Introduzione alla poesia “La signorina Felicita ovvero la Felicità” di Guido Gozzano.

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Introduzione alla poesia
La signorina Felicita ovvero la Felicità.

Questa poesia fu pubblicata sulla “Nuova Antologia” del 16 marzo 1909, con il sottotitolo Idillio.
Ebbe un lungo periodo di composizione, così come si legge in due lettere ad Amalia Guglielminetti e in una lettera a De Frenzi. Antecedente poetico scritto dallo stesso Gozzano è L’Ipotesi del 1907. Il poemetto poetico racconta la storia, solo immaginaria, di una signorina Felicita che abitava in una villa del canavese, probabilmente in una villa del Gozzano. Il poemetto è composto da 434 versi per un totale di 72 sestine, è diviso in otto parti unite da un numero romano progressivo e fa parte della seconda raccolta poetica di Gozzano “I Colloqui” della quale è la 14ª poesia. Il poemetto si trova nella seconda parte del libro intitolata “Alle Soglie” ed è la quinta poesia su sette di questa seconda parte. Credo che i versi 312-313 facciano riferimento ad Amalia Guglielminetti.

Testo del poemetto poetico.

La signorina felicita
Ovvero
La felicità

10 luglio: Santa Felicita

I
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè,
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo e il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia dl Nume ghermitore…

Penso l’arredo – che malinconia –
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani della Bella Otero
alle specchiere… che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente…Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II
Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del guaio
notarile, con somma deferenza.

“Senta, avvocato…” e mi traeva inquieto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto…
“… la Marchesa fuggì… Le spese cieche…”
da quel parato a ghirlandette, a greche…
“dell’ottocento e dieci, ma il catasto…”
da quel tic-tac dell’orologio guasto…
“…l’ipotecario è morto, e le ipoteche…”

capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva:” Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…” – “E se l’ipotecario
è morto, allora…” Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
“Ecco il nostro malato immaginario!”

III
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto squadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poiché trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio…

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciotolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino…

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

IV
Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca, bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

“E’ quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno… E poi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena… L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi…”

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo una mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
“Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?”

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e, ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria: un corridoio basso,
tre ceste, un cantarano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “cosi
con due gambe” che fanno tanta pena…

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere…

Schierati al sole o all’ombra della croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè! – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro…

L’alloro…Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui…”

“Avvocato, non parla: che cos’ha?”
“Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città…
Sarebbe dolce restar qui, con lei!…”-
“Qui, nel solaio?…” – “Per l’eternità!”-
“Per sempre? Accetterebbe?…” -”Accetterei!”

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alle parate: il segno spaventoso
chiuso tra le ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

“Che ronzo triste!” – “ E’ la Marchesa in pianto…
La Dannata sarà che porta pena…”
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena…

un richiamo s’alzò, querulo e roco:
“È Maddalena inqueta che si tardi;
scendiamo; è l’ora della cena!” – “Guardi,
guardi il tramonto, là… Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!” – “Andiamo, è tardi!”
“Signorina, restiamo ancora un poco!…”

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana…

“Una stella!…” – “Tre stelle!…” – “Quattro stelle!…”
“Cinque stelle!” – “Non sembra di sognare?…”
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle…”

V
Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggittivi…
Io ti parlavo, piano, e tu cucici
inebriata dalle mie parole.

“Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore…”

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
“Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”

“Perché mi fa tali discorsi vani?”
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..”
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
dagli ultimi singulti nella strozza;
“Non mi ten…ga mai più tali dis..corsi”

“Piange! E come tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccole consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno di essere poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatto la seconda
classe, t’han detto che la terra è tonda,
ma tu non credi… e non mediti Nietzsche…
mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…

Ed io non voglio più essere io!

VII
Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace:
“Vedrà che dorme tutte le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!”
Narrava, intanto, certa gelosia,
con non so che loquacità mordace.

