Guido Gozzano. La vita e le opere.

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Guido Gozzano.
La vita.

Guido Gozzano nacque a Torino il 19 dicembre del 1883 da genitori nativi di Agliè Canavese, dove la famiglia Gozzano possedeva una villa con ampio frutteto. Nel 1896 Gozzano si iscrive al liceo Cavour di Torino. Nel 1903 frequenta l’ultimo anno di liceo al collegio Nazionale di Savigliano, dove conduce vita dissipata. Nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Legge ma ai corsi dei giuristi preferisce quelli storico- letterari di Arturo Graf, e in particolare le lezioni “libere” del sabato pomeriggio (le sabatine) frequentate da un vasto pubblico mondano. Conosce molti scrittori, tra cui Massimo Bontempelli, e poeti, tra cui Carlo Vallini, e altri. Si afferma come dandy e comincia a frequentare i camerini delle attrici. Il 1906 è un anno operoso, in cui nascono i più riusciti fra i componimenti destinati a “La via del rifugio”, raccolta poetica che viene pubblicata nei primi giorni di aprile del 1907. Sempre in aprile gli viene diagnostica una lesione polmonare all’apice del polmone destro. Nella primavera dello stesso anno inizia una relazione epistolare con la giovane, ma già nota, poetessa Amalia Guglielminetti, di cui diviene ben presto l’amante (il poeta l’aveva conosciuta l’anno prima alla società di Cultura). Nel 1907 si ritira a Genova presso S. Francesco d’Albaro, albergo di S. Giuliano, dove scriverà la bellissima poesia “Nell’Abazia di S. Giuliano”, che esprime il momento di maggior crisi spirituale del poeta. Nel 1908, nei mesi di marzo ed aprile, a Torino, vive il momento più intenso della relazione con la Guglielminetti che termina in quei giorni, trasformandosi poi in una viva amicizia intellettuale. Quindi, individuata ancora una volta nel “distacco” la “risoluzione più leale”, ripara ad Agliè, dove compone il “Quaderno di appunti per “i Colloqui”“. Nel 1909 conosce un periodo di eccezionale vena creativa componendo la maggior parte delle poesie che formeranno la seconda raccolta poetica “I Colloqui”. Nel 1910 completa il corpus poetico destinato alla raccolta “maggiore”. Nel 1911, alla fine di febbraio, con qualche mese di ritardo rispetto alle sue attese, “I colloqui” vengono pubblicati a Milano (editi da Treves), suscitando una vasta, ma non unanime, messe di recensioni. Il 16 febbraio del 1912, per motivi di salute, inizia un viaggio in India, con il suo amico Giacomo Garrone, che si concluderà alla fine dell’anno. Nel 1914 lavora alle “Farfalle. Epistole entomologiche” che in parte vengono pubblicate. In novembre comincia uno scambio epistolare con le sorelle Silvia ed Alina Zanardini di Trieste, organizzatrici a Torino di applauditissime serate di musica e di poesia, alle quali, per la serata inaugurale del 18 novembre, spedisce la poesia “Prologo”. Nel 1915 per le Zanardini (ma è Silvia, ora, l’interlocutrice esclusiva) scrive in febbraio il poemetto “Carolina di Savoia”. Nel marzo scrive il componimento poetico “Ah difettivi sillogismi”. Nel 1916 si impegna alla sceneggiatura del film sulla vita di San Francesco. Il 29 maggio, in procinto di partire per la riviera, trasmette a Silvia Zanardini il testo dell’ultima poesia, il poemetto drammatico “La culla vuota”. Il 16 luglio è ricoverato all’ospedale di Genova in seguito ad una violenta emottisi. Muore il 9 Agosto, mercoledì, al crepuscolo. Solo i famigliari, e i pochissimi amici non trattenuti al fronte, vanno a dargli l’estremo saluto, due giorni dopo, nel cimitero di Agliè.
Contemporanea alla produzione poetica, Gozzano produsse anche una vasta produzione in prosa: scrisse moltissime fiabe, molte recensioni e le lettere dall’India con il titolo “Verso la cuna del mondo” uscite postume nel 1917, con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese. Nel 1917 la madre di Gozzano pubblicò una raccolta di fiabe dal titolo “La principessa si sposa” in appendice alla quale apparvero alcune poesie dedicate ai bambini con il titolo “Le dolci rime”, tra cui la dolcissima e leggiadra “La Notte Santa”, che descrive la nascita di Gesù bambino.

Le opere poetiche di Gozzano.

