e fanciulli ugualmente sono trascinati,
su questa strada il nudo mendico sarà pari ai ricchi.
Allora quel cammino che è da sempre percorso e per nessuno evitabile,
conviene superare con rapido deciso passo.
Ed ora infelice mi alzo come da tomba già pianta,
ma credo che, pur defunto, per questa parte, io vivrò.

 

Modica 28/ 05/ 2016 Prof. Biagio Carrubba

Modica 28/ 05/ 2016                                                                                    Prof. Biagio Carrubba

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