“Ma c’è il notaio pazzo dell’oca!
Ah! Quel notaio, creda: un capo ameno!
La signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca…
E la dote… la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno…”

“Ma dunque?” – “C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla…” –
“È geloso?” – “Geloso! Un finimondo!…”-
“Pettegolezzi!…” – “Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla…” –

“Non tema! Parto”. – “ Parte? E va lontano?” –
“Molto lontano… Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo…” –
“Davvero parte? Quando?” – “In settimana…”
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva “un punto sopra un I gigante “.

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
le tempie dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno.
La Luna, prigioniera, fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, far le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà…

VIII
Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

“Viaggio con le rondini stamane…” –
“Dove andrà?” – “Dove andrò? Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio…
oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette…
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…

“Un altro stormo s’alza!…” – “Ecco s’avvia!”
“Sono partite…” – “E non le salutò!…” –
“Lei devo salutare, quelle no:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò…”

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…

M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…

Quello che fingo d’essere e non sono!

Il tema del poemetto poetico.

Il tema del poemetto poetico è, certamente, la Rinuncia, alla morte e all’amore, alle quali il poeta preferisce la sua condizione di poeta e di gelido sofista, come afferma nell’ultimo verso del poemetto: “quello che fingo d’essere e non sono!” (v. 434). Il poeta frequenta Felicita, una signorina quasi brutta e priva di lusinga, che vive col padre in una villa presso un paese del canavese. Gozzano andava a trovarla ogni giorno e lei con i suoi occhi fermi e con gesti sottili gli mostrava simpatia e attrattiva. Negli occhi della signorina rideva una blandizie femminina, che attirava il poeta che si era invaghito di lei. Questo incipiente vagheggiamento faceva sognare il poeta che voleva abbandonare la sua sterile vita di intellettuale e di gelido sofista. Secondo me, Biagio Carrubba, infatti, l’immagine del poeta è ambivalente e contraddittoria. Da un lato, Gozzano, si mostra impreparato come avvocato e sognatore come poeta, dall’altro lato si mostra inadeguato alla società moderna e aspira alla vita semplice, ma ruvida, di provincia. Da un lato è inadeguato al lavoro concreto e lo esercita perché spinto dal bisogno economico, dall’altro altro lato finge un animo romantico, mentre in realtà sa di non esserlo, come conferma la nota: “Cioè, Gozzano si riconosce pur sempre l'”esteta gelido”, il “sofista” (da “Guido Gozzano BUR editore a pagina 197). La signorina Felicita lo accompagnava nel solaio, dove c’era una enorme tela dove era raffigurata la Marchesa Dannata, bianca e bella, la quale aveva lasciato la villa al nonno del nonno di Felicita. Questo dipinto era in mezzo a tanti altri oggetti, ormai abbandonati, ed era una stirpe logora e confusa, attorniata da un ciarpame reietto tra cui una effigie di Torquato Tasso incoronato delle fronde regie. Attraverso l’abbaino, il poeta guardava dall’alto del solaio la campagna canavesana, e da lì si diffondeva il suo desiderio di pace. Gozzano, allora, cominciava a pensare che oltre i colli dilettosi c’era il mondo, pieno di lotte e di commerci turbinosi e c’erano gli uomini che si davano guerra e che si inseguivano divisi e suddivisi a schiere. Ebbene il poeta vuole rinunciare a vivere in questo mondo, perché sa