La prima raccolta poetica di Gozzano è stata “La via del rifugio” pubblicata nel 1907. Essa è composta da 25 poesie, nelle quali il poeta esprime già la sua Weltanschauung pressoché già solida e ben definita, la quale sarà completata e riaffermata nella sua seconda raccolta poetica “I colloqui” del 1911. Le due raccolte poetiche si completano a vicenda, poiché esse contengono il processo della sua evoluzione culturale, poetica, filosofica e l’itinerario della sua parabola esistenziale ed umana. Ma tra la prima e la seconda raccolta poetica il poeta vive un anno particolarmente intenso e decisivo: è il 1907, quando vive tre esperienze fondamentali per il prosieguo della sua vita umana e filosofica; 1) si intensifica la passione d’amore per Amalia Guglielminetti; 2) gli viene diagnostica la tubercolosi; 3) legge le opere di Maurice Maeterlinck il quale avrà molta influenza nelle opere successive ed in particolare modo nella composizione de “Le farfalle. Epistole entomologiche”. Nel 1907 si rifugia a Genova e poi in Piemonte in un andare e venire che avrà fine, solo con la morte. In quello stesso anno pubblica “La via del rifugio” che ha un grande successo tanto che, nello stesso anno viene ristampata. Il titolo “La via del rifugio” è spiegato da Gozzano nella seconda bellissima poesia “L’analfabeta”, dedicata a Bartolomeo Tarella, l’ottantenne custode e fattore della villa del Meleto, un personaggio reale, che parlandogli del nonno del poeta chiedeva a Gozzano di restare. Ma il poeta gli spiegava perché non poteva fermarsi: “Dolce restare! E forza è che prosegua/ pel mondo nella sua torbida cura/ quei che ritorna a questa casa pura/ soltanto per concedersi una tregua;/ per lungi, lungi riposare gli occhi/ (di che riposi parlano le stelle!)/ da tutte quelle sciocche donne belle,/ da tutti quelli cari amici sciocchi” (vv. 33 – 40). E così il poeta conclude la poesia: “Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame/ sulla panca di quercia, ove m’indugio;/ altro sentiero tenta al suo rifugio/ il bimbo illuso dalle stampe in rame” (vv. 176 – 180). “La via del rifugio” contiene molto belle poesie, tra cui, in particolare, “I sonetti del ritorno”, “Ignorabimus”, “La medicina” e “Nemesi”; ma anche le altre poesie sono belle, come la prima “La via del rifugio” dove si trovano scritti i seguenti bei versi: “A che destino ignoto/ si soffre? Va dispersa/ la lacrima che versa / l’umanità nel vuoto?” (vv. 136 – 140). Anche la poesia “Il responso” ha dei versi crudi sulla triste condizione del poeta: “Ah! Se potessi amare! Vi giuro, non ho amato/ ancora: il mio passato è di menzogne amare” (vv. 31 – 32). Anche alcuni versi della poesia “L’inganno” sono molto belli: “Madre terra, sei tu che trasfiguri/ la vigilia dei giorni foschi e crudi? / O madre terra buona, tu che illudi/ fino all’ultimo giorno i morituri! / Essi non piangono la sentenza amara. / Domani si morrà. Che importa? Oggi / sorride il colco tra le stoppie invalide…/ Tutto muore con gioia (Impara Impara)/ e forse ancora s’apre contro i poggi/ l’ultimo fiore e l’ultima crisalide” (vv. 5 – 14). E bei versi vi sono anche in “Nemesi” quando scrive: “E mi fan pena tutti/ contenti e non contenti,/ tutti pur che viventi/ in carnevale e in lutti” (vv. 89 – 92). Nell’ultima poesia “L’ultima rinunzia”, Gozzano da un giudizio negativo sull’essere poeta; infatti tutta la poesia è rivolta a dare un’immagine del poeta come persona che vive fuori dalla realtà, come un sognatore, insensibile alle disgrazie altrui, e preso solo dal suo mondo illusorio e sognante e così conclude: “ma lasciatemi sognare/ ma lasciatemi sognare!/ Ma lasciatemi sognare” (vv. 91 – 93). La Weltanschauung che emerge da questa prima raccolta poetica è quella di un giovane poeta lontano dalla poetica del d’Annunzio, ancora ben influenzato dalla filosofia di Nietzsche, ma che già aveva assorbito le teorie dell’evoluzionismo. La bellezza della lexis dell’intera raccolta poetica “La via del rifugio” deriva da un linguaggio nuovo e lieve, rispetto a quello gravoso, amplio e retorico di d’Annunzio. Gozzano inventa un suo linguaggio poetico e una sua lexis personali, originali, nuovi e piacevoli che assomigliano a quelli di Sergio Corazzini; si può dire quindi che i due poeti abbiano dato inizio alla nuova poesia italiana del XX secolo.

