
Introduzione alla poesia “La sera del dì di festa”.
“La sera del dì di festa”, la poesia numero XIII dei Canti ed è stata scritta da Leopardi, probabilmente, a ridosso del 15 giugno del 1820, il giorno della festa del patrono di Recanati.
Il terzo idillio del Leopardi, “La sera del dì di festa”, sintetizza in modo poetico vari temi, sensazioni e riflessioni che il poeta stava facendo in quelli anni: l’infelicità personale, la natura benigna e allo stesso tempo matrigna, l’amore di una donna a lui negato, il grandioso passato di Roma e la velocità del tempo che passa. Proprio su questa ultima considerazione Leopardi sviluppa una similitudine tra il giorno festivo che viene, e che passa velocemente, e il passato glorioso dell’antica Roma, anch’esso ormai inesistente. Un altro paragone è quello che si riferisce al canto; come il canto solitario dell’artigiano saluta la fine del giorno festivo, così il canto solitario che il poeta sentiva morire lontano nella notte della sua fanciullezza, salutava la sua fine e straziava il suo cuore. La poesia risulta molto bella perché vi è espressa “una tensione culturale” molto intensa e perché tutto l’incalzare delle domande retoriche rivelano in Leopardi la sua ribellione contro ogni cosa, contro la natura e contro il tempo. Ma la poesia esprime soprattutto il dolore e l’infelicità che la natura ha imposto al poeta. Si può dire così che Leopardi sia il poeta del dolore, sia il poeta che grida, protesta e si ribella contro la natura per l’ingiustizia gratuita ed inutile che deve subire e dovrà patire per tutta la vita. Da questa infelicità scaturisce la sua carica esistenziale, sovversiva ed eversiva, contro la vita, contro la natura e spiega il perché del suo desiderio di morire.
La poesia si apre con la stupenda descrizione della sera estiva di un giorno festivo nel quale il poeta si è innamorato di una donna dalla quale però sa già che non sarà ricordato né apprezzato; questa delusione fa disperare il poeta e gli fa prevedere che la mancanza d’amore sarà una costante per tutta la sua vita a venire.
Il canto fu pubblicato per la prima volta, con gli altri idilli, nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano (dicembre 1825) con il titolo “La sera del giorno festivo”. Leopardi mantenne questo titolo fino all’edizione del 1831 e lo cambiò con quello definitivo che conosciamo nella seconda edizione dei Canti (Napoli 1835).
Testo della poesia “La sera del dì di festa”.
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi 5
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. 10
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro 15
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or dà trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch’io speri, 20
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto 25
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 30
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero 35
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta 40
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco, 45
Già similmente mi stringeva il core.
Parafrasi e costruzione diretta della poesia “La sera del dì di festa”.
La notte è mite e chiara e senza vento,
e la luna silenziosa sta pensile sopra i tetti e
in mezzo agli orti, e da lontano illumina
nitidamente il profilo di ogni montagna.
O donna mia, ogni sentiero tace e
la lampada notturna trapela qua e là:
tu dormi, da quando un facile sonno
ti prese nelle tue silenziose stanze; e
nessun affanno ti tormenta; e
non sai, né ti immagini, quale profonda
ferita mi hai aperto nell’anima.
Tu dormi: io mi affaccio a salutare
questo bel cielo, che appare buono
alla vista, e mi affaccio a salutare
l’antica onnipossente Natura,
che mi generò ad una vita di tormenti.
Mi disse che a me avrebbe negato
la speranza, ogni speranza
(di poter essere un giorno felice);
mi disse che i miei occhi avrebbero
brillato solo di pianto.
Questo giorno fu festivo: e tu donna mia
lascia stare gli svaghi; e forse, in sogno, ti ricordi
a quanti piacesti e quanti ti piacquero;
io non ritorno nel tuo pensiero, e non
mi illudo di ritornarti nel pensiero.