che la sua poesia da sola non basta a distogliere gli uomini dalla guerra atroce. Ecco, allora, la prima rinuncia: “Meglio fuggire dalla guerra atroce / del piacere, dell’oro, dell’alloro…/” (vv. 197-198). Durante un mezzogiorno il poeta parla con Felicita e le confessa il suo desiderio di voler stare con lei e le dice: “Mia cara Signorina, se guarissi, / ancora, mi vorrebbe per marito?” (vv. 269-270). Ma Felicita diventa imbarazzata per la richiesta e piange. Allora il poeta, dopo aver colto un fuscello, le solletica l’orecchio e lei tutta luminosa nel sorriso gli risponde, trillando un trillo gaio di fringuello: “Non mi ten..ga mai più tali dis…corsi” (v.282). Il poeta prosegue dicendo che sarebbe bello per lui restare a vivere accanto a lei, facendo una vita da mercante, una vita ruvida ma concreta, perché non voleva essere più poeta. Si, poiché, si vergognava di essere poeta: “io mi vergogno/ si, mi vergogno d’essere poeta!” (vv. 306-307). Felicita invece è beata nelle sue faccende, non medita Nietzsche e non vive il male della Filosofia che si attacca negli intellettuali. Ed ecco, allora, la seconda rinuncia: il poeta rinuncia ad essere poeta, rinuncia alla vita letteraria che fa la vita simile alla morte. Intanto il poeta di sera va a trovare il farmacista che gli aveva presentato Felicita. Nella farmacia, il farmacista dice al poeta, che il notaio è geloso di Felicita ed è furibondo con lui e con il poeta, il quale, inaspettatamente, lo rassicura perché lui in settimana andrà via dal paese. Il poeta, triste e perduto, vaga come un mendicante tra le siepi e i castagneti del canavese, fino a giungere al cancello del cimitero, alla mezzanotte che scoccò lenta e rombante, e la luna gli parve un punto sopra un I gigante (il campanile antico), come afferma nei versi: “La Luna sopra il campanile antico / pareva “un punto sopra un gigante” (vv. 355 – 356). Gozzano sosta davanti al cancello e invoca i Morti con una sestina piena di una bellezza poetica meravigliosa e sublime, che ricorda sia la discesa di Ulisse nell’Ade, sia il lamento del “Pastore errante dell’Asia” dell’immortale Leopardi: “Voi che posate già sulla riva/ immuni dalla gioia, dallo strazio, / parlate, o morti, al pellegrino sazio! / Giova guarire? Giova che si viva? / O meglio giova l’Ospite furtiva/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 363-368). Ed ecco, allora, la terza rinuncia: la rinuncia alla morte. Il poeta rinuncia alla morte e sceglie di vivere e sceglie la Felicità. Guarda la luna che con le sue luci bizzarre imita gli amanti che si baciano in eterno. Il poeta sceglie di vivere e di fuggire alla morte e per questo farà un altro viaggio, oltre il Marocco, in qualche isoletta esotica per agguantare la felicità che gli promette il bene che sarà. Nell’ultimo giorno della sua permanenza nel paese di Felicita, il poeta va a salutare la donna, la quale gli promette il suo amore al suo ritorno scrivendo la data 30 – settembre – 1907. Il poeta guarda il cielo dove stormi di rondini volano e si preparano al rientro nelle terre calde. Gozzano insieme a Felicita guarda le rondini che addestrano le piume ai piccoli rondinini e saluta Felicita che piange nel momento del distacco dal poeta, il quale si mostra un buon sentimentale giovane romantico, ma sa che finge perché non lo è. Ecco la quarta rinuncia: il poeta rinuncia all’Amore di Felicita perché sa che non ritornerà e perché sa che non potrà mai mantenere la promessa di matrimonio con lei, perché lui resterà sempre il gelido sofista e il freddo sognatore di sempre che continuerà a vivere, “già smarrito nei sogni più diversi, accordando le sillabe dei versi/ sul ritmo eguale dell’acciotolio” (vv. 117-120).

Sintesi del poemetto poetico: inizio, sviluppo, conclusione.

