
INTRODUZIONE AL CANTO “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA”.
CANTO XXIV DI G. LEOPARDI.
Il mese di settembre porta sovente forti e burrascosi temporali, che finiscono subito dopo, con il ritorno del sereno che rende pulito e nitido il cielo, lavato dalla pioggia. Credo che da uno di questi temporali il Leopardi abbia preso lo spunto per scrivere, di getto, il bel canto, “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA”, scritto tra il 17 e il 20 settembre 1829, mentre si trovava a Recanati, nella sua casa natale. E proprio qui egli scrisse questo capolavoro poetico nel quale, alla descrizione fisica della realtà naturale del dopo temporale, fa seguire la sua concezione della vita, che volente o nolente, contiene molta verità sulla condizione esistenziale degli uomini. Gli uomini sono gettati sulla terra a lottare ogni giorno contro gli elementi naturali, contro le malattie, contro il male, che proviene dalla stessa materia di cui è composto il loro corpo, e contro gli altri uomini per sopravvivere in una concorrenza spietata e continua giorno dopo giorno. La poesia possiede una leggiadria intrinseca dovuta alle molte rime in clausola, alle rime al mezzo, alle molte allitterazioni, ai latinismi, alle belle espressioni che le danno un’aria suggestiva di chiarezza linguistica e poetica davvero affascinante e magica. Il tema della poesia è molto bene espresso, come al solito, da Ugo Dotti, nel suo bel libro su Leopardi (G. Leopardi – Canti – Feltrinelli – 1993) a pagina 99 dove dice: “Quel poco di piacere che l’esistenza può dare non è che il frutto di un vasto e più intenso dolore provvisoriamente sospeso e che, se si guarda la cosa da un altro punto di vista, questo stesso piacere non è che un frutto illusorio dell’immaginazione, una fallace ribellione dell’insito desiderio di felicità, che la realtà tuttavia s’incarica di spezzare appena esso sia sbocciato”.
Io, Biagio Carrubba, invece, credo che la situazione esistenziale dell’Umanità non stia così. Concessa al Leopardi tutta la verità delle sue parole, io penso che l’umanità abbia ancora un buon margine di felicità da poter conquistare, godersi e vivere su questa terra. E allora basta fare l’antitesi della poesia che viene fuori una più giusta considerazione sulla effettiva condizione esistenziale degli uomini sulla terra: “Passata è la quiete/ adesso bisogna aspettare la tempesta/ che segue al sereno./ Dopo il dolore segue il piacere che viene cercato perpetuamente dall’umanità/, che vive e dà scopo all’esistenza umana/ che addolcisce e attenua i grandi mali della vita./ Onde la vita è piacere/ interrotto dal dolore;/ dunque se la vita è piacere/ allora il dolore è un breve intervallo tra un piacere ed un altro/ benché questo ci fa dimenticare il piacere vissuto/ e allora la vita è continua ricerca del piacere, che solo la giovinezza e la vita immortale ci possono dare. / La giovinezza vince la vecchiaia, come la vita immortale vincerà il dolore della morte e la morte. / Ed io credo che gli uomini stanno arrivando a questa meta grazie alle ultime scoperte scientifiche sul rallentamento delle cellule del corpo umano e tramite le ulteriori scoperte scientifiche che verranno fatte nei prossimi decenni, si arriverà ad allungare la vita degli uomini fino a farlo diventare quasi immortale”.
Testo della poesia
Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
della novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana.
Parafrasi del canto “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA”.
La tempesta è finita;
sento gli uccelli far festa, e sento la gallina,
che dopo essere tornata sulla via,
ripete il suo verso. Ecco il sereno:
irrompe là da ponente, dalle montagne;
la campagna si sgombra dalle nuvole;
e il fiume appare chiaro nella valle.
Ogni cuore si rallegra dentro di sé,
da ogni parte il rumorio risorge,
il lavoro consueto ritorna.
L’artigiano, con il lavoro nelle mani,
si affaccia, cantando,
per guardare il cielo umido;
la fanciulla velocemente viene fuori
di casa per raccogliere l’acqua
della nuova pioggia;
e l’erbivendolo rinnova,
di strada in strada,
il suo grido quotidiano.
Ecco c’è il sole che riappare, che si espande
tra i colli e tra i casolari.
I servitori aprono le finestre,
le terrazze e le logge;
e da lontano, dalla via principale,
si ode il tintinnio dei sonagli;
e il carro, che stride, del viandante,
che ripiglia il suo cammino,
Ogni cuore si rallegra.
La vita, quando è dolce e bella
come lo è adesso?