Intanto io chiedo quanto tempo mi
resti da vivere, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni
Orrendi in età giovanile! Ahi, per la via
odo, non lontano (da qui), il solitario canto
dell’artigiano che, a tarda notte,
dopo gli svaghi, ritorna a casa sua;
e il cuore, dolorosamente, mi si stringe
se penso come tutto al mondo passa
e quasi non lascia orma. Ecco, il dì festivo
è passato, e il giorno feriale lo segue,
e il tempo si porta via ogni umano evento.
Dov’è il suono dei popoli antichi?
Dov’è il grido dei nostri avi famosi?
Dov’è l’impero di quella famosa Roma?
Dove sono le armi e il fragore con i quali
essa conquistò altre terre e altri mari?
Ora tutto è pace e silenzio, e
tutta la gente riposa in pace, e
non si ragiona più di loro.
Nella mia prima fanciullezza,
quando aspettavo bramosamente
il giorno festivo, e dopo che esso passava,
io, sveglio e triste, stavo sul letto;
e nella tarda notte un canto, che si udiva
morire a poco a poco,
dal momento che si allontanava,
allo stesso modo mi rattristava il cuore.
Sintesi della poesia “La sera del dì di festa”.
“La sera del dì di festa” svolge un continuum del poeta, più esistenziale che logico, perché il canto mette in progressione tutte le riflessioni, le sensazioni e le emozioni che Leopardi stava vivendo in quegli anni tra il 1819 e il 1821. Di questi temi e di queste riflessioni abbiamo riscontri in due lacerti tratti da due lettere indirizzate a Pietro Giordani e in un’altra riflessione sullo Zibaldone.
Le due lettere sono rispettivamente del 6 marzo e del 24 aprile 1820 e il passo dello Zibaldone è del 1819 (50-51).
“La sera del dì di festa” inizia con la bellissima descrizione della serata festiva ed estiva e poi continua elencando i motivi della sofferenza del poeta che costituiscono i principali i temi del canto: il mancato innamoramento di una giovane donna conosciuta lo stesso giorno, la condanna della natura sulla sua infelicità, la sua disperazione fisica, l’ascoltare il canto solitario di un artigiano che si spegne nella notte ed in ultimo la meditazione sul tempo che passa. Infine il canto si chiude sul ricordo giovanile di un altro canto che Leopardi aveva ascoltato nella sua infanzia.
La poesia si può, schematicamente, dividere in sei parti:
1. Una introduzione – descrizione (vv. 1 – 4);
2. I° tema: sofferenza per l’amore non corrisposto da una giovane donna (secondo emistichio del verso 4 – 10 / vv. 17 – primo emistichio del verso 21)
3. II° tema: angoscia per l’infelicità impostagli dalla natura (vv. 11 – 16 / vv. 21 – 24);
4. III° tema: il canto solitario dell’artigiano (vv. 24 – 33)
5. IV° tema: l’antica potenza e fama di Roma (secondo emistichio del verso 33 – 39)
6. V° tema: congedo e conclusione (vv. 40 – 46).
Il tema della poesia “La sera del dì di festa”.
Il tema della poesia è sinteticamente ed intelligentemente molto bene espresso da Ugo Dotti che così lo sintetizza, in una nota alla poesia: “c’è il sentimento dell’enigmatico e doloroso volgere del tempo” (da Giacomo Leopardi – Canti – Feltrinelli Editore – Pagg. 304 – 305).
Io, Biagio Carrubba, sono perfettamente d’accordo con la sintesi di Ugo Dotti perché il giorno festivo rappresenta il presente che è enigmatico e doloroso, il quale si distanzia dal passato e si avvicina al futuro che ancora non c’è. Il presente, rappresentato dal giorno festivo, è il giorno in cui si vive, si ricorda il passato e si anticipa il futuro ed è quindi importante. Come il presente dà il senso, il fine e chiarisce e spiega il tempo passato, così il tempo futuro darà il senso, il fine e chiarirà e spiegherà il tempo presente; ma chi vive il presente, in esso, trova e vive il sentimento enigmatico e doloroso volgere del tempo. Come a dire: si conoscono la gioia e il dolore del passato ma ancora non si conoscono la gioia e il dolore del futuro.
Il messaggio della poesia “La sera del dì di festa”.