Il poemetto inizia con un bel parallelismo retorico: “La sera scende nel giardino antico; il ricordo di Felicita scende nel cuore amico del poeta”. Questo parallelismo retorico, che è quasi una similitudine, introduce il flash-back iniziale. Il poeta, il 10 luglio, il giorno dell’onomastico di Felicita, ricorda la permanenza e la frequenza presso la Vill’Amarena, dove abitava Felicita sola con suo padre. Nella seconda parte del poemetto il poeta parla del padre di Felicita, “Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio -” (v.49), che lo intratteneva con un atto notarile e che sbigottiva quando capiva che il poeta non capiva niente di atti giudiziari, benché si facesse chiamare avvocato. La terza parte del poemetto prosegue con la descrizione fisica di Felicita, che è quasi brutta, indossa vesti quasi campagnole e ha una faccia buona e casalinga che: “ti fanno un tipo di beltà fiamminga…” (v. 78). Ella si mostrava compiacente verso il poeta e nei suoi occhi luceva una blandizie femminina. Certe volte Felicita tratteneva il poeta a cena e durante la partita a carte lui se ne stava in cucina tra gli odori di basilico, d’aglio, di cedrina, scrivendo versi e immergendosi in sogni diversi. Nella quarta parte del poemetto il poeta descrive la visita nel solaio della villa per ammirare la Dama Dannata dipinta in una tela enorme e per guardare, attraverso l’abbaino, il panorama circostante. Infine il poeta insiste per trattenere Felicita nel solaio per guardare insieme il tramonto di fuoco che annunciava la sera canavesana e il crepuscolo serale; Felicita si ribellava e premeva per scendere giù per calmare così il brontolio di Maddalena, dicendo: “scendiamo! È tardi! Possono pensare/ che noi si faccia cose poco belle…” (vv. 239-240). Nella quinta parte il poemetto prosegue con una richiesta di matrimonio, di circostanza, del poeta e l’imbarazzo di Felicita che si mette a piangere, ma poi ritorna a sorridere tanto che, conclude il poeta: “Donna: mistero senza fine bello” (vv. 289). Nella sesta parte del poemetto il poeta desidera vivere come un mercante in oblio come il padre di Felicita e come il farmacista e non vuole più essere poeta, non più l’esteta gelido, il sofista. Nella settima parte il poeta, dopo il colloquio con il farmacista che gli riferisce la gelosia del notaio, esce a vagabondare in aperta campagna fino allo scoccare della mezzanotte e si ferma davanti al cancello del camposanto: “come s’usa nei libri dei poeti” (v. 362). E qui esorta i morti a volergli svelare il mistero della vita e della morte e li interroga se: “Giova vivere? Giova che si viva? / O meglio giova l’Ospite furtiva (la Morte) / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 366-368). Il poeta guarda la luna e il chiarore lunare che illumina gli amanti che si baciano in eterno e pensa alla morte che lo spinge a fare un altro viaggio, mentre la felicità gli promette il bene che sarà. Nell’ottava ed ultima parte del poemetto il poeta ritorna a Vill’Amarena a salutare per l’ultima volta Felicita, la quale giura sul suo amore per il poeta e scrive la data memoranda del 30 settembre 1907. Dopo che il poeta si congeda da Felicita e prova un distacco, amaro e senza fine, ma inevitabile, vede che Felicita piange come le donne romantiche che protese da un giardino singhiozzavano per gli amanti che partivano per l’esilio. E in quell’ultimo istante anche il poeta si mostra un buon giovane romantico, ma è solo una finzione perché era cosciente che in realtà non lo era!

Il messaggio del poemetto poetico.

