Due autori crepuscolari. Sergio Corazzini e Guido Gozzano.

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Due autori crepuscolari.
Sergio Corazzini
e
Guido Gozzano
analizzati e commentati
da Biagio Carrubba

Sergio Corazzini Guido Gozzano
(Roma 6 febbraio 1886 – Roma 17 Giugno 1907) (Torino 19 dicembre 1883 – Torino 9 agosto 1916)

Biografia di Biagio Carrubba.
Sono nato il 7 settembre 1953 a Modica, da Carrubba Luigi e da Ferlanti Assunta. Mio padre era un muratore, che all’età di trenta anni riusciva a lavorare per 10 ore al giorno, e ha costruite tante case nei centri marinari di Scicli. Mia madre ha fatto per tanti anni l’operaia ortofrutticola in una grande azienda agricola di Scicli. Dopo aver frequentato le scuole elementari e medie con modesto profitto, il professore Giorgio Blanco, insegnante di latino, mi ha aiutato molto a recuperare al primo anno di Liceo. Mi ha dato un metodo di studio e da allora in poi non ho avuto più problemi al liceo scientifico di Scicli. Qui ricordo con piacere e con commozione la mia professoressa di Italiano, la signorina Flora Monteforte, che mi ha sempre sostenuto e aiutato nel triennio liceale. Dopo ho studiato all’Università di Catania, laureandomi in Filosofia nel novembre del 1979. In questo periodo ho conosciuto un Filosofo anarchico di Catania con il quale ho fatto molte discussioni di politica e di filosofia. Dopo la laurea e un periodo di disoccupazione resa meno grave grazie all’aiuto della signora Giannì Carmela con la quale ho trascorso forse i migliori e più belli anni della mia vita, tra chiacchierate politiche e piccole gitarelle in Sicilia con i suoi figli. Nel 1989 mi sono sposato con una giovane donna di Ragusa e l’anno dopo è nato il mio unico figlio, Leonardo (novembre 1990). Dopo la separazione avvenuta dopo un anno di matrimonio, ho trascorso 10 anni a Ragusa in piena solitudine, studiando tanto e vedendo molta televisione. Nel 1999/2000 ho ottenuto il trasferimento all’Istituto Alberghiero di Modica dove insegno a tutto oggi: Italiano e storia. Nel 2004 mi sono risposato con l’attuale mia moglie simpaticissima Gina Rizza e abitiamo in una casa popolare di Modica. Ho sempre continuato a leggere le poesie dei grandi poeti e i romanzi dei grandi scrittori. Dal Leopardi che mi piacque già al tempo del liceo, a Gesualdo Bufalino, che mi ha affascinato con la sua Diceria dell’untore, da Quasimodo che mi ha incantato con le sue poesie fino a Primo Levi e a Pier Paolo Pasolini che sto finendo di studiare e nel corso del 2008 spero di potere pubblicare una piccolo monografia su di lui. La mia vita è stata dedicata interamente alle lettere e alla poesia. In questi giorni sto sperimentando la poesia rivoluzionata cioè la poesia multimediale di cui ho scritto anche il manifesto poetico e che sto cercando da far conoscere in tutta Italia, inviandolo a diversi centri di cultura. Il più vivo e grande desiderio della mia vita è quello di comporre poesie che siano conosciute e riportate nei libri delle antologie poetiche. Dal 2006 ho conosciuto il giovane Carmelo Santaera, il quale essendo esperto di computer, mi aiuta tanto nel realizzare e pubblicare le mie opere poetiche pubblicandole nei vari siti e permettendomi di realizzare così il sogno di tutta la mia vita. Nel corso del 2007 è uscita un’antologia di autori vari intitolata “Il suono del silenzio 2006” dove viene riportata la prima parte della mia poesia “Da quando cerco il senso della vita”. L’inserimento della mia poesia in questa raccolta mi ha reso molto felice perché in parte realizza il mio antico desiderio di vedere pubblicata una mia poesia.

Introduzione.
I poeti crepuscolari.

Crepuscolarismo è la definizione che il critico Antonio Giuseppe Borgese diede in un articolo del 1910 su “La Stampa” nel quale recensiva alcuni libri di poesie di Marino Moretti (1885 – 1975), Fausto Maria Martini (1886 – 1931) e Carlo Chiaves (1882 – 1919). Il critico individuava in questi poeti un comune denominatore: 1) l’incapacità di dare un significato all’esistenza; 2) un ripiegamento intimistico su sè stessi, accompagnato da autocompiangimento; 3) la malinconia di non aver nulla da dire e da fare. L’atmosfera di regressione presente nella poesia di questi autori richiamava la luce incerta del crepuscolo, in contrapposizione a quella abbagliante di Carducci e d’Annunzio.
I temi del crepuscolarismo.