Il messaggio della poesia è senza dubbio anche questo molto ben descritto da Ugo Dotti che così scrive: “L’inganno del presente, anche nella forma in cui l’immediata percezione potrebbe farlo apparire altro e diverso, rinvia senza rimedio alla nullità del tutto” (da Giacomo Leopardi – Canti – Feltrinelli Editore – Pag. 58).
Il messaggio della poesia è proprio l’inganno della natura, che a prima vista gli appare serena e benevola, ma che in realtà lo condanna all’infelicità. Ma anche il trascorrere del tempo annulla ogni cosa, condanna tutti gli uomini alla sofferenza e alla morte per cui il silenzio costituisce la tomba di essi.
Il messaggio del poeta si può sintetizzare così: la vita non è altro che un susseguirsi di giorni festivi e giorni feriali, dal passato al presente, senza soluzione di continuità in un desiderio ardente, ma utopico, di trovare la felicità che sfugge continuamente a tutti.
La tesi della poesia “La sera del dì di festa”.
Anche la tesi è ben individuata da Ugo Dotti che così scrive: “Sullo sfondo di una Recanati osservata di notte dalla finestra di un palazzo nobiliare, ciò che a poco a poco prende vita in un grandioso crescendo è il convinto sentimento della vanità di ogni cosa, audacemente esemplificato tanto nelle insignificanti vicende di un artigiano plebeo quanto in quelle – apparentemente grandiose – del popolo e dell’impero di Roma” (da Giacomo Leopardi – Canti – Feltrinelli Editore – Pag. 58).
Non c’è dubbio che la tesi della poesia sia questa: ogni cosa, ogni persona, ogni popolo sono destinati al silenzio, alla morte e nessuna cosa lascerà alcuna orma di sé, come dice il verso numero 30: “E quasi orma non lascia”. In sintesi, quindi, il giorno festivo, cioè il presente, è il giorno più importante ma ad esso, dopo la notte, seguirà il giorno feriale che toglierà valori e vita al giorno festivo, cioè alla vita del presente, così come il presente ha tolto ogni valore e vita al passato e allo stesso modo il tempo futuro toglierà valore e vita al presente. Per questo motivo chi vive il presente percepisce “il sentimento enigmatico e doloroso volgere del tempo”.
Tutto questo concetto è espresso dal Leopardi nei versi 30 – 33: “ecco è fuggito / il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede, e se ne porta il tempo / ogni umano accidente”.
Analisi della forma della poesia “La sera del dì di festa”.
Il genere della poesia.
Il genere della poesia è lirico perché esprime tutto il mondo interiore del giovane Leopardi.
La metrica della poesia.
La poesia è composta da 46 endecasillabi sciolti.
Il linguaggio poetico.
Il linguaggio della poesia è molto lirico e poetico perché è composta da una accurata scelta di parole poetiche altamente letterarie e perché è formato da una moltitudine di figure retoriche che danno alla poesia una musicalità e una leggerezza davvero notevole. Ecco alcune figure retoriche del canto:
1. molte allitterazioni (vv. 1 – 4);
2. molti polisindeti (vv. 1 – 4; vv. 38 – 39);
3. molti latinismi (orti, solenne, riede, sollazzi);
4. molti iperbati (vv. 2 – 3; vv. 11 – 12; 44 – 45);
5. una personificazione (vv. 14 – 16);
6. una apostrofe (v. 4);
7. molti enjambement (vv. 8 – 9; vv. 9 – 10; vv. 14 – 15; vv. 31 – 32);
8. un climax ascendente (primo emistichio del verso 23);
9. un chiasmo (vv. 30 – 32);
10. tre domande retoriche (secondo emistichio del verso 33 – 37);
11. il topos dell’Ubi sunt (vv. 33 – 37; corrispondenti alle tre domande retoriche);
12. innumerevoli inversioni;
13. una diastole (v. 37);
14. una sineddoche (primo emistichio del verso 43);
15. una similitudine (v. 46).
Il tono emotivo della poesia.