Il messaggio del poemetto è quello ambiguo e ambivalente dell’atteggiamento che ha il poeta di fronte alla vita: da un lato non vuole essere poeta, ma dall’altro sa che è e rimane poeta; da un lato vuole amare Felicita, ma dall’altro lato fugge da lei. Il messaggio del poemetto è, dunque, un messaggio che si dispiega in 434 versi tra due poli che vanno da temi crepuscolari, che descrivono la realtà minuta, malinconica e dettagliata della villa a temi universali che invocano i Morti, o al tema dell’innamoramento tra due giovani che si giurano un desiderato amore, ma che poi, però, non sarà perseguito e mantenuto. La vita, sembra dire il messaggio del poemetto, è difficile: si fanno promesse d’amore che poi nessuno può mantenere, perché è impossibile cambiare la propria natura di uomo e di poeta. Il messaggio del poemetto diventa allora un messaggio triste per la sorte che tocca agli uomini, sempre più presi da chimere vane e suddivisi in schiere opposte, rosse e nere, intesi all’odio e alle percosse. Il poeta rinuncia all’amore di Felicita perché non vuole rinunciare alla vita tanto che, per non morire, affronterà un altro viaggio verso terre ignote, ma che dovrebbero dargli un prolungamento di essa (Gozzano partirà per l’India per cercare l’aria salubre per curare la sua tubercolosi); quindi alla fine del poemetto il messaggio diventa positivo: la vita è difficile, ma: “giunse il distacco, amaro senza fine” (v. 423). Il messaggio del poemetto si completa con l’immagine delle rondini, le quali per istinto, intraprendono ogni anno un viaggio verso nuove terre, dove troveranno luoghi e clima più caldi e favorevoli alla loro vita. Come esse addestrano le ali dei rondinini affinché raggiungano, tra tempeste di vento e nell’ampia e sconfinata aria del cielo, nuovi climi tiepidi, così il poeta, il quale ha un animo randagio, affronterà un altro viaggio per arrivare in terre lontane per prolungare la sua vita, perché come si dice chi si ferma è perduto. Il richiamo al carattere randagio del poeta è significativo perché il tema ritorna da un’altra bellissima poesia che Gozzano aveva scritto qualche anno prima, “L’analfabeta”, scritta tra il 1904 e il 1906 e pubblicata ne “La via del rifugio”, dove nei versi 65-68 così scrive: “E la gioia del canto a me randagio/ scintillerebbe come ti scintilla/ nella profondità della pupilla/ il buon sorriso immune dal contagio”.

La tesi del poemetto.

La tesi del poemetto è quella di un messaggio forte a tutta l’umanità da parte di un giovane, e malato poeta, che già sapeva di dover morire presto. E così è stato: Guido Gozzano è morto molto giovane, appena trentatreenne, per cui si può dire che la sua favola bella è durata lo spazio di un mattino. Molti sono i versi nei quali Gozzano preannunzia, con riferimento ai versi del Petrarca, la brevità della sua vita; secondo me, i più significativi sono nella breve, ma densa, poesia “Salvezza”, che è la XII poesia dell’opera “I Colloqui I”: “Vivere cinque ore?/ vivere cinque età?…/ Benedetto il sopore/ che m’addormenterà…/ Ho goduto il risveglio/ dell’anima leggera:/ meglio dormire, meglio/ prima della mia sera./ Poi che non ha ritorno/ il riso mattutino./ La bellezza del giorno/ è tutta nel mattino”. La tesi del poemetto è una invocazione ai Morti, come nei versi 363-368 (tra i più belli di tutta la letteratura italiana), ma soprattutto è un inno alla vita agli uomini. La luna guarda gli uomini, intenti all’odio e alle percosse, e guarda impotente, sia i cristiani sia gli atei, e vede che essi sono condannati alla guerra continua. Il poeta ha paura del mondo e allora rinuncia ad esso; rinuncia alla lotta per l’oro e per l’alloro, mondo crudele simboleggiato dall’atropo soletto e prigioniero. L’atropo è l’Acherontia Atropos, farfalla detta comunemente sfinge o testa di morto, perché porta il segno di un teschio sul dorso, la quale dà un senso di mistero che bisogna sentire, indefinibile, incomunicabile a parole, un senso che nemmeno la musica, nemmeno la poesia – nemmeno la poesia – può riprodurre. (Dalla nota del libro G.Gozzano a cura di Giorgio Barberi Squarotti Edizione BUR a pagina 187). Dunque la tesi del poemetto è quella di dire ad ogni uomo di essere quello che è, senza cambiare né la natura del carattere, né la personalità, ma di aver chiara la consapevolezza delle difficoltà ad essere uomini e tentare di rispondere alle eterne domande: “Giova guarire? Giova che si viva?”. Ma già il Gozzano stesso, secondo, aveva risposto, in buona parte, a tali domande quando ne “L’analfabeta” aveva dato questa meravigliosa risposta: “E se l’ombra indugia e tu rimuovine/ la tristezza. Il dolore non esiste/ per chi s’innalza verso l’ora triste/ con la forza d’un cuore sempre giovane” (vv. 97-100) oppure quest’altri bei versi sempre della stessa poesia: “Buona è la morte dici e t’avventuri/ serenamente al prossimo congedo” (vv. 155-156).

