PARAGRAFO N. 30
Lasciato il cumulo dei mafiosi siciliani e settentrionali, io e Dante, rientrammo sulla strada principale del lago ghiacciato di Cocito. Proseguimmo sulla strada e, fatti un centinaio di passi, arrivammo presso il nuovo cumulo adiacente ad un’altra baracca. Davanti al cancello che chiudeva il recinto della baracca ci stava, come al solito, un diavolo cornuto, dalla livrea a strisce orizzontali verdi – blu (livrea n. 10). L’insegna portava la seguente scritta: OMICIDI E FEMMINICIDI. BARACCA N. 7. Il diavolo cornuto, dalla livrea a strisce orizzontali verdi –blu (livrea n. 10), quando ci vide arrivare: me, in carne e ossa, e, Dante, uno spirito in forma umana, si meravigliò tanto e sbottò immediatamente perché, certamente, non si aspettava di vedere lì nessuno estraneo sulla strada per Lucifero. Il diavolo, impaziente e intemperante, facendo gesti ostili ed indisponenti, proruppe e ci apostrofò con queste parole: “Che cose son queste?” (Paradiso. Canto 20. Verso 82), volendo significare: Com’è possibile che due estranei siano entrati nell’Inferno e passeggiavano, come turisti, sovvertendo e trasgredendo, così, la legge eterna dell’Inferno? Anche questa volta Dante gli rispose, dicendo che noi avevamo l’autorizzazione e il beneplacito del suo capo Satana. Allora, il diavolo cornuto ci guardò con occhi torvi, ma ci fece passare. Io e Dante dalla strada guardammo il cumulo di fuori per vedere chi fossero le anime, perse e dannate, arrivate in quel mucchio di anime degeneri. Il diavolo, custode e cornuto, del cancello, dalla livrea a strisce orizzontali verdi – blu (livrea n. 10), ci lasciò passare perché sapeva che non poteva né intralciare né ostacolare il nostro passaggio, e non poteva impedire alla nostra volontà di riconoscere le anime di quel cumulo. Io e Dante attraversammo il cancello, poi entrammo nel recinto, oltrepassammo il cumulo dei dannati ed entrammo nella baracca che aveva, sempre, la porta aperta. Vedemmo uno spettacolo inedito e silenzioso. Osservammo, così, una fila di anime, perse e dannate, che aspettava il proprio turno per salire su una scala che le portava in cima. Poi le anime scendevano in giù, verso il basso, ma dalla parte opposta della partenza. Poi, le anime, perse e dannate, risalivano su un’altra scala attigua e ridiscendevano un’altra volta. Quindi le anime ritornavano al punto di partenza e ricominciavano di nuovo a risalire e a ridiscendere le due scale, senza fine e senza scopo, come la pena di Sisifo. Capimmo subito che questa pena rispondeva alla legge del contrappasso che obbligava le anime, perse e dannate, a salire e a ridiscendere per provare “Come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.” (Paradiso. Canto 17. Versi 57 – 60). Infatti la pena del contrappasso aveva lo scopo di far capire a queste anime degeneri qual è il tremendo dolore che si infligge a chi viene ucciso per mano altrui, come, ora, loro provavano la profonda fatica di Sisifo. Infatti le anime degeneri, scendendo e risalendo, provavano un tedio, un dolore, una stanchezza estrema e straziante, e una immensa fatica, fisica e morale, ineffabile. Allora, io e Dante, capimmo che si trattava delle anime degli omicidi che avevano tolto, a loro arbitrio, la vita ad altri uomini e ad altre donne. La fila delle anime, degeneri degli omicidi, era lunghissima, praticamente, non aveva né un inizio né una fine. Io, B. C., allora, preso da un fremito di rabbia e di freddo dissi a Dante: “Ecco la compagnia malvagia e scempia/…tutta ingrata, tutta matta ed empia.” (Paradiso. Canto 17. Versi 62 – 64). Dante mi rispose: <<Non chiedere a me una spiegazione su queste anime degeneri perché la ragione del loro operato efferato si trova nell’abisso della mente di Dio che commina le sue pene e le sue sofferenze e le dispiega sugli uomini, attraverso la Divina Provvidenza, senza dare, però, delle spiegazioni né a suo figlio né allo Spirito Santo e né agli uomini. Invece la predestinazione prefigura e stabilisce, anche, chi saranno i dannati e chi saranno i salvati. Ma tu, Biagio C., quando ritorni sulla Terra, riferisci agli uomini qual è la condizione e la pena delle anime, perse e dannate, degeneri degli omicidi nell’Inferno>>. Io, B. C., distolsi lo sguardo da Dante e mi rivolsi a guardare le anime degeneri degli omicidi per accertarmi se potevo riconoscerne qualcuna. Non riconobbi nessuna anima famosa degli omicidi, perché erano tutte anime, perse e dannate, di assassini violenti, malvagi, animaleschi, oscuri e anonimi. Anche Dante ha detto che queste anime, perse e dannate, devono essere dimenticate affinché nessuna fama resti di loro, tra gli uomini onesti e perbene. Ecco i versi di Dante che condannano all’anonimato e alla mancanza di fama, e alla infamia più assoluta di queste anime, perse e dannate, degli omicidi e dei femminicidi.
“Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna”.
(Inferno. Canto III. Versi 49 – 50).
Poi, io, B. C., mi ricordai che anche gli scagnozzi mafiosi che uccisero, a sangue freddo e vilmente, sia il giudice Giovanni Falcone e sia il giudice Paolo Borsellino erano degli assassini della peggiore specie umana. Quindi, io, B. C., giudico che queste anime, perse e dannate, degli omicidi devono rimanere anonime e cancellate dalla faccia della Terra. Subito dopo, tra le anime, perse e dannate, degli omicidi più conosciute, mi parve di riconoscere Caino, che aveva ucciso il fratello Abele. Poi mi parve di riconoscere il principe Cesare Ottaviano Augusto che aveva fatto uccidere il piccolo Cesarione, figlio di Giulio Cesare e di Cleopatra. Poi mi parve di riconoscere Gianciotto Malatesta che aveva ucciso Paolo e Francesca, collocati da Dante nel quinto canto dell’Inferno, nei bellissimi e immortali versi:
<<Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar pedona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense>>.
(Inferno. Canto 5. Versi 100 – 107).
Poi, io, B. C., riconobbi anche, perché visto molte volte in televisione, il pluriomicida Cesare Battisti che aveva ucciso quattro lavoratori innocenti mentre stavano adempiendo, sinceramente e fedelmente, al proprio dovere di lavoro. Il pluriomicida, presunto terrorista rosso, ora è, ancora, in carcere per scontare il meritato ergastolo. Infine mi parve di riconoscere l’infame giudice fascista Michele Isgrò che condannò, ingiustamente e proditoriamente, a più di vent’anni di carcere, il filosofo e capo politico Antonio Gramsci. Infatti, io B. C., riconobbi subito l’infame giudice che pronunciò la famosa frase “Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”. Ma questa predizione si rivelò, per fortuna, fallace e sbagliata, perché Antonio Gramsci, proprio durante la sua detenzione carceraria scrisse i famosi e bellissimi “Quaderni del carcere” e le famose e toccanti “Lettere dal carcere”. Quando, io B. C., riconobbi questo giudice, tra le anime, perse e dannate, provai un intenso e profondo piacere e un intimo sentimento di gioia, per aver visto e riconosciuto, in questa baracca, il giudice fascista che soffriva e pativa le pene dell’Inferno. Io, B. C., mi accorsi, allora, che il giudice, Michele Isgrò, non aveva più né la prosopopea né l’arroganza del giudice fascista che impose e stabilì la gravosa pena al politico e deputato, innocente e incolpevole, Antonio Gramsci, il quale, avendo l’immunità parlamentare, non poteva essere arrestato. Invece, una squadraccia fascista, andò a casa sua e lo arrestò, obbedendo agli ordini di Mussolini e alle leggi ingiuste fasciste. Poi io e Dante rivolgemmo gli occhi al centro della baracca, dove ci stava un altro gruppo di anime, perse e dannate, degeneri riconoscibili e distinguibili dalle altre anime degeneri perché indossavano, sopra la loro anima, persa e dannata, un camice bianco con stampata la lettera F, che indicava le anime che avevano commesso dei femminicidi. Queste anime degeneri, che avevano commesso dei femminicidi, si rincorrevano a vicenda, poi si uccidevano tra loro con i forconi, con gli arpioni e con i roncigli, che i diavoli cornuti, custodi della baracca dalla livrea a strisce verticali rosse – azzurre (livrea n. 12), prestavano alle anime, perse e dannate, che avevano commesso i femminicidi, affinché si uccidessero fra