Gli stati d’animo dei poeti crepuscolari sono la malinconia, il tedio domenicale, l’impossibilità ad amare, la malattia. I crepuscolari descrivono ambienti di una provincia indolente, giardini, orti, fanciulli malati, organetti di barberia che diffondono per le strade il loro suono nostalgico. Le immagini di una vita provinciale monotona si contrappongono alle suggestioni estetiche di d’Annunzio e gli stessi oggetti quotidiani, che il “fanciullino” pascoliano coglieva come segni poetici del mistero, per Corazzini restano povere e piccole cose senza riscatto.

La rivoluzione formale del crepuscolarismo.
Il lessico è umile, alternato a parole colte, il tono prosaico, e le rime imperfette.
La demitizzazione del ruolo del poeta crepuscolare.

I poeti crepuscolari rinunciano a stabilire un rapporto attivo con il reale e a trattare temi sociali. L’atteggiamento che essi assumono nei confronti della realtà in cui vivono oscilla tra il rifiuto, l’ironica accettazione e la protesta. Tutti dichiarano di non voler essere poeti. Sulla figura e sul ruolo di poeta Romano Luperini scrive: “I poeti del primo quindicennio del secolo rifiutano la figura del poeta vate in aperta polemica con d’Annunzio, coscienti della crisi d’identità del ruolo della poesia nella moderna civiltà industriale. L’aureola è irrimediabilmente perduta. I poeti si vergognano di scrivere: “Io non sono un poeta” dice Corazzini, “non sono che un piccolo fanciullo che piange”. “ Io mi vergogno/ sì, mi vergogno d’essere un poeta!” confessa Gozzano, “l’esteta gelido, il sofista”, che esprime il senso della propria inutilità nel volontario esilio in una stravagante e artificiosa esistenza. Anche Palazzeschi si chiede “Chi sono?” e risponde in modo provocatorio “il saltimbanco dell’anima mia”… Queste reti di metafore degradanti (fanciullo, saltimbanco, vagabondo, sonnambulo) denunciano in vario modo il rovesciamento dell’idea “alta” di poesia, ormai impossibile nella società moderna, dove il poeta ha perso la sua tradizionale funzione di mediatore ideologico: “i tempi sono cambiati,/ gli uomini non domandano più nulla/ dai poeti:/ e lasciatemi divertire!” conclude Palazzeschi” (da La scrittura e l’interpretazione – Palombo editore – Volume 2 tomo VII – pagina 60 – 61). Del poeta-vate si hanno due figure e significati; la tradizione italiana che indica nell’ottocento la funzione civile e ideologica dello scrittore romantico-risorgimentale che guida il processo storico e anticipa gli sviluppi futuri. L’altra figura è di origine nordica e indica la funzione sacerdotale e oracolare del poeta, considerato interprete privilegiato dei significati profondi della realtà e della vita. Queste due situazioni possono anche fondersi come accade all fine dell’Ottocento con Pascoli e d’Annunzio. Si noti che in Italia il poeta-vate risorgimentale come Foscolo o Leopardi, guidava un processo di lotta dall’esito incerto, viceversa i poeti-vate dell’Italia umbertina e giolittiana come Carducci e d’Annunzio sono eminentemente poeti celebrativi. Celebrano ciò che è già in atto o che è già affermato. Di qui un rischio maggiore di retorica.
Il crepuscolarismo è rappresentato a Torino dai poeti Guido Gozzano, Nino Oxilia e Giulio Gianelli, a Roma da Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini e infine in Romagna da Corrado Govoni e Marino Moretti. I crepuscolari rappresentano una tendenza prolungatasi per pochi anni, fra il 1903 e il 1911, anno di pubblicazione dei Colloqui di Gozzano. I poeti crepuscoli contrappongono alla retorica del superuomo un ripiegamento intimistico e la sfiducia nei confronti di tutti gli ideali politici, religiosi e scientifici dell’epoca. Nella poesia dei crepuscolari troviamo una inquietudine e una malinconia che non raggiungono mai il dramma, ma piuttosto esprimono stanchezza e tristezza. Per essi la poesia non ha in fondo nulla da dire; essi desiderano solo sognare, abbandonarsi a un mondo tranquillo di piccole cose e di sensazioni semplici che contrappongono all’armamentario lussuoso e sovrabbondante dei salotti e delle imprese dannunziane. Ora io, Biagio Carrubba, credo invece che Gozzano, come altri poeti a lui contemporanei, aveva una lucida coscienza sul ruolo sociale del poeta all’inizio del secolo e aveva dinanzi a sé l’immagine del poeta vate, cioè di d’Annunzio. Il grande vegliardo, cioè il Carducci, era morto da poco, mentre il Pascoli esaltava la grande proletaria. Ma Gozzano aveva letto probabilmente le poesie di Corazzini che aveva scritto di essere un piccolo fanciullo che piange, anziché un poeta, e aveva letto, presumibilmente, anche Palazzeschi che nel 1909 si era definito “saltimbanco”. Da tempo Gozzano sapeva che ormai il poeta aveva perso l’aureola di poeta simbolo e vate ed era ridotto a un uomo comune che non può dare e rivelare niente di vaticinio e di profetico. Già Baudelaire aveva scritto l’apologo del poeta e della prostituta, nel quale aveva messo in rilievo la perdita dell’aura e dell’aureola del poeta. Gozzano subisce il fascino di questo declassamento della figura del poeta e arriva al punto di scrivere: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere poeta!”. Ma, secondo me, Biagio Carrubba, questa affermazione non è vera! È assolutamente falsa; fa parte della personalità del poeta, del suo sentire ambivalente, che da un lato rifiuta la sua condizione di poeta, ma dall’alto lato non sa fare altro e allora continua a scrivere sia poesie sparse, sia novelle, sia consulenze per il cinema. Io, Biagio Carrubba, credo invece, che Gozzano fosse fiero di essere poeta e di rimanere un freddo sognatore come dice Giusi Baldissone: “Guido Gozzano è comunque essenzialmente poeta: sciogliere versi e sintetizzare immagini risulta la sua vera ed originale attitudine” (Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 30).
Lo stesso Gozzano confessa in un lettera alla Guglielminetti del 20 giugno 1908, la fierezza di sentirsi poeta: “Le cose abbozzate, i versi limati a gran fatica mi sembrano tentativi spregevoli e vorrei dare tutto alle fiamme e guarire per sempre dalla Tabe letteraria. Ma poi che so che non guarirò mai, mi rassegno, riprendo le mie povere carte e proseguo il mio lavoro inutile rassegnatamente”.