Il contesto culturale, sociale, filosofico e letterario del poemetto.

Il contesto culturale del poemetto, scritto tra il 1907 il 1909, è quello dell’Italia giolittiana e dannunziana. Il poemetto contiene la sestina nr. 34, aggiunta dopo la prima pubblicazione, che è in diretta polemica con il modello poetico di D’annunzio. D’Annunzio, con i pettegolezzi sulla sua vita, secondo Gozzano, è sempre in prima pagina. Altri spunti sociali del poemetto sono la pirografia sui divani corinzi dell’Impero e la cartina della bella Otero. Il riferimento filosofico è praticamente quello esplicito a Nietzsche e alla sua filosofia del superuomo, interpretata e divulgata in Italia dal D’annunzio; troviamo questo riferimento nei versi: “e non mediti Nietzsche / Mi piaci. Mi faresti più felice / d’un’intellettuale gemebonda…” (vv. 311 – 313).
Moltissimi sono, invece, i riferimenti letterari: da Dante a Petrarca, dal Carducci al Pascoli, dai miti greci al D’Annunzio. Molti sono anche i passi e le immagini del poeta Francis Jammes e del poeta Alfred de Musset. Il poemetto fa inoltre riferimento a versi dello stesso Gozzano scritti in poesie precedenti: “L’analfabeta”, “I sonetti del ritorno” che aprono la strada alle poesie della terza parte de “I colloqui”, da “Totò Merùmeni” a “I colloqui II”.

Analisi della forma.

Genere del poemetto.
Il poemetto è di genere lirico, scritto in prima persona dal poeta che diventa l’io narrante della fabula. Il poemetto segue l’intreccio del flash-back.

La metrica del poemetto.
La metrica del poemetto è composta da sestine di endecasillabi rimate secondo lo schema ABBAAB con possibile variazione ABABBA.

Le figure retoriche.
Le figure retoriche sono moltissime: il parallelismo iniziale, il polisindeto (vv. 4-6), l’accumulazione (vv. 25-30), la sinestesia (vv. 28-29), la metafora (vv. 21-25), la simbologia (vv. 31-36), la figura etimologica (vv. 42-48), frasi nominali (v. 43), la similitudine (v. 78), l’allitterazione (v. 137), l’inversione, la personificazione (v. 187), la metonimia (v. 198), la paronomasia (v. 198) e perfino un epifonema (v. 289) e una rima al mezzo (v. 391).

Il tono emotivo del poemetto.
Il poemetto è intriso di una dolce malinconia che si sviluppa, dal sentimento di nostalgia iniziale del ricordo di Felicita, alla tristezza del distacco finale. Lungo il percorso il poeta esprime anche un sentimento lieto per il vagheggiamento per Felicita ed esprime anche la speranza per una vita semplice e lontana dalla lotta del mondo e dalla sua aridità sentimentale, perché lui si crede un gelido esteta. Il tono emotivo è, dunque, in certi momenti lieto e fiducioso per una vita nuova e più autentica. Ma ciò è un’utopia perché il poeta sa già che non potrà mai avere una vita semplice e felice, come scrive Romano Luperini: “Semplice, ingenua, priva di cultura la Signorina Felicita incarna un ideale di vita elementare e sana, lontana dagli intellettualismi e dalle astrazioni proprie dell’arte e cui il poeta è legato; ella si offre come una possibile e vitale alternativa all’aridità sentimentale cui Gozzano era costretto dalla formazione culturale e dalla malattia”. (da Poeti Italiani: Il Novecento – Palumbo Editore – pag. 74). Il poemetto si chiude con il dolore profondo del poeta che vaga triste e perduto come un mendicante, con molti e mesti pensieri e pochi lieti sogni, e con il rimpianto di un amore che poteva fiorire e che invece non è fiorito.