Lo è quando l’uomo si dedica
con amore ai suoi studi?
O quando l’uomo ritorna a lavorare nelle sue opere?
O quando l’uomo incomincia nuove cose?
O quando l’uomo ricorda meno i suoi mali?
Il piacere è conseguenza del dolore;
la gioia è una vana illusione,
perché è il frutto di un pericolo passato,
tanto che anche chi detestava la vita
e teme la morte ora si riscuote,
e prende coscienza di sé stesso.
Anche le genti, diventate
fredde, ammutolite e pallide
per la gran paura,
sudarono e palpitarono,
quando videro
fulmini, nuvole e vento
scatenarsi contro di essi.
O natura cortese, liberale
Questi soni i doni tuoi e le tue gioie?
che tu dai agli uomini?
Uscire dalle pene
è per gli uomini cosa molto bella.
Tu diffondi i dolori in grande quantità;
il dolore nasce spontaneamente:
e quel po’ di piacere, che talvolta,
o per prodigio o per miracolo,
nasce dal dolore, è un gran guadagno.
Umana famiglia, cara agli Dei,
se ti è lecito alleviare alcuni dolori
sei assai felice:
se la morte ti libera da tutti i mali
sei beata.
Il tema della poesia.
Il tema della poesia è nascosto nel titolo; infatti “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA” fa pensare al sereno che segue il temporale e la prima strofa conferma questa impressione ed idea. Nella prima strofa, il Leopardi descrive il ritorno alle attività quotidiane interrotte per il temporale; i vari personaggi riprendono le azioni quotidiane: dalla gallinella che ripete il suo verso al viaggiatore che ripiglia il suo cammino. Il lettore pensa che il Leopardi dovrebbe sviluppare, e dare più valore, il sereno che segue ed irrompe dopo la tempesta; invece, il poeta insiste e sviluppa il fatto che il piacere che segue allo spavento della tempesta è così poco che diventa niente in confronto al dolore che domina nella natura. E allora il rapporto si inverte: ciò che più preme al Leopardi non è il poco piacere che segue la tempesta ma il dolore che domina e sconvolge gli uomini.
Nella poesia, il Leopardi sviluppa questa similitudine: come dopo la tempesta segue il sereno, così dopo il dolore segue il piacere, ma quel piacere è così breve che si riduce a niente. Questa accentuazione del pericolo della tempesta è evidenziata da questi versi: “onde si scosse/ e paventò la morte/ chi la vita abborria;/ onde in lungo tormento/ fredde, tacite, smorte, / sudar le genti e palpitar, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento/” (versi 34 –36).
Questa descrizione ha lo scopo di aumentare, di molto, il dolore che la natura arreca negli uomini e ciò spiega la svolta della seconda e terza strofa, nelle quali si dà maggiore risalto al dolore e agli affanni che la natura procura agli uomini, rispetto alla prima strofa ricca di quiete. Il “brusco passaggio di tono”, come dice Fernando Bandini (Canti; Edizione Garzanti pagina 215), è dovuto, per l’appunto, a questo insistere che il Leopardi fa più sulla tempesta che sulla quiete. Per fortuna nella vita di tutti i giorni il rapporto normale è diverso: dura di più il sereno che la tempesta, dura di più la salute che la malattia, ad eccezione dei casi gravi e disgraziati che possono portare anche alla morte improvvisa e violenta. Invece, il Leopardi, accentua maggiormente i casi sfortunati e ingigantisce le intemperie del clima diminuendo il piacere che, per fortuna, c’è tra gli uomini, magari discontinuo, ma in misura maggiore di quello stimato dal poeta. In effetti il Leopardi, proprio in quegli anni, aveva cambiato la sua idea sul “concetto di piacere” e sull’idea di Natura che aveva avuto prima. Il Leopardi aveva già sviluppato molti anni prima la sua teoria del piacere che era molto diversa da quella maturata nella costrizione di stare a Recanati. Il Leopardi aveva scritto: “L’anima umana desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita o congenita con l’esistenza, e perciò non può avere fine in questo o in quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina con la vita” (citazione tratta da Leopardi – Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pag. 69 (pagina originale dello Zibaldone 165)). (E questa, secondo me, è la l’idea giusta che ogni uomo ha del piacere).
Ora invece il Leopardi, imprigionato a Recanati, e dopo tutte le disillusioni che aveva provato negli anni, cambia parere ed accentua gli aspetti distruttivi e mortiferi della natura; il poeta stava quindi cambiando il suo giudizio sulla natura, che da madre benigna, e “pietoso no, ma spettatrice almeno”, diventa “rea di ogni cosa”. Questa trasformazione è confermata dallo Zibaldone: “La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine dei veri mali de’ viventi” (Recanati, 2 gennaio 1829) (citazione tratta da Leopardi – Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pag. 931 (pagina originale dello Zibaldone 4428).