II

La seconda raccolta poetica di Guido Gozzano è “I Colloqui” pubblicata nel 1911. Essa è composta da 24 poesie divise in tre parti così come il poeta spiega nella famosa lettera del 22 ottobre 1910 inviata al Direttore del giornale “Il Momento”; così scrive Gozzano: “”I Colloqui”. La raccolta adunerà il men peggio delle mie liriche edite e inedite e sarà come una sintesi della peggio della mia prima giovinezza, un pallido riflesso del mio dramma interiore. Le poesie – benché indipendenti – saranno unite da un sottile filo ciclico e divise in tre parti: I – il giovanile errore: episodi di vagabondaggio sentimentale; II – Alle soglie: adombrante qualche colloquio con la morte; III – Il reduce: “ reduce dall’Amore e dalla Morte, gli hanno mentito le due cose belle..” e rifletterà l’animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo” e poco dopo scrive: “Le poesie che sto adunando non sono opera, ma della mia vita, della mia adolescenza e della mia giovinezza; io ho fatto – come ho saputo – i versi; ora che li sto adunando posso forse notare nel loro insieme una tendenza che mi compensa delle mie fatiche e mi consola: l’ascensione dalla tristezza sensuale e malsana all’idealismo più sereno”.
Io, Biagio Carrubba, credo che una giusta interpretazione de “I colloqui” l’abbia data Marziano Guglielminetti nella introduzione del libro “Guido Gozzano. Tutte le poesie” (Ed. Mondadori 1980). Guglielminetti, a pagina XXIV, dice che: “I colloqui non sono più un’antologia, come La via del rifugio. Vogliono essere un poema, tanto da poter nascere, taluni di essi, congiunti, in sequenze unitarie solo in seguito distinte”. E Guglielminetti così spiega: “Dove per “tristezza sensuale e malsana” intende quella cagionata dal positivismo; per “idealismo più sereno” la reazione che contro il positivismo si era da qualche tempo scatenata un po’ dovunque, in nome di un “bisogno di fede”, che, per la circostanza, Gozzano fa proprio, e fors’anche accentua” (pagina XXIV – XXV). Guglielminetti così prosegue: “Che, invece, dietro il disegno dei Colloqui ci sia l’ambizione, più o meno segreta, di riportare a vita l’autoritratto di sé promosso dalle Rime di Petrarca, dai Canti di Leopardi, è tesi quasi indiscutibile; tanto che è cura di Gozzano condurre i nomi di questi poeti alla memoria del lettore” (pagina XXVI). E a pagina XXVII Guglielminetti così scrive: “Avendogli Gozzano assegnato la voce e la vita dell’amante presto disilluso e progressivamente inariditosi nel suo impulso erotico, Petrarca e Leopardi, che di questa tradizione sono gli esponenti più prestigiosi, diventano necessari punti di riferimento” e poco oltre scrive: “Quel po’ delle proprie vicende, che Gozzano lascia trasparire, deriva quasi tutto dall’esperienza sentimentale avuta e patita con la Guglielminetti; e per ciò stesso la possibilità d’iscriverla integralmente sotto le rubriche di quella raccontata da Petrarca di sé medesimo e di Laura diventa, obiettivamente, elemento di confronto e d’interpretazione” (pagina XXVII). E parlando della terza parte dei “I Colloqui” Guglielminetti così scrive: “L’autoritratto del poeta, perseguito nella terza sezione dei “Colloqui” attenua simili proteste. Intitolata “Il reduce”, la sezione raffigura lo stato d’animo, di chi, giunto “alle soglie” della vita è ritornato indietro e continua a vivere. Delle tre è la più compatta e omogenea; tanto che si potrebbe definirla una sezione a tesi, a tale punto calza col progetto di fare dei Colloqui un poema esistenziale” (pagina XXXV). E così Marziano Guglielminetti conclude la sua introduzione: “Ma I Colloqui erano tuttora additati ai lettori di questo giornale, perché, in fin dei conti, Gozzano “era stato il primo poeta italiano che sedendosi a tavolino non imboccasse gli oricalchi dei furori eroici e dimenticasse la storia”. Il necrologio non è firmato, ma c’è chi lo attribuisce ad Antonio Gramsci. Un poeta che abbia saputo soddisfare contemporaneamente e per ragioni opposte un Serra e un Gramsci si presenta subito con le carte in regola per essere considerato tra i pochi rappresentativi del Novecento italiano” (pagina XLVI). Giudizio che anch’io, Biagio Carrubba, condivido appieno. Le poesie de “I Colloqui” sono tutte belle, tranne poche meno riuscite. La terza sezione è la più compatta e forse le poesie avrebbero dovuto avere una disposizione diversa da quella che gli ha dato Gozzano. Secondo me la prima poesia “Totò Merùmeni” dovrebbe essere invece l’ultima poesia, sia perché scritta per ultima, sia perché è l’ultima immagine che il poeta voleva lasciarci cioè quella di uomo e poeta maturo e non l’immagine lasciataci nei “I colloqui 2”, cioè quella di un giovane poeta ancora tutto da maturare e ancora da differenziarsi dagli altri letterati e poeti. Questa poesia dovrebbe essere preceduta dalla poesia “Un’altra risorta” e, a sua volta, questa dovrebbe essere preceduta da “Una risorta”, perché queste ultime due poesie esprimono tutto il tormento e il calore affettivo che il poeta avvertita per Amalia Guglielminetti; tutte queste poesie, a loro volta, dovrebbero essere precedute da “Pioggia d’agosto”, nella quale il poeta ci lascia l’ultima immagine di sé come uomo sconsolato e sfiduciato dalle grandi ideologie e dagli ideali: “La Patria? Dio? L’Umanità? Parole/ che i retori t’han reso nauseose” (vv. 23 – 24). La Weltanschauung che emerge dalla raccolta poetica è quella di un giovane poeta disilluso dagli ideali degli uomini, come scrive nella poesia “Pioggia d’agosto”, e disilluso dalla Vita, come scrive in “Totò Merùmeni”; un giovane poeta che crede nello “spirito” ma dubita di Dio, e come fa dire ad Amalia, nella poesia “Una risorta”: (la sua vita:) “E’ come un sonno blando, un ben senza tripudio; / leggo, lavoro, studio/ ozio filosofando../ La mia vita è soave/ oggi, senza perché; levata s’è da me/ non so qual cosa grave…./ “Il Desiderio! Amico,/il desiderio ucciso/ vi dà questo sorriso/ calmo di saggio antico…/ Ah! Voi beato! Io/ nel mio sogno errabondo/ soffro di tutto il mondo/ vasto che non è mio!/ Ancor sogno un’aurora/ che gli occhi miei non videro; desidero, desidero/ terribilmente ancora..!” (vv. 25 – 44). La Weltanschauung del poeta è dunque quella di un giovane poeta che vive mestamente, sconfortato dall’amore e dalla morte come scrive nella poesia “In casa del sopravissuto”: “Reduce dall’Amore e dalla Morte/ gli hanno mentito le due cose belle!/ Gli hanno mentito le due cose belle: amore non lo volle in sua coorte,/ Morte l’illuse fino alle sue porte,/ ma ne respinse l’anima ribelle” (vv. 13 – 18).
La bellezza della lexis della seconda raccolta poetica “I colloqui” è data dal linguaggio robusto e intenso, molte volte chiaro ed elegante. Il tono emotivo è quasi sempre sobrio e diffuso, senza sbalzi e senza interruzioni. E’ un linguaggio ricco di figure retoriche e forbito, letterario ed aulico, ma che esprime sempre i sentimenti veri del poeta, senza falsa retorica, senza falsa letteratura e senza artificio.