La lexis del poemetto.
La lexis del poemetto è, senza dubbio, originale, aulica e personale e rappresenta il modo di scrivere di Gozzano. La lexis di Gozzano è lucida, forbita, accattivante e peculiare., una lexis chiara, semplice, piena di figure retoriche e di rime. Certamente la rima condiziona, limita, confina la lexis del poeta; ma, secondo me, Gozzano è poeta classico (l’ultimo dei classici), che scrive con la rima tutte le sue poesie. Ma la lexis di Gozzano, se pur condizionata dalla rima, riesce ad essere anche una lexis nuova e moderna, perché esprime la visione di vita del poeta: una visione di vita sconsolata e disincantata della realtà. Nuovo e vecchio sono presenti e convivono nella lexis di Gozzano. Gozzano è l’ultimo dei poeti classici, ma il primo tra i poeti moderni tra cui altri grandissimi come Montale, Corazzini e Ungaretti.

Il linguaggio poetico del poemetto.
Il linguaggio poetico del poemetto è direttamente proporzionale alla lexis di Gozzano. Quanto più spicca la lexis moderna, tanto più diminuisce la vecchia lexis rimata, così quanto più spicca il linguaggio nuovo, tanto più diminuisce il vecchio linguaggio. Nell’intera produzione poetica emerge un italiano medio, alto, forbito e pregiato. Molti critici, da Montale a Sanguineti, hanno insistito sulla novità del linguaggio gozzaniano; Montale per primo ha parlato di scintille: “Infallibile nella scelta delle parole (il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico e il prosaico)”. Dello stesso parere sono sia Romano Luperini che Maurizio Dardano, mentre Giusi Baldissone ne fa addirittura la novità più evidente di Gozzano, così scrive: “Gozzano fa della poesia sulla letteratura, con esiti tecnici sicuramente degni di certi sperimentalismi d’oggi, ma soprattutto instaurando un nuovo rapporto con le parole letterarie… (pagina 10). Gozzano parla sempre di letteratura, del fare letteratura. Tutta la sua poesia, in particolare, è un discorso sulla poesia, sui poeti, sulla rappresentazione della realtà in genere. È l’inaugurazione di una poesia di puro metalinguaggio… (pagina 11). Una poesia si può fare dunque anche con tante poesie messe insieme, incastrate come in un puzzle. Divertente, ironico, fine: sì, ma soprattutto disperato (pagina 16)” (da Gozzano Classici Italiani Utet). Infine Giusi Baldissone insiste sull’ironia di Gozzano: “L’ironia è la differenza tra sé e gli altri, tra il passato e il presente, tra la vita e la letteratura… (pagina 22). L’ironia ridistribuisce a ciascuno le sue responsabilità poetiche e alleggerisce Gozzano delle proprie (pagina 24)” (da Gozzano Classici Italiani Utet).
Io, Biagio Carrubba, trovo poca ironia nell’opera poetica di Gozzano e trovo per lo più un tono serio e compito, dato da un linguaggio alto, lirico e classico, poiché mi risulta come la sintesi del linguaggio di Dante e di Petrarca, di Leopardi e di Pascoli in una risultante che è solo gozzaniana. Dunque il linguaggio poetico di Gozzano è classico e nuovo insieme, ma anche personale come scrive Giusi Baldissone a pagina 23: “È sufficiente lo scarto di quell’ironia per non sentirsi intrisi dei suddetti veleni, per non essere né il Prati né l’Aleardi ma nemmeno il D’annunzio, il Pascoli ecc..”.