Il tono emotivo della poesia è bene espresso da Ugo Dotti che così scrive: “Orbene: questo stato di sconforto e quasi di disperazione, questa situazione, o affezione, o avventura storica dell’animo del poeta insieme consolato e avvilito dall’imminente esplosione della primavera – vale a dire dalla vita che riprende ma che inganna, dal calore dell’esistenza che se oggi e domani sarà scomparso – questo particolarissimo momento di “universale precarietà” costituisce senza dubbio il nucleo animatore del canto”. (da Giacomo Leopardi – Canti – Feltrinelli Editore – Pagg. 57 – 58).
Io, Biagio Carrubba, concordo sul fatto che il tono emotivo della poesia sia la manifestazione della disperazione e della rabbia di Leopardi che protesta contro la natura che lo ha condannato ad una infelicità perenne; ma Leopardi contrappone, a questa infelicità e condanna, lo spettacolo lunare della serata e la serenità della natura e dei monti che, in parte, mitigano la condanna impostagli. Quindi la natura in questa fase giovanile del poeta è ancora percepita in maniera ambivalente: da un lato lo condanna all’infelicità ma dall’altro lato lo rasserena. Da qui i bellissimi versi iniziali che descrivono in modo meraviglioso lo spettacolo della natura: “Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / Posa la luna e di lontan rivela / Serena ogni montagna” (vv. 1 – 4).
La lexis della poesia.
La lexis della poesia rende immortale ed indimenticabile il canto perché, al di là delle idee espresse da Leopardi sulla grandezza di Roma, risulta leggera ed originale, musicale e triste. Essa infatti esprime molto bene tutti i sentimenti espressi da Leopardi nel contenuto: il poeta, dapprima è stupito dalla bellezza dello spettacolo naturale, successivamente protesta e si ribella e quasi sbraita contro la natura, buttandosi a terra; infine si rammarica del tempo che passa e rievoca un analogo canto che già gli aveva fatto presagire la sua infelicità futura.
In sintesi, la bellezza della lexis della poesia, è data da una ricercatezza lessicale, rara, preziosa e finissima, dal movimento paratattico ed ipotattico delle frasi, dal tono melanconico e disperato dei sentimenti espressi dal poeta, dal vortice delle figure retoriche e dal turbinio delle emozioni che il poeta prova alla fine del giorno festivo, deluso e amareggiato dal mancato innamoramento con la ragazza incontrata. Tutti insieme questi elementi della lexis producono una incessante rivolta del linguaggio poetico e lo innalzano, in modo abissale, rispetto al linguaggio comune facendone un canto indimenticabile.
La bellezza della poesia.
Io, Biagio Carrubba, credo che la bellezza del canto nasca proprio da almeno tre contrapposizioni fra alcuni aspetti del testo.
La prima contrapposizione si ha tra il titolo ed il contenuto; il titolo promette un contenuto allegro, sereno e il giorno di festa ma nella realtà il contenuto manifesta la rabbia e la disperazione del poeta.
La seconda contrapposizione è data dalla sovrapposizione dei vari temi non tutti armoniosamente collegati tra di loro: infatti, dopo la dolcissima contemplazione iniziale della natura, si susseguono quattro temi molto diversi tra di loro, ma collegati dalla esperienza esistenziale e personale del poeta. I quattro temi sono:
1. il mancato innamoramento della giovane donna;
2. l’affievolirsi del canto dell’artigiano nella notte;
3. il dimenarsi del poeta a terra per la rabbia;
4. la caducità dell’Impero Romano e il ricordo infantile che suggella in modo definitivo l’infelicità del poeta, attestata nei versi 14 – 16: “A te la speme / Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”.
La terza contrapposizione è tra il dolce canto della lexis, raffinata, preziosa, distaccata, fresca, perfetta e addirittura monotona con la stessa cadenza di frasi e il turbinio delle emozioni di rabbia, dei sentimenti negativi e dei pensieri pessimisti perché Leopardi già immagina l’inesorabile trascorrere del tempo verso il nulla e preconizza la sua condanna definitiva all’infelicità, impostagli dalla natura.
Modica 19/ 07/ 2018 Prof. Biagio Carrubba
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