Sintesi e coerenza della poesia.
La prima strofa inizia con l’affermazione che la tempesta è passata. Il poeta sente gli uccelli gioire e la gallina fare il suo verso; il sereno irrompe da ponente e nella valle il fiume diventa chiaro; i suoni usuali ritornano a farsi sentire; l’artigiano, con gli attrezzi del lavoro nelle mani, si affaccia sull’uscio per vedere il cielo terso. Il sole riappare ed illumina le valli e le case; la servitù apre le finestre e le terrazze, e dalla strada maestra si ode lo stridere del carro del viaggiatore che riprende il suo cammino.
All’inizio della seconda strofa, il poeta interviene e afferma che la vita è così bella proprio dopo che è cessata la tempesta e ogni uomo si rallegra. Il piacere segue il dolore; e anche, chi prima detestava la vita, ora si riscuote; si scuote anche la gente che diventò fredda e tacita per il gran tormento della tempesta quando vide la furia degli elementi naturali scagliarsi contro di loro.
Nella terza strofa il poeta, tra l’ironico e il sarcastico, si rivolge alla natura, la quale dona agli uomini “questi doni” ma il piacere che ne scaturisce è tanto poco che quel poco che nasce sembra un gran guadagno. Orbene, conclude il poeta, l’umanità è felice se riesce ad alleviare da qualche dolore, ed è beata se la morte la libera da ogni male.
Il messaggio della poesia.
Il messaggio della poesia è veramente drammatico e drastico. La serenità è solo “gioia vana”, perché il dolore domina sopra gli uomini, i quali sono felici se riescono a prendere sollievo da qualche dolore e beati se la morte li libera da ogni dolore. La natura sparge dolori agli uomini e il dolore sorge spontaneamente tra di essi; quel poco di piacere che riesce a nascere tra gli uomini, nasce o per prodigio o per miracolo, quindi quasi mai. Credo che siano poche le persone d’accordo con questa tesi del Leopardi, e neanche io lo sono; per prima cosa, credo la morte non “risana” dal dolore, ma uccide solamente perché toglie agli uomini la vita, cioè la sola cosa veramente unica, preziosa e bella che ogni uomo riceve dalla natura. La prova a questa mia tesi è che anche gli uomini che diventano pazzi e, che hanno perso il ben dell’intelletto e di ogni forma di coscienza, non rinunciano a vivere, tanto che, benché ormai inattivi, incoscienti, quasi inutili, non perdono l’istinto di mangiare, cioè l’attività istintiva che permette di stare in vita. Dunque, se c’è qualcosa che libera da ogni male, questa è la scienza in senso lato, la medicina e la genetica in particolare le quali potranno, un giorno ormai non lontano, veramente liberare gli uomini dalle malattie e dal dolore.
Il secondo motivo di discordanza con la tesi del Leopardi è che il piacere è sia la base che il fine dell’agire umano e per questo l’uomo agisce e combatte contro tutto e tutti. Il piacere, del resto, è il fine a cui tende ogni essere umano e forse divino (Perché Dio ha creato l’universo se non per il piacere di creare?). Il piacere ha tante forme: dal piacere sessuale, al piacere intellettuale, dal piacere del cibo al piacere spirituale, dal piacere fisico al piacere creativo, dal piacere dello scoprire al piacere dell’inventare, dal piacere manuale al piacere creativo, dal piacere scientifico al piacere poetico, dal piacere della solitudine al piacere della compagnia, dal piacere di vivere al piacere di morire.
La tesi della poesia.
La tesi della poesia è quella di indicare che “il piacere” è talmente raro in natura che quel poco che gli uomini riescono a godersi è un fatto prodigioso e miracoloso; quindi, praticamente si riduce a niente, a differenza del dolore che nasce in gran quantità e spontaneamente. Orbene il Leopardi conclude che soltanto la morte “risana” cioè libera l’umanità da ogni dolore. Tutte le scene iniziali, descritte nella prima strofa, sono soltanto apparenza di quiete come dice il titolo; esse manifestano una apparente quiete dietro la quale si cela sempre in agguato la tempesta e poi alla fine la morte. La natura, appena può, riversa agli uomini dolore e lutti, tanto che si può dire che la quiete non esiste tra gli uomini. (Cfr Zibaldone pagg. 2600 – 2602).
I fatti e i personaggi della poesia.