Scritta tra mercoledì 28 febbraio e giovedì 1 marzo 2001.

Letta, riveduta e corretta il 13 giugno 2008.

Indice.

Biografia di Biagio Carrubba. Pag. 2

Introduzione: I poeti crepuscolari Pag. 3

Vita e opere di Sergio Corazzini Pag. 7

La poetica di Sergio Corazzini Pag. 8

Toblack di Sergio Corazzini Pag. 9

Parafrasi della poesia Toblack Pag. 11

Il tema della poesia Toblack Pag. 13

Analisi della forma della poesia Toblack Pag. 16

Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini Pag. 18

Testo della poesia Desolazione del povero poeta sentimentale Pag. 19

La morte di Tantalo di Sergio Corazzini Pag. 28

Vita e opere di Guido Gozzano Pag. 34

La poetica di Guido Gozzano Pag. 39

Il linguaggio poetico di Guido Gozzano Pag. 44

La signorina Felicita ovvero la felicità di Guido Gozzano Pag. 47

La tesi del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità Pag. 63

Un’altra risorta di Guido Gozzano Pag. 68

Parafrasi della poesia Un’altra Risorta Pag. 70

Sergio Corazzini.
Vita di Sergio Corazzini.

Sergio Corazzini fu veramente una meteora, cioè un astro che sprigionò moltissima luce e che abbagliò i suoi contemporanei e risplendette nel cielo tanto intensamente quanto brevemente. Il suo corpo, purtroppo malato di tisi, si spense prematuramente il 17 giugno del 1907 a Roma.
Sergio Corazzini nacque a Roma il 06 Febbraio 1886 in via Lucina 17 da Enrico Corazzini, romano, e da Caterina Calamani, cremonese. Enrico Corazzini aveva una tabaccheria sulla via del Corso e godeva di una buona agiatezza che gli permise di mantenere in collegio i figli maggiori, Sergio e Gualtiero. Nel 1895 Sergio si recò in Umbria, a Spoleto, dove frequentò il collegio nazionale Umberto I. In questi anni si manifestò la malattia polmonare che lo affliggerà per tutta la breve vita e che ne causerà la morte.
Nel 1898 rientrò a Roma. Nel 1902 Corazzini cominciò a frequentare il caffè Sartoris vicino alla tabaccheria dove ritrovò i suoi amici poeti tra cui Alberto Tarchiani, Corrado Covoni, Tito Marone ed altri. I testimoni di allora descrivono Sergio Corazzini in pose forzate da poète maudit, da dandy dall’aria viziosa ricercato nel vestire. Il 17 maggio del 1902 pubblicò la sua prima lirica in dialetto romanesco.
Nel 1905 le condizioni di salute di Corazzini andarono lentamente, ma inesorabilmente, peggiorando. Tra il 1905 e il 1907 pubblicò tutte le sue opere poetiche.
Nell’autunno 1906 fu ricoverato nell’ospedale di Nettuno e all’inizio del 1907 rientrò a Roma con il suo stato di salute sempre più grave. Negli ultimi mesi compose le ultime due poesie “Il sentiero” e “La morte di Tantalo”, che fu pubblicata postuma.