La poetica di Guido Gozzano.

Pochi anni dopo le opere poetiche di Sergio Corazzini, un altro grande poeta italiano, Guido Gozzano pubblicava a Torino due libri di poesie, che rientravano nel clima dell’antidannunzianesimo e più in generale in quello definito da Antonio Borgese del crepuscolarismo; oggi, a distanza di un secolo dal primo decennio del XX secolo, io, Biagio Carrubba, penso che si possa, con tranquillità, affermare che le opere di Gozzano siano al di sopra delle tematiche del crepuscolarismo e rientrino in quelle più universali dello spirito umano. Gozzano fu un poeta solitario, un’anima sofferente, sia per la sua malattia fisica, sia perché anelava a vivere in altro modo rispetto a quello in cui in effetti viveva. Questo dissidio interiore caratterizzò non solo la sua esistenza civile, sociale ed etica, ma anche la sua poetica, la sua cultura e anche la sua Weltanschauung. Le somiglianza tra Gozzano e Corazzini si limitano soltanto al fatto che ambedue i poeti morirono di tubercolosi; per il resto i due poeti erano diversi. La stessa malattia fu diversa: in Corazzini intensa e rapida, in Gozzano lenta e graduale. La loro cultura di base era diversa, eccetto la conoscenza dei poeti francesi; Gozzano aveva una cultura filosofica più vasta e ampia rispetto a quella di Corazzini, che era più ristretta. Gozzano si era formato sui libri di Schopenhauer e di Nietzsche e conosceva molto bene i classici italiani e latini a differenza di Corazzini che, penso, data la brevità della sua vita e quindi dei suoi studi non aveva avuto il tempo per approfondire i classici italiani e latini. Questa differenza di cultura spiega il perché Corazzini nelle sue opere poetiche si fermò ad esprimere solo e soprattutto il suo dolore, mentre Gozzano riuscì ad esprimere non solo il suo dissidio interiore, ma anche l’aspirazione al piacere della vita quotidiana. Anzi dalla consapevolezza tra l’arida e la squallida vita che conduceva, minata dalla malattia, e l’aspirazione al godimento amoroso, nasce in Gozzano il leitmotiv della sua poetica. Ora io credo che, la chiave di lettura per capire sia la prima che la seconda raccolta poetica di Gozzano sia questa: Gozzano vive una vita per lui desolata e triste e per questo aspira, ed anela, costantemente a una vita più felice e tranquilla. Questa discrepanza tra la vita vissuta e la vita desiderata è esplicitata chiaramente nella bellissima poesia “Pioggia d’agosto” della seconda raccolta poetica quando afferma: “Soffro la pena di colui che sa/ la sua tristezza vana e senza mete” (vv. 7 – 8). E successivamente afferma: “Essa (la Natura) conforta di speranze buone / la giovinezza mia squallida e sola” (vv. 37 – 38). Ma Gozzano vive questa discrepanza in molte sfere della sua personalità: nel campo affettivo vive praticamente da solo, ma sogna l’amore di attrici e principesse come afferma nella bella poesia “Totò Merùmeni” quando dice: “La Vita si ritolse le sue promesse./ Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse/ ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne./ Quando la casa dorme, la giovinetta scalza/ fresca come una prugna al gelo mattutino,/ giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza/ su lui che la possiede, beato e resupino…” (vv. 37 – 44). In campo religioso vive continuamente turbato dalla fede in Dio come si evince dalla bellissima poesia “Nell’Abazia di San Giuliano” in cui anela a credere in Dio, per finire, in ultimo, dopo la lettura delle opere di Maurice Maeterlinck, in un piatto spiritualismo panteistico. Nel campo filosofico Gozzano parte dalla lettura delle opere filosofiche di Schopenhauer e di Nietzsche per finire in un aperto naturalismo, anche se oscilla sempre tra questi due poli come testimoniano le due ultime poesie de “I Colloqui 2” e “Pioggia d’Agosto” dove confessa la sua fede nella Natura come afferma: “Ah! La Natura non è sorda e muta;/ se interrogo il lichene ed il macigno/ essa parla del suo buon fine benigno…/ Nata da sé medesima, assoluta, unica verità non convenuta,/ dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno” (vv. 31 – 36). Nell’ultima poesia “I colloqui 2” riconferma l’immagine di sé dedito alla filosofia, quando afferma: “il fanciullo sarò tenero e antico/ che sospirava al raggio delle stelle/ che meditava Arturo e Federico” (vv. 33 – 35). Nel campo sociale e civile Gozzano vive da cenobita e aspira a diventare un piccolo commerciante come dice nella famosa sestina del lungo poemetto “La Signorina Felicita ovvero la Felicità” quando scrive: “Oh! Questa vita sterile, di sogno!/ Meglio la vita ruvida concreta/ del buon mercante inteso alla moneta, / meglio andare sferzati dal bisogno, / ma vivere di vita! Io mi vergogno, / sì, mi vergogno di essere poeta!” (vv. 302 – 307). Gozzano vive tristemente il presente e rimpiange il passato come scrive nella poesia “Torino”: “L’ora ch’io dissi del Risorgimento, / l’ora in cui penso a Massimo d’Azeglio/ adolescente, a I miei ricordi, e sento/ d’essere nato troppo tardi…Meglio/ vivere al tempo sacro del risveglio,/ che al tempo nostro mite e sonnolento!” (vv. 37 – 42). Un altro forte dissidio che Gozzano vive è questo: da un lato lui vive di idealismo e di letteratura mentre dall’altro lato aspira a vivere la vita concreta di tutti i giorni come dice nella poesia “Torino” nei versi finali: “Eviva i bogianen.. Sì, dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello!/ Buona è la vita senza foga, bello / goder di cose piccole e serene…/ A l’è question d’nen piessla. Dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello” (vv. 73 – 78). E un altro dissidio che il poeta vive, tra la vita idealistica a cui aspira ed anela, e la vita pratica e piena di piaceri, è ben descritto nella bellissima poesia “Un’altra risorta” quando da Amalia Guglielminetti si fa dire nella bellissima terza sestina: “Che bel Novembre! È come una menzogna/ primaverile! E lei, compagno inerte/ se ne va solo per le vie deserte/ col trasognato viso di chi sogna../ Fare bisogna. Vivere bisogna/ la bella vita dalle mille offerte” (vv. 13 – 18). Dunque tutta la poetica di Gozzano è attraversata da questa discrepanza culturale e da questo dissidio interiore, di cui il poeta era ben cosciente, tra la vita effettiva, “il malato ambulante”, e la ricerca costante della vita sana, bella e ideale. Anche nel campo politico Gozzano vive una doppia vita: da un lato ha perso la fede nei valori politici del suo tempo e dall’altro lato rimpiange i valori alti del Risorgimento italiano; così scrive nella bella poesia “Pioggia d’agosto”: “Guarda gli amici. Ognuno già ripose/ la varia fede nelle varie scuole./ Tu non credi e sogghigni. Or quali cose/ darai per meta all’anima che duole?/ La Patria, Dio? L’umanità? Parole/ che i retori t’han fatto nauseose” (vv. 19 – 24). Ma una volta individuata la sorgente della sua poesia, ristretta alla sua doppia anima di esteta e di verista, di ateo e di deista, di apolitico e di idealista, di amante e di singolo, di letterato e di anelante commerciante, di onesto e piccolo borghese, ma anche di raffinato aristocratico che vuole vivere di amore platonico, ma anche di amante gaudente (maschio sollazzarsi) che vuole regredire al mondo dell’infanzia, (come nella bellissima poesia “Cocotte”) e di uomo che va alla ricerca della propria felicità; orbene io, Biagio Carrubba, penso sia doveroso e necessario indicare anche i motivi della grandezza e della bellezza della poesia del Gozzano, perché non c’è dubbio che le due raccolte poetiche, “La via del rifugio” e “I Colloqui”, sono autentici capolavori poetici, ad eccezione di qualche poesia meno riuscita. Io credo che il primo vero motivo di bellezza e grandezza sia l’insegnamento della poetica di Gozzano e la risposta che il poeta ha saputo dare al tema della morte. Questa risposta ha attraversato sia la prima che la seconda raccolta poetica, ma si trova anche in alcune poesie sparse e nella famosa lettera che Gozzano spedì al direttore del giornale “Il Momento” quando scrisse: “e rifletterà l’animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo”. Orbene Gozzano ha indicato più volte che non solo alla vita bisogna rassegnarsi sorridendo, ma soprattutto bisogna alla morte rassegnarsi sorridendo. E questo atteggiamento, quasi da stoico (questo sorriso/ di calmo antico), è ben espresso già nella raccolta “La via del rifugio”, quando nella poesia “L’Analfabeta”, l’analfabeta (Bartolomeo Tarella, custode e fattore della villa del Meleto) esclama: “Il dolore non esiste / per chi s’innalza verso l’ora triste / con la forza d’un cuore sempre giovane” (vv. 97 – 100), e quando dice: “”Buona è la morte” e dici e t’avventuri / serenamente al prossimo congedo” (vv. 155 – 156). Secondo me questi bellissimi versi esprimono, già in un poeta così giovane (allora il poeta aveva appena 24 anni), una solida maturità e una chiara Weltanschauung forte e sicura dinanzi alla paura della morte che ogni uomo prova o sente dentro la sua anima e dentro il suo corpo. Gozzano esprime molto bene il terrore della morte che assale ogni uomo quando si trova solo dinanzi ad essa al momento di lasciare questa bella vita e incamminarsi nei regni bui della morte. Gozzano descrive questo atteggiamento di pacata serenità e di aperta accettazione della morte anche nella poesia “L’inganno”, la poesia numero 11 della raccolta “La via del rifugio”, quando scrive: “O Madre Terra buona, tu che illudi/ fino all’ultimo giorno i morituri!