Le espressioni poetiche più belle del poemetto.
Le espressioni poetiche più belle del poemetto sono diverse: vv. 1 – 4; vv. 117 – 120; vv. 363 – 368; vv. 432 – 434.

La Weltanschauung del poeta.
La Weltanschauung del poeta è espressa chiaramente nei vv. 181- 204, nei vv. 297 – 326 e poi ancora nei vv. 429 – 434. È la Weltanschauung di un poeta che vuole rinunciare a vivere in competizione con gli altri, ha paura della vita con gli altri uomini e preferisce starsene da solo nella sua villa appartato, come dice in altre poesie de “I colloqui”, come la poesia “Un’altra risorta”.
La Weltanschauung di Gozzano allora è quello di un poeta che, condizionato dalla malattia, ha una visione della vita sconsolata e disincantata della realtà per cui rinuncia a tutto perfino all’amore sia di Amalia sia di Felicita.

Aspetti estetici del poemetto.
Gli aspetti estetici del poemetto sono molteplici: dal linguaggio forbito e chiaro alla drammaticità di alcuni dialoghi, dalle immagini liriche alla struttura quasi di novella. Gozzano, nei suoi ultimi anni di vita, finisce di scrivere raccolte di poesie e si dedicherà alle novelle e al cinema, ma non rinuncerà a scrivere poesie sparse molto belle. La bellezza poetica del poemetto è data, secondo me, dal tono soffuso e malinconico, dal leggero senso di utopismo che aleggia nel poemetto, dalla consapevolezza del poeta che la vita è piena di difficoltà e di speranze, ma che si può vivere anche senza amore. Si può rinunciare all’amore, ma ciò aumenta la sterilità dei sentimenti che fa diventare la vita simile alla morte.

Commento e valutazioni mie personali.

Io, Biagio Carrubba, amo molto le poesie di Gozzano perché le trovo profonde di pensiero filosofico ed esistenziale e ben curate, levigate ed ordinate. Posso dire che mi trovo molto vicino alle idee di Gozzano perché le mie fedi (culturali, filosofiche, politiche) e speranze sono spente, perché vorrei vivere da solo ma voglio essere circondato dall’amore (come lo sono in questo momento), perché spero e credo in Dio anche se ho molti dubbi sul piano logico. Mi piacciono molto, anche, le poesie sparse di Gozzano tra cui “Nell’abazia di San Giuliano”, “Ah! Difettivi sillogismi”, “L’ipotesi” e tante altre come “La Notte Santa”. Inoltre concordo perfettamente con queste due considerazioni di Giusi Baldissone, dal libro “Opere di Guido Gozzano” (Utet 1983): la prima considerazione è questa a pagina 9: “Ci sono almeno due consigli che si è tentati di dare a chi voglia leggere Gozzano oggi. Primo, dimenticare il cosiddetto “crepuscolarismo”; secondo, dimenticare D’Annunzio”. La seconda considerazione è quella scritta a pagina 29: “Gozzano è un post-moderno, è l’Arbasino dei salotti torinesi di primo novecento, è quello che alla fine di un movimento poetico, concluso e senza seguito di novità, scopre il metalinguaggio come unica autentica novità, come filo di ricerca verso approdi forse ancora lontani. Questa è, in ultima analisi, la drammatica attualità di Gozzano: l’avere inventato il metalinguaggio come poesia, l’essere e il proporre una poesia di passaggio, in una civiltà poetica che era, ed è nuovamente, di passaggio”. Io, Biagio Carrubba, credo che Gozzano non sia solo un poeta crepuscolare ma è soprattutto un poeta universale poiché nel corso della sua vita, con le sue opere poetiche, ha saputo esprimere tutta la perplessità, la precarietà e le paure dell’uomo di inizio XX secolo e per traslazione, dell’umanità intera.

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Modica 19 gennaio 2019                                                                                                            Prof. Biagio Carrubba

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