Le opere poetiche di Sergio Corazzini.

Nel 1904 Corazzini pubblicò la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Dolcezze”;
nel 1905 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie dal titolo “L’amaro calice”;
nel 1905 Corazzini pubblicò la terza raccolta di poesie dal titolo “Le aureole”;
nel 1906 pubblicò la quarta raccolta di poesie dal titolo “Piccolo libro inutile”;
nel 1906 Corazzini pubblicò la quinta raccolta di poesie dal titolo “Libro per la sera della domenica”.
Sergio Corazzini aveva già pubblicato diverse poesie sparse in alcune riviste romane e napoletane che costituiscono parziali anticipazioni o rifacimenti delle poesie poi raccolte in volume. Le prime poesie sono in dialetto romanesco.
La formazione culturale e poetica di Sergio Corazzini è formata, prevalentemente, sui alcuni poeti francesi simbolisti come Francis Jammes (1868 – 1938) e Georges Rodenbach (1855 – 1898), oltre ai grandi poeti italiani: Pascoli, d’Annunzio e Govoni.

La poetica di Sergio Corazzini.

Insieme a Guido Gozzano e a Marino Moretti, Sergio Corazzini è il padre fondatore della nuova poetica, definita da Giuseppe Antonio Borgese “Crepuscolarismo”, intendendo definire i nuovi temi di questi giovani poeti che si affacciavano all’alba del nuovo secolo, apportando una nuova linfa alla poesia tradizionale, dominata da Carducci, Pascoli e da d’Annunzio. Le poesie di Corazzini si soffermano su ambienti oscuri, come chiese, ospedali, luoghi solitari e su personaggi malati destinati precocemente alla morte. Come scrive Maurizio Dardano nel volume “I testi, le forme, la storia” a pagina 492 i temi di questi poeti sono: “il senso di estenuazione spirituale (etisia), rifiuto del ruolo impegnativo del poeta, il distacco dai problemi politici e sociali del tempo”.
E poco dopo a pagina 493 Dardano scrive: “Pur nella fugacità del tirocinio poetico, Corazzini è per certi aspetti il più rappresentativo dei poeti crepuscolari.
In lui confluiscono tutti i temi della nuova poetica: 1) la sconsolata stanchezza del vivere, 2) il rifiuto del ruolo del poeta, 3) l’infantile rifugio nelle piccole cose quotidiane e domestiche, 4) le patetiche note degli organetti. Ma è soprattutto caratteristico di Corazzini il senso di morte incombente e ineluttabile, spesso vissuto con vagheggiamento della propria umana fragilità”.

Introduzione alla poesia “Toblack”.

Toblack (il nome tedesco della cittadina Dobbiamo, in Alto Adige, in cui esisteva un centro per malati di tisi) è la settima poesia della seconda raccolta poetica di Corazzini “L’amaro Calice” pubblicata nel dicembre 1904, ma con data 1905. Questo libro di poesie contiene 12 poesie, alcune delle quali molto belle, come “Invito” e “Rime del cuore morto”, ma è proprio la poesia “Toblack” ad esprime in modo intenso e poetico il profondo dolore del poeta e di tutta l’umanità dinanzi alla morte.

Testo della poesia.
I
….E giovinezze erranti per le vie
piene di un sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.

II

Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole degli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,
gli ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue terribili campane
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange; Morte che cammina.

III

Ospedal tetro, buona penitenza
per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,

anche se dal tuo cielo piova, senza
tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché verrà la bara,
quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.

A uno a uno Morte li prepara,
e tutti vanno verso il tetro abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce via!

IV

Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quieto; nelle bare
stanno i giovini morti senza sole,
arde in corona la pietà dei ceri.

Anima, vano è questo lacrimare,
vani i sospiri, vane la parole,
su quanto ancora in te viveva ieri.

Parafrasi della poesia.

(A Toblack vi sono) giovani che vagano per le strade
illuminate da un grande sole declinante,
(vi sono) portoni chiusi e davanzali deserti,
(vi è) qualche piccola fontana
che versa acqua in modo sempre uguale
al passare di ogni funerale,
(c’è) un cimitero immenso,
(c’è) una grande quantità di croci e di corone,
(c’è) un lento funereo battito di campana
a morto, sempre, tutti i giorni e tutte le notti,
e in alto c’è un cielo azzurro,
pieno di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come lo sguardo
di una madre che tranquillizza e benedice.