/ Essi non piangono la sentenza amara./ Domani si morrà. Che importa? Oggi/ sorride il colco tra le stoppie invalide…/ Tutto muore con gioia (Impara! Impara!) / E forse ancora s’apre contro i poggi / l’ultimo fiore e l’ultima crisalide” (vv. 7 – 14). E nella poesia “Le due strade” il poeta scrive: “O bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;/ discendere alla Morte come per rive calme,/ discendere al Niente pel mio sentiere umano, / ma avere te per mano, o dolce sorridente!” (vv. 33 – 36). E anche nella bella poesia “Alle soglie”, Gozzano affronta il tema della morte in prima persona e, nella terza strofa, dice: “Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,/ mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo, / mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora – / che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte./ (Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo/ le danno un nome, che, credo esprima una cosa non tetra)./ E’ una Signora di nulla vestita e che non ha forma./ Protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma./ Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;/ ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome./ Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;/ né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano” (vv. 23 – 34). Bei versi dove viene ripetuto il verbo ridere che viene nuovamente espresso a Lorenzo Stecchetti, dal titolo [Stecchetti] quando dice, con aria quasi di sfida, alla morte: “Io non gemo, fratello, e non impreco: / scendo ridendo verso il fiume oscuro/ che ci affranca dal Tempo e dallo spazio” (vv. 12 – 14). Nella poesia “Il più atto”, Gozzano dice: “Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;/ di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio” (vv. 13 – 14). Versi sublimi che io condivido (perché anch’io dirò la stessa la cosa alla Vita) e che fanno del poeta Gozzano un sommo poeta, universale, lirico che può essere avvicinato ai grandi poeti come Leopardi (che lui amava tanto). E come Leopardi anche Gozzano è il poeta delle grandi domande eterne e metafisiche come quelle che pone nella stupenda 61ª strofa del poemetto “La signorina Felicita, ovvero la Felicità” degna del Leopardi: “Voi che posate già sull’altra riva,/ immuni dalla gioia, dallo strazio, / parlate, o morti, al pellegrino sazio!/ Giova guarire? Giova che si viva?/ O meglio giova l’Ospite furtiva/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 363 – 368). Ora io non sostengo che le poesie di Gozzano siano intense e sublimi come le poesie del Leopardi e penso che anche lui fosse cosciente di ciò, ma credo che Gozzano abbia saputo scrivere anche bellissime poesie che sanno esprimere tutto il suo dolore e la sua ricerca di felicità. Ma come Leopardi, che ha avuto una vita breve ed infelice, anche Gozzano ha avuto una vita breve e mesta ma, nonostante ciò, egli ha saputo reagire alla sua malattia e ha cercato di godersi “la bella vita dalle mille offerte” perché “bello (è)/ goder di cose piccole e serene”. Questi versi, sempre immortali ed attuali, riprendono il “Carpe Diem” di Orazio. Ma Gozzano, come il Leopardi, non sa dare le risposte alle domande eterne e metafisiche, poiché entrambi i poeti sono solo semplici uomini e come tali, finiti che aspirano all’infinito, a sapere e conoscere la luce della verità e se Dio c’è, aspirano a vedere la luce di Dio. Gozzano parla del riso necessario a scendere nei regni bui della morte; ora io, Biagio Carrubba, credo che bisogna chiarire il significato di questo sorriso perché ha più significati. È un sorriso ironico, sornione, sardonico, cioè è un sorriso che distacca l’uomo dal dolore per la perdita della vita e crea un sentimento di rabbia contro una forza più forte della vita; il sorriso è ironico perché in un certo senso vuol denigrare e schernire la Morte; è sornione perché vuole deridere, di nascosto e pacatamente, la morte; è sardonico perché vuole nascondere il dolore che provoca nell’uomo e allora gli crea quel buon viso a cattivo gioco che lo conduce nell’eterno dolore. Non è certo un riso di gioia, è un riso di sfida e di sfregio verso chi ha creato la Morte, la quale incombe e ghermisce senza pietà e inesorabilmente l’umanità. Già il grande Leopardi aveva descritto questo atteggiamento di fierezza e di accettazione stoica verso la morte e aveva intuito questo sorriso beffardo dell’uomo verso la morte, come scrive nella poesia “Aspasia”: “Qui neghittoso immobile, giacendo,/ il mar la terra e il cielo miro e sorrido” (vv. 111 – 112).
Ma già oggi la scienza è in grado di sconfiggere la morte in quanto già si parla di persone che vivono 120 e tra un cinquantennio probabilmente si arriverà a vivere fino a 150 anni e infine si scoprirà l’elisir della giovinezza togliendo così alla morte il suo terrificante potere di annientamento e di nullificazione. Se tutto questo accadrà, allora anche Dio, se esiste, sarà costretto a scendere da queste parti per riportare ordine alla natura e dare la giusta pace al genere umano, oggi così schiacciato dai suoi limiti fisici e mentali. Ma io, Biagio Carrubba, credo che l’unica morte che si possa affrontare sorridendo sia quella che ci porti alla salvezza dell’anima. Ma siccome nessuno è ritornato salvo dall’aldilà per testimoniare l’eternità dell’anima, e quindi poiché nessuno sa come stanno le cose veramente dopo la morte, io aspetto la comparsa di Dio, o chi per lui, che possa dirci e darci la verità sulla nostra salvezza eterna. Altrimenti è vero che polvere eravamo e polvere torneremo, o meglio ancora, niente eravamo (nemmeno polvere) e niente ritorneremo. Anch’io ho le mie fedi spente nella patria, nell’umanità e in Dio e per questo bramo Dio.

