Introduzione alla poesia “A SE STESSO”. Canto XXVIII di G. Leopardi.

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Introduzione alla poesia “A SE STESSO”.
Canto XXVIII di G. Leopardi.

“A SE STESSO” è la quarta poesia del ciclo di Aspasia. È, certamente, la poesia più drammatica e più dolorosa di tutto il ciclo. Leopardi esprime in questa poesia tutto il suo intenso dolore che la sentita e viva passione, verso la bella signora Fanny Targioni Tozzetti, gli aveva procurato. Leopardi è consapevole che questa passione amorosa per Fanny sia l’ultima possibilità che la sua breve vita gli poteva dare e quindi “A SE STESSO” è la poesia del “non ritorno all’amore” vissuto in prima persona. Di lì a poco, insieme al sodale amico Antonio Ranieri, Leopardi partì per Napoli, dove scrisse l’ultima poesia del ciclo di Aspasia per la bella Fanny. Con l’ultima poesia del ciclo, Aspasia, Leopardi chiuse definitivamente i conti con i sentimenti amorosi. Dopo la fine del ciclo di Aspasia Leopardi, ormai stabilitosi definitivamente a Napoli, scrisse altri canti di politica e di grande respiro filosofico, ma non ardenti di passione e d’amore. Unica eccezione furono, negli stessi anni tra il 1833 e il 1836, la stesura dei suoi centoundici pensieri che sintetizzano, in modo sintetico e prosastico, tutta la sua esperienza umana e poetica. Tra questi pensieri Leopardi ne scrisse uno in cui riprese, ancora una volta, il tema dell’amore. Si tratta del pensiero numero LXXXII nel quale Leopardi rivalutò enormemente l’esperienza amorosa. Nella poesia “A sé stesso” Leopardi, si rivolge al suo cuore non nominandolo nel titolo perché sa che il suo cuore è ferito mortalmente dalla fallimentare passione per la bella Fanny. Leopardi, in balia alla totale disperazione, disprezza e odia tutto il mondo, dalla Natura ad Arimane, il dio del Male, che di nascosto domina e sparge il male sulla terra e sugli uomini. “A SE STESSO” presenta diversi problemi di datazione e di bellezza estetica, tutti intelligentemente studiati ed analizzati da Ugo Dotti che dà questo giudizio sul canto: “La quale non è soltanto lirica vera e grande, ma si inserisce a pieno titolo sia nel ciclo dei Canti di Aspasia sia in quello più vasto di tutta la poesia leopardiana, a partire almeno dal Risorgimento” (da Giacomo Leopardi – Canti – A cura di Ugo Dotti – Pag. 117). La poesia è contemporanea allo scritto “Ad Arimane” ed insieme i due testi completano e manifestano lo spirito negativo del pensiero di Leopardi e attestano la profonda disperazione a cui era arrivato il poeta in quegli anni. Se, dunque, molto probabilmente, l’inno “Ad Arimane” fu composto tra maggio e giugno 1833, è molto probabile che il canto “A sé stesso” sia stato scritto tra giugno e luglio del 1833. Nello scritto “Ad Arimane” Leopardi chiede al dio del male la grazia: “Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. concedimi ch’io non passi il 7° lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggiore predicatore, l’apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo dei mali, la morte. (non ti chiedo ricchezze, non amore, sola causa degna di vivere). Non posso, non posso più della vita”. Ma Leopardi, non è morto subito come chiedeva ad Arimane, ma è morto dopo altri quattro anni di sofferenza per i gravissimi malanni che logoravano il suo gracile, malfermo e malandato corpo, regalandoci però, in questo frattempo, altri capolavori poetici che sono, e rimarranno, immortali.
Io, Biagio Carrubba, constato che il poeta, malgrado non sia stato esaudito immediatamente perché non morirà a 35 anni come da lui richiesto, purtroppo è, comunque, morto molto giovane, il 14 giugno del 1837 ad appena 39 anni, quindi quasi alla fine del suo ottavo lustro di vita. Il canto “A sé stesso” è il numero XXVIII dei “Canti” ed è composto da sedici versi di una sola strofa che condensa in modo estremo tutta la disperazione di Leopardi.

Testo della poesia “A SE STESSO”.

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento. 5
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15
E l’infinita vanità del tutto.

Parafrasi e costruzione della poesia “A SE STESSO”.

Tu, stanco cuor mio, ora riposerai per sempre.
L’ultima illusione (amorosa), che io credevo eterna,
è morta. Perì. So perfettamente che non solo
la speranza è spenta, ma anche il desiderio
delle care illusioni è scomparso.
Giaci per sempre. Assai
palpitasti. Nessuna cosa terrena
vale i tuoi sentimenti,
né la terra è degna dei tuoi sospiri.
La vita, amara e noiosa, non è altro
che nulla; e il mondo è fango.
Acquietati ora. Non sperare più.
Il fato ha donato
agli uomini non altro che il morire.
Ormai, tu cuore mio, odia Te stesso, la natura,
“la somma intelligenza” (del male), la quale, invisibilmente, governa
gli uomini a loro comune danno
e, tu cuore mio, odia l’infinita nullità dell’universo.

Commento e mia valutazione personale sulla poesia “A SE STESSO”.

Io, Biagio Carrubba, credo che il canto “A SE STESSO” esprima appieno lo stato di sconforto, di desolazione e di disperazione di Leopardi. Tenendo conto delle gravi condizioni di salute del poeta, intorno al 1833, tenendo conto dello stato depressivo dell’anima di Leopardi, tenendo conto, anche, dello smacco e dello scacco subito dalla cocente delusione d’amore per la bella signora Fanny e tenendo conto del carattere radicale ed iper-sensibile del poeta, il canto “A se stesso” esprime, in modo tremendo, il dolore del poeta ma allo stesso tempo accusa Arimane, il dio del male, che governa malvagiamente e nascostamente tutti gli uomini per farli soffrire e per farli morire. L’infelicità degli uomini è l’unica verità e realtà per Leopardi e da questa tremenda constatazione deriva anche la potenza repressa del poeta ed espressa nel canto. Infatti il poeta, non potendo manifestare il suo amore, esprime tutte le sue potenzialità affettive verso l’amore, verso le donne e verso la vita ed il canto esprime tutto lo sgomento, la costernazione ed il biasimo di Leopardi verso tutto e tutti. Io, Biagio Carrubba, credo che il breve, ma intenso e cupo canto “A SÉ STESSO”, sia l’espressione più alta del pessimismo cosmico leopardiano e la sua bellezza nasce proprio dalla tragicità, dalla densità e dall’intensità del dolore del giovane e sconfortato Leopardi. La bellezza del canto, dunque, è quindi sprigionata dall’intensa tristezza che è condensata nei brevi e spezzati versi. La tristezza, che pervade il canto, diffonde e trasfonde alla poesia una bellezza quasi negativa ed offuscata perché velata dal nero pessimismo e dalla malinconia del poeta. Questa bellezza velata si presenta come quella di una rosa che, bellissima nel suo profumo e nel suo colore, è spezzata e offuscata da qualche macchia amaranto e da qualche venatura che ne infrangono la vellutata bellezza dei petali. Io, Biagio Carrubba, penso che la poesia sia molto bella ed intensa perché il poeta sublima e riversa tutto il suo dolore nell’ “infinita vanità del tutto”.

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Modica 28 luglio 2018                                                                            Prof. Biagio Carrubba

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