Le speranze (di guarigione) perdute,
le preghiere inutili, i sogni infranti,
le ultime parole degli amanti delusi,
le impossibili chimere,

e tutte le primavere passate,
gli ideali destinati a morire,
i grandi pianti degli sconosciuti,
le anime sognanti, che hanno desideri,
ma che non riescono a soddisfarli,
Muoiono.

E quanto, Toblack, d’irraggiungibile
e di perduto c’è in te,
è in questa tua divina terra,
è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue funeree campane a morto,
è nelle tue monotone fontane,
è nella Vita che se ne va,
è nella Morte che si avvicina.

III

Ospedale triste, dove la Morte
rende i malati riflessivi e
consci della Morte stessa
nella quotidiana esperienza e
dove i malati vivono una rassegnata penitenza
e diventano misericordiosi degli altri,

anche se dal tuo cielo piove continuamente,
i tuoi pallidi malati, dietro i vetri lacrimosi,
conservano un grande desiderio di guarire.

Ogni giorno è sempre così, fino al momento,
quando la bara viene portata, silenziosamente,
con il crocefisso e se li porta via nell’ultima corsia.

Già il pensiero della Morte li prepara ad uno ad uno
e tutti vanno rasseganti verso il buio abisso
attraverso la tua dolce via, o Speranza!

O anima mia, quale mano pietosa
ha acceso questa sera i Fanali artificiali,
lungo le corsie degli ospedali,
dove la Morte toglie la vita senza interruzione?

Vidi lungo la strada della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata esequie degli Ideali
che avrebbero voluto raggiungere
la vetta della gloria!

Ora, che è sera, tutto è quieto;
i giovani stanno dentro le bare, senza sole,
e la pietà dei ceri si consuma
attorno alle bare in corona.

Anima, il tuo lacrimare è inutile,
i sospiri sono inutili, anche le parole
ripetute appena ieri su te stessa, sono vane.

Il tema della poesia.

Il tema della poesia “Toblack” è la descrizione inesorabile ed oggettiva della vita che si conduceva a Toblack dominata, agli occhi del giovanissimo e ammalato poeta, dal cadenzare dei suoni funerei della campana a morto e dallo zampillare della fontana che riversa continuamente l’acqua con un rumore onomatopeico sempre uguale e monotono. Toblack diventa una città prossima a Dio, dove muoiono le speranze dei malati, le preghiere vane, gli ideali dei giovani, ed è la città dove la vita diventa irraggiungibile e dove tutto è perduto, dove le campane suonano continuamente a morto e la vita si allontana, mentre la morte si avvicina inesorabilmente sempre di più.
Toblack è la città dell’ospedale per tisici, i quali piangono dietro i vetri ed aspettano con animo rassegnato la Morte che li prepara ad uno ad uno per affrontarla ed accettarla e si incamminano verso di essa, pensando alla dolce speranza della guarigione.
O anima mia, quale mano pietosa ha acceso le lampade dell’ospedale, dove la Morte miete la vita dei giovani ammalati, senza mai fermarsi?
Toblack è la città dove io vidi tanti funerali e la morte degli ideali che volevano raggiungere la vetta della vita.
Ora dentro l’ospedale tutto è calmo: i giovani morti stanno dentro le bare, circondate dal calore dei ceri che ardono. O anima mia, conclude il poeta, allora tutto è inutile, il lacrimare è vano, i sospiri sono vani e anche le parole dette sono vane (e forse la vita stessa è vana).
Ma accanto a questa fenomenologia della vita di Toblack, così perfettamente e dolorosamente descritta da Corazzini, il tema dominante della poesia risulta essere quello della Morte, così dolorosa ed inspiegabile. La morte miete senza posa la vita degli uomini, malati e sani, ma nessuno vuole morire perché nessuno conosce il motivo della morte e nessuno sa dove essa conduce. E proprio l’inspiegabilità della morte rende l’ultimo viaggio così inaccettabile e triste tanto che tutti la rifiutano, dato che essa rende vana ogni cosa, perfino la vita stessa, e la terra diventa un luogo astratto, anticamera luminosa della morte. Io, Biagio Carrubba, noto che Corazzini in questa poesia non fa alcun accenno a Dio, il quale potrebbe spiegare ogni cosa, ma lo farà qualche anno dopo quando scriverà la bellissima poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale” nella quale dice: “Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù./ E i sacerdoti del silenzio sono i romori,/ poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio” (vv. 30 – 32).

Sintesi della poesia: inizio, sviluppo e conclusione.