Il linguaggio poetico di Guido Gozzano.

Le caratteristiche più importanti del linguaggio poetico di Guido Gozzano sono queste: 1ª) maestria insuperabile delle rime e bravura eccelsa nella scelta e formazione delle strofe; 2ª) sapiente ricomposizione dei versi dei poeti classici e diffusi riferimenti a pensieri ed idee di poeti francesi da Sully Prudhomme (1839 – 1907) ad Alfred de Musset, da Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814) a Francis Jammes; 3ª) uso di dialoghi frequenti e di battute fra i vari personaggi interrotti dai puntini di sospensione per dare le giuste pause al tono dei dialoghi; 4°) le frasi chiare, dove predominano i periodi paratattici e buoni sintagmi creativi ed originali. E a proposito dell’ironia gozzaniana devo dare alcune mie riflessioni personali: so che molti critici hanno dato molta importanza all’aspetto ironico della poetica di Gozzano e primi fra tutti Marziano Guglielminetti e Giusi Baldissone che, nel libro “Opere di Guido Gozzano” (Utet 1983), scrive a pagina 24: “L’ironia ridistribuisce a ciascuno le sue possibilità poetiche e alleggerisce Gozzano dalle proprie. Attualizza il passato pigiando su tutti gli effetti e le possibilità, mettendone quindi in risalto tanto il grandioso quanto il ridicolo”. Ora io, Biagio Carrubba, dico invece che le poesie ironiche di Gozzano sono veramente poche e si possono contare sulle dita di una mano, mentre Gozzano fu soprattutto poeta lirico e serio, non concedendo quasi niente alla affabulazione, perché il Gozzano affabulatore fu essenzialmente scrittore di novelle e di fiabe. Ho trovato un po’ di ironia e sarcasmo nella poesia “Il commesso farmacista” e ho trovato un po’ divertente le poesie “L’esperimento”, “Le Golose” e pochi altri versi in alcune poesie sparse; non ho trovato nessuna poesia ironica, né tanto meno divertente nelle due opere maggiori, “La via del rifugio” e “I colloqui”. Sia “La via del Rifugio” che “I Colloqui” sono opere poetiche autobiografiche, dove è molto ridotta la funzione fatica e dove predomina quasi esclusivamente la funzione emotiva; insomma, le due opere servono al Gozzano per esprimere soprattutto la sua filosofia come dice Giusi Baldissone: “Espone insomma una filosofia che è quella di Gozzano”, (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 13) ma successivamente aggiunge: “Il vecchio e il poeta non possono coincidere, appartenendo il vecchio all’ordine del reale e il poeta a quello del fittizio, e avendo due soli punti in comune: la disponibilità del vecchio a trasformare il proprio reale in fittizio, innescando i sogni del poeta: e l’approdo finale a un’uguale sapienza” (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 14). Il Gozzano è soprattutto buon poeta, attento all’euritmia come dice nella poesia “Il commesso farmacista” del 1907; il poeta attacca i falsi, o prolissi, poeti come scrive nella lettera ad Amalia Guglielminetti del 13 luglio del 1909: “Ah! Il lavoro paziente e lentissimo, la rinunzia e il raccoglimento intesi a quell’unica meta, il coscienzioso labor limae che solo ci dà l’opera bella e duratura”. E subito prima, polemicamente, aveva scritto: “Una genia, questa, di maschi e di femmine, con la quale io sono implacabile. Malfattori che sbrodolano in due mesi un volume di 300 pagine e hanno la tracotanza di farsi chiamare poeti!”.
La lexis delle due raccolte è molto originale, piana e chiara, senza concedere niente alla prolissità e al barocco. Periodi larghi e folti danno alla poesia di Gozzano una grazia e una leggerezza molto soffusa all’interno delle due opere poetiche, cosicché risulta che nessuna poesia ha una luce più brillante delle altre, ma ciascuna diffonde una luce sua propria che aumenta la brillantezza e la lucentezza di tutte le altre; allo stesso modo farebbero due collane vicine dove nessuna gemma risplende più delle altre ma dove ogni gemma aumenta la luminosità delle due collane. Ma io credo che la bellezza della poesia del Gozzano stia nel gran tormento che lui prova interiormente. E’ un ripiegamento silenzioso sia per la sua malattia fisica, sia per la perdita dell’amore di Amalia Guglielminetti. È la via tormentata della ricerca della felicità, attraverso l’amore tortuoso per Amalia Guglielminetti. Questa è la vera dimensione psicologica; è il vero tormento di un poeta che si crede di essere un gelido sofista, mentre in realtà è un semplice giovane che soffre le pene di tutti gli uomini, quando si rende conto che l’amore tanto cercato gli sfugge definitivamente. È il dolore che il poeta prova quando sa che la sua vita sarà triste e breve, per cui la sua favola bella durerà poco. La bellezza delle poesie consiste, in sintesi, nel fatto che le due raccolte, complementari ed unitarie, sono ricche di pathos sentimentale, di calore umano, di passione esistenziale e di tormento amoroso; Romano Luperini dà questo giudizio sulla produzione poetica gozzaniana: “Le due raccolte più caratterizzanti della produzione gozzaniana sono “La via del rifugio” e “I colloqui”, mentre il poemetto incompiuto “Le farfalle” implica una regressione a un modello passato e inattuale…Ora non servono più neppure l’ironia e il distacco, tanto la poesia è ormai priva di abbandoni e di vitalità: la nuda letteratura, depurata di ogni calore presente, è la forma conclusiva assunta dalla critica di Gozzano alla letteratura” (da Poeti Italiani: il Novecento – Palumbo Editore – 1984 – Pagina 66).