I personaggi della poesia sono, da un lato, i personaggi umani e il poeta, dall’altro lato la natura nei suoi due aspetti fondamentali: la tempesta e il sereno. Il sereno irrompe dopo la tempesta per cui i vari personaggi possono ritornare a riprendere i loro lavori abituali, ma ciò dura poco, conclude il poeta, perché subito dopo arriverà un’altra tempesta che porterà, di nuovo, dolore e sconvolgimenti negli uomini e così sarà per sempre.
Contesto sociale, culturale e filosofico della poesia.
La descrizione della prima strofa ritrae la vita di tutti i giorni a Recanati. Il contesto culturale della poesia è quello della letteratura italiana, mentre il contesto filosofico è la stessa filosofia del Leopardi, secondo il quale la natura, né persegue, né si preoccupa del bene degli individui, mirando unicamente alla conservazione delle specie. Questa tesi è esplicitata dallo Zibaldone, 11 aprile 1829: “la natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui di ogni genere e specie, che ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose non dà una grande idea dell’intelletto di chi o fu autore di tale ordine” (citazione tratta da Leopardi – Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pag. 948 (pagina originale dello Zibaldone 4485 – 4486).
Analisi della forma.
Il genere della poesia.
La poesia sintetizza sia il genere lirico, perché esprime i sentimenti del poeta, sia il genere formale, in quanto il linguaggio è molto ricercato e selezionato; ma è anche una poesia sociale perché svolge un pensiero filosofico che il poeta sviluppa e mostra ai lettori.
La metrica della poesia.
La poesia è una canzone libera composta da tre strofe con rime libere.
Il tono emotivo.
Il Leopardi, anche in questa poesia, vorrebbe mostrarsi distaccato sia dal paesaggio ambientale che da quello sociale; infatti dapprima descrive in modo impersonale ciò che succede nella valle e poi rivolge le sue domande filosofiche; nella seconda strofa risponde con la freddezza della ragione e del suo pensiero, insistendo sulla fragilità e illusorietà del piacere, scomparso per la potenza distruttrice della natura. Nella terza strofa il Leopardi scatena i suoi sentimenti sarcastici ed ironici, per finire, in ultimo, con una partecipazione emotiva molto forte quando indica la più drammatica e drastica soluzione finale: /beata/ se te d’ogni dolor morte risana/.
Il lessico della poesia.
Il lessico della poesia è altamente letterario perché usa arcaismi e latinismi.
La sintassi della poesia.
La sintassi della poesia è composta soprattutto da molti periodi paratattici e da pochi ipotattici. La lexis della poesia è straordinaria, bella, incantevole, originale ed affascinante.
Le figure retoriche della poesia.
Le figure retoriche della poesia sono: l’inversione, la metafora, l’anafora, interrogative retoriche e apostrofe e la poesia è fitta di allitterazioni.
Il linguaggio poetico e le più belle espressioni poetiche.
La poesia è fitta di parole ed espressione poetiche quali: “Ecco il sereno/ rompe là da ponente, alla montagna; /sgombrassi la campagna, / e chiaro nella valle il fiume appare. /…/ Piacer figlio d’affanno;/ gioia vana, ch’è frutto/ del passato timore, onde si scosse/ e paventò la morte/ chi la vita abborria/…. O natura cortese, sono questi i doni tuoi/ questi i diletti sono/ che tu spargi ai mortali/.
La bellezza della poesia.
La bellezza della poesia deriva dal tono evocativo, lamentoso, ma insieme di protesta e di sfida del Leopardi contro la morte e contro la natura che egli considera ostile agli uomini. Il tono accorato e malinconico rivolto verso l’indefinito è evidentemente rivolto a Dio, perché è Lui il creatore della natura. La natura è solo il simbolo di DIO; essa, in quanto cosa creata, non ha nessuna volontà propria e quindi non può intervenire né a favore né a sfavore degli uomini; essa esegue solo le leggi naturali che Dio le ha imposto. Dunque Dio rimane per Leopardi l’unico antagonista; sia la natura che la morte non sono altro che mere apparenze della volontà di Dio. Io penso che DIO, nel suo regno, abbia già spiegato al Leopardi il motivo per cui ancora non sia intervenuto a salvare l’umanità dalla distruzione finale: siamo noi viventi che ancora oggi non conosciamo questo giorno. Comunque a noi viventi rimane la speranza che prima o poi il Buon Dio potrà programmare il suo arrivo sulla terra e questo avverrà prima che noi riusciremo a contare le stelle ad una ad una.
Modica 24/08/2018 Prof. Biagio Carrubba
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