Toblack è una poesia composta da quattro strofe, disposte una dopo l’altra e congiunte dal progressivo numero romano che le lega insieme in uno sviluppo organico di immagini e di pensieri, di forma metrica e di tono emotivo.
La prima strofa si apre con la descrizione di Toblack vista nelle sue stradine, dove i giovani malati vagano senza meta e quasi senza senso, guardando le vie, piene di sole malinconico; anche il resto della città è desolante: i portoni sono chiusi e i davanzali deserti; si sente il rumore sempre uguale dello zampillo nella fontana e tutto il giorno e tutte le notte si ode il suono funereo della campana a morto, mentre in alto si vede un cielo azzurro, che per il suo colore limpido e per la sua vastità invita ad avere la speranza e la consolazione; un cielo aperto, come se aprisse le porte al buon Dio, che accoglie amorevolmente tutti, e dunque un cielo buono come lo sguardo della madre che tranquillizza e rincuora i figli che si dipartono da casa, così come i malati sono in procinto di staccarsi dalla terra.
La seconda strofa entra dentro l’anima umana e ne elenca tutte le speranze che a Toblack diventano perse, le preghiere che diventano vane, i sogni che diventano irrealizzabili, le parole inutili degli amanti, il tempo passato che diventa morto, i giovani che hanno voglia di realizzare i loro desideri senza però riuscirci.
Toblack diventa allora la città dove la vita diventa irraggiungibile e perduta, scandita
dal terribile suono della campana e dal monotono rumore della fontana; la città dove la Vita si allontana sempre di più e dove la Morte si avvicina sempre inesorabilmente.
La terza strofa riprende la vita che si svolge dentro l’ospedale: i malati guardano il cielo che manda l’acqua della pioggia così come loro versano lacrime sui vetri, ma è anche il luogo dove ognuno diventa cosciente della morte, dove si fanno anche misericordiosi del dolore altrui e fino all’ultimo momento sperano di guarire. Ma la Morte li rasserena e li prepara ad essa e così tutti se ne vanno verso il profondo buio, attraversando la via della speranza in un mondo migliore e pieno di Vita.
Nella quarta strofa il poeta si rivolge alla propria anima e si chiede quale mano pietosa ha acceso le lampade della corsia dell’ospedale, dove la morte agisce imparzialmente tra tutti i malati, così come la falce recide e pareggia le erbe del campo. Il poeta ha visto tanti funerali, che sono anche processioni nelle quali muoiono gli Ideali che aspiravano a raggiungere le più belle fortune della vita. Purtroppo al calare della sera i nuovi giovani morti sono riposti dentro le bare, circondate dal calore dei ceri che bruciano tutt’intorno. Ma gli ultimi versi della poesia sono riservati a sé stesso, alla propria vita, per la quale tutto è vano: piangere è vano, sospirare è vano, parlare è vano.

Il messaggio della poesia.

Il messaggio della poesia è, certamente, un messaggio di dolore e di tristezza, dovuti alla morte incombente ed ineluttabile. Secondo Maurizio Dardano: “Il motivo personale è qui soltanto lo spunto per la visione di una più generale condizione di dolore e di precarietà….Il riferimento geografico è volutamente approssimativo e le descrizioni degli ambienti rimangono piuttosto ambigue; il paesaggio allude genericamente a un luogo astratto di desolazione e cupa malinconia, appena temperato da tenui e fallaci speranze” (da I Testi, le forme, la storia – Palombo editore – Pagina 496).
Ora secondo me, Biagio Carrubba, è innegabile che il messaggio della poesia è di pura desolazione, ma è anche vero che sono diversi i luoghi dove il poeta apre il cuore alla speranza e alla vita. Credo, dunque, che non bisogna sottovalutare questi passi positivi e di augurio, come questi: “un cielo aperto, buono come un occhio/ di madre che rincuora e benedice” (vv. 13 – 14) o come questi versi: “lungo, Speranza! la tua dolce via!” (v. 42), benché il finale sia proprio pieno di disperazione, tanto da assomigliare al Leopardi, se non addirittura superarlo in una visione triste e sconsolata della vita.

La tesi della poesia.

La tesi della poesia è chiara: la morte incombe sulla vita degli uomini. I malati, a maggior ragione, soffrono ancor di più la presenza della Morte perché la vivono giorno dopo giorno dentro la loro anima e dentro il loro corpo. I malati vivono in ambienti, squallidi, freddi, tristi, privi di quel calore umano che costituisce l’essenza della vita sana e dove si perde continuamente ogni speranza di vita. Ogni malato, però, conserva fino alla fine la speranza di guarire e di ritornare a godere della vita, ma questa speranza è solo un’utopia, è solo una chimera, perché la Morte ghermisce i malati inesorabilmente ed imparzialmente. Dunque la malattia rende tutto vano, perfino la vita.

Il contesto sociale, culturale, filosofico e letterario della poesia.