di loro. Quindi queste anime, perse e dannate, degeneri, autori di femminicidi, dopo essere cadute a terra, si rialzavano di nuovo e ricominciavano a uccidersi un’altra volta, e così per sempre senza fine. Così si realizzava, anche per loro, la legge del contrappasso “per analogia”. Io e Dante capimmo, allora, qual era il motivo per il quale le anime dei femminicidi si uccidevano fra di loro, rinascendo continuamente nell’Inferno. Era la legge del contrappasso applicata a queste anime degeneri. Ecco la spiegazione di questo contrappasso per analogia. Dunque, mentre le donne uccise da questi femminicidi sulla Terra, non sono più ritornate in vita, essendo morte per mano di chi affermava di amarle, le anime, perse e dannate, dei femminicidi, morivano e rinascevano continuamente nell’Inferno, per provare e riprovare, capire e patire cosa vuol dire vivere e morire per mano altrui. Io B, C., auspico che queste anime, perse e dannate, degli omicidi e dei femminicidi, che avevano ucciso, o per follia o per gelosia, le donne (mogli, fidanzate, madri o figlie), che erano state con loro per amore, devono continuare a patire e a soffrire la lunga pena infernale ed infinita così come loro hanno inflitto, con la morte, una pena irreversibile ed eterna alle loro donne. In questo modo anche le anime, perse e dannate, dei femminicidi e degli omicidi, provavano e pativano, più volte, tutto il dolore e il male che esse avevano procurato, afflitto e inflitto alle loro povere, inconsapevoli e innocenti vittime, alle loro donne amate e odiate nello stesso tempo. Infine, io B. C., non riconobbi nessuna anima degenere di femminicidi perché nessuna anima degenera era famosa per questi femminicidi.
Allora, io B.C., pensai che era meglio così: non ricono-
scerle perché tanto non serviva a niente conoscere il
loro nome e cognome. Decisi, allora, di non ricono-
scere nessuna di queste anime, perse e dannate, di
femminicidi, dato che tutte queste anime, perse e
dannate provenivano e facevano parte della feccia dell’
umanità. Scelsi, così, di lasciarle nel loro anonimato, nella
oscurità della storia, nell’oblio più assoluto. Poi pensai,
anche, che era giusto che queste anime scontassero e
patissero la loro pena per gli omicidi e i femminicidi che
avevano commesso sulle loro donne, mogli, fidanzate,
figlie e madri. E riconobbi, anche, che fosse giusto che
queste anime, perse e dannate, subissero le pene eter-
ne dell’Inferno, inflitte loro da Lucifero, perché le donne,
le mogli, le fidanzate, le figlie, non si toccano nemmeno
con un fiore. Dopo aver visto queste anime, perse e dan-
nate per l’eternità, io e Dante uscimmo dalla baracca,
ripassammo dal cumulo davanti alla baracca, uscimmo
fuori dal cancello e ci incamminammo sulla strada princi-
pale, larga e grigia, che ci conduceva davanti alla grande
statura e alla grande testa di Lucifero. La strada, dopo
un po’, svoltò a sinistra, e qui incontrammo un altro
cumulo, un’altra baracca e un altro cancello, guardato
a vista da un altro diavolo cornuto, custode, dalla livrea
con strisce orizzontali verdi – blu (livrea n. 10), che si
appoggiava sui suoi arpioni. Il diavolo, cornuto custode,
se ne stava vicino al cartello che riportava la seguente
scritta a caratteri neri e a stampatello:
GESU’ CRISTO E I CRISTIANI. BARACCA N. 8.
MODICA 26 MARZO 2022
PROF. BIAGIO CARRUBBA
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