Gozzano e l’immagine di poeta all’inizio del secolo.

Gozzano, come altri poeti a lui contemporanei, ha una lucida coscienza sul ruolo sociale del poeta all’inizio del XX secolo. Gozzano ha dinanzi a sé l’immagine del poeta vate, cioè di d’Annunzio. Il grande vegliardo, cioè il Carducci, era morto da poco, mentre il Pascoli esaltava la grande proletaria. Oltre a questi tre grandi poeti, probabilmente, Gozzano, aveva letto anche le poesie di Corazzini, che aveva scritto di essere un piccolo fanciullo che piange anziché un poeta, e quelle di Palazzeschi che si era definito prima “Saltimbanco” nel 1909, e poi nel 1910, aveva scritto, nella divertente poesia “Lasciatemi divertire”, l’amara conclusione:

Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti: e lasciatemi divertire!.

In generale in Italia i poeti avevano perso, già da tempo, l’aureola di poeta simbolo e vate e si erano ridotti a uomoni comuni che non riuscivano a dare e rivelare niente di vaticinio e di profetico. Già Baudelaire aveva scritto l’apologo del poeta e della prostituta, nel quale aveva messo in rilevo la perdita, da parte del poeta, dell’aura e dell’aureola. Ma, secondo me, questa affermazione non è vera! È assolutamente falsa; fa parte della personalità del poeta, del suo sentire ambivalente che da un lato rifiuta la sua condizione di poeta, ma dall’alto lato non sa fare altro e allora continua a scrivere sia poesie sparse, sia novelle, sia consulenze per il cinema. Io credo, invece, che Gozzano fosse fiero di essere poeta e di rimanere un freddo sognatore come dice Giusi Baldissone: “Guido Gozzano è comunque essenzialmente poeta: sciogliere versi e sintetizzare immagini risulta la sua vera ed originale attitudine” (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 30).

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Modica 14 gennaio 2019                                                                                   Prof. Biagio Carrubba

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