Il contesto sociale della poesia è quello dell’Italia giolittiana del 1900-1904. È dunque quello di una Italia in pieno sviluppo economico, sociale e politico, ma anche ricca di contrasti sociali. Ma dalla poesia tutto questo non si evince, perché la poesia è ripiegata essenzialmente sul dolore del poeta che già sente e prevede la sua morte. Questo forte sentimento pessimistico e doloroso spinge il poeta a seguire e ad ascoltare il suo dramma interiore dovuto alla sua malattia e a dare più spazio al suo eterno dolore, che è poi uguale a quello di qualsiasi uomo dinanzi alla morte. E’ un dolore cupo, profondo, triste, disperato, tragico, dal quale non se ne esce se non attraverso la speranza verso qualcosa di salvifico. I riferimenti letterari dell’intera opera sono molti: dai poeti greci Mimnermo ad Anacreonte, da Catullo a Petronio, dal Leopardi al Pascoli, dai poeti francesi a d’Annunzio; ma Sergio Corazzini riesce a ricompattare tutti i frammenti di questi autori in una nuova versione unitaria, compatta dando una nuova visione al motivo del dolore eterno, tanto che la sua poesia, e Toblack in particolare, risulta una bella lirica, piena di suggestioni formali e stilistiche, tanto è grande il pathos e la disperazione che il giovane poeta Corazzini ha saputo infondere nelle sue poesie e riesce a trasmetterci ancora oggi.

Analisi della Forma.

Il genere della poesia.
Il genere della poesia è il genere lirico, perché la poesia esprime i sentimenti più profondi ed autentici del poeta.

La metrica della poesia.
La poesia è composta da quattro strofe, di cui la prima ha forma continuativa con rime libere, mentre le altre hanno forma regolare con rima: A,B,B,A nelle quartine e C, D, E, C, D, E, con qualche irregolarità, nelle terzine.

Le figure retoriche della poesia.
Le figure retoriche della poesia sono molte: lo stile nominale, l’accumulazione, l’enumerazione, l’inversione, l’anafora, l’enjambement, l’iperbato e il climax.

Il tono emotivo della poesia.
Il tono emotivo della poesia ne riflette il contenuto drammatico. Essa è pervasa da un tono malinconico e triste.

La lexis della poesia.
Il ricco uso di molte figure retoriche e l’irregolarità della rima della poesia creano una raffinata e suggestiva lexis, originale e personale che rendono la lirica bella e poetica. La lexis ha poi il privilegio di essere composta con sintagmi davvero creativi ed inconsueti come la prima enumerazione della prima strofa e la seconda accumulazione nominale della seconda strofa. Questi sintagmi imprevisti rendono assai bene la psicologia del poeta e il suo stato d’animo conferendo alla poesia lo struggente tono drammatico e il profondo dolore del poeta.

Il linguaggio poetico della poesia.
Le figure retoriche, i sintagmi creativi, le parole rare, lo stile nominale creano un linguaggio poetico molto bello e personale. Si può dire che il linguaggio poetico di Corazzini apra la strada alla poesia moderna di questo secolo, dopo la grande messe di stile aulico e magniloquente di d’Annunzio. Il linguaggio poetico di Corazzini in questa poesia è piano e chiaro, raffinato e ricercato e crea un’atmosfera poetica nuova e leggera, benché intrisa di un contenuto drammatico e tragico.

La Weltanschauung del poeta.
La Weltanschuung è quella di un giovane poeta ben consapevole della sua breve e tragica vita. La descrizione della città desolata e malinconica, come il suo “sole malinconico” è la diretta percezione della sua realtà interiore, triste e desolata. La poesia esprime la visione di vita del poeta in modo diretto e chiaro senza sotterfugi ed illusioni; egli accetta il triste destino, quasi con impassibile distacco, e riesce ad essere quasi indifferente verso la precarietà della sua esistenza. Nelle lettere di quell’anno ai suoi amici il poeta parla del pensiero della morte e certamente non è indifferente ad essa, ma egli nella poesia sa distaccarsi dal suo dolore personale e sa parlare del dolore eterno in modo universale e trasversale agli uomini. Un dolore tanto più cupo, tragico ed irrazionale perché colpisce un giovane poeta al fiorire della sua vita, come scrive Maurizio Dardano: “Il miglior Corazzini si ha tuttavia quando la voluttà dell’autocommiserazione e il dato strettamente autobiografico diventano consapevolezza di un più generale disagio del vivere e intuizione dell’inadeguatezza a interpretarlo delle poetiche tradizionali” (da I Testi, le forme, la storia – Palombo editore – Pagina 493).

Aspetti estetici della poesia.
Gli aspetti estetici della poesia sono vari. Il primo aspetto è dato dal suo linguaggio poetico e lirico, uniformemente distribuito in tutta la poesia. Il secondo aspetto estetico della poesia è dato dal vario uso di molte figure retoriche e dalla indiscutibile bravura a saper usare gli aggettivi in modo creativo e diverso nei vari sintagmi come nell’ultima terzina, quando riesce a usare l’aggettivo vano in tre modi diversi: “Anima, vano è questo lacrimare,/ vani i sospiri, vane le parole/ su quanto ancora in te viveva ieri” (vv 54 – 56). Il terzo aspetto estetico della poesia è dato dal tono sommesso e malinconico dello stato d’animo del poeta. Il quarto aspetto è dato dalla lexis, cioè dallo stile poetico della poesia costruita di sintagmi creativi e da espressioni poetiche rare ed efficaci. Il quinto aspetto estetico della poesia è dato dalla capacità del poeta di sapersi distaccare dal suo acuto dolore e dalla sua capacità di saperlo trasformare in un dolore universale, uguale in tutti gli uomini che si trovano davanti alla morte. Un ultimo aspetto di bellezza è data dalla capacità del poeta di saper descrivere l’aria della città di Toblack, un’aria declinante e malinconica vista e descritta in un pomeriggio crepuscolare che precede la notte, come la vita moribonda dei malati precede la morte.

Commento e valutazioni personali sulla poesia.
Io, Biagio Carrubba, trovo questa poesia molto bella per vari motivi: primo perché mi desta molteplici sensazioni positive e piacevoli; secondo perché mi emoziona; terzo perché trovo che ha un bel linguaggio poetico e lirico, quarto perché la trovo talmente bella che mi fa dimenticare il fatto che parli di sentimenti tristi e dolorosi. Un’ultima riflessione che mi fa nascere la poesia è: capisco che la Natura (o Dio) non è con tutti buona e generosa, ma può essere cattiva e perfida come lo è con tutti coloro che soffrono per motivi di salute o fisici, come gli handicappati e i malati, per i quali la vita può essere (o è) un lungo tormento, per cui risulta vero ciò che affermava il Latino Decimo Laberio, quando diceva: “La vita è breve per i felici e lunga per gli infelici”.
Analisi del contenuto della poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”.

Introduzione alla poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”.

Questa poesia è la prima della quarta raccolta poetica di Sergio Corazzini pubblicata nel luglio del 1906 dal titolo “Piccolo libro inutile” contenente anche dieci liriche di Alberto Tarchiani.
L’ottava e ultima poesia è “Dopo” che conferma e consolida la svolta culturale, spirituale e definitiva della poetica di Corazzini. La prima raccolta poetica del 1904, “Dolcezze”, è costituita da varie poesie, diverse per temi e per forma. La seconda raccolta, “L’amaro Calice”, del 1905 è, secondo me, Biagio Carrubba, la raccolta poetica più riuscita e più bella dell’intera produzione di Corazzini, sia perché contiene molte belle liriche come “Invito”, “Rime del cuore morto”, “Toblack” ed altre, sia perché esprime ancora uno spirito personale non del tutto tragico, ma anzi ne esprime uno positivo, concreto e realistico. La terza raccolta poetica, “Le aureole” del luglio 1905, rappresenta uno spartiacque tra la prima e l’ultima produzione poetica che inizia con la quarta raccolta poetica “Piccolo libro inutile” dove domina uno spirito tragico, religioso, pessimistico e quasi mistico. Il componimento poetico “Elegia” è una composizione poetica a parte e la quinta raccolta poetica “Libro per la sera della domenica” contiene soprattutto motivi crepuscolari. Le ultime due poesie di Corazzini sono la lirica “Il sentiero” e la bellissima “La morte di Tantalo”, dominata da uno spirito simbolista e favolista e da un linguaggio simbolico.
Ecco come Idolina Landolfi traccia il percorso culturale, poetico e spirituale di Sergio Corazzini nel bel volume “Poesie di Sergio Corazzini” (Biblioteca Universale Rizzoli 1999): “Nei pochi anni della sua “brevissima, tragica carriera, la poesia di Sergio Corazzini subisce un’evoluzione tanto rapida quanto vistosa” (pagina 13); “Col progressivo ripiegarsi sulla propria anima triste, avviene che il poeta cominci a dubitare del significato della poesia: così essa perde gradatamente ogni riferimento al concreto, imboccando quella strada dell’astrazione che porterà a “Piccolo libro inutile”“ (pagina 18); “Ecco dunque la svolta decisiva della breve opera corazziniana, essa sta nel passaggio da una situazione di fiducia nella poesia a quella, al contrario, di completa sfiducia nei propri mezzi espressivi…” (pagina 23); “la poesia, negazione di se stessa, è sempre più simile al silenzio, nella riduzione estrema dei suoi elementi formali, in un contesto esclusivamente metaforico, allusivo” (pagina 26).

Testo della poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”.

I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tramare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

Parafrasi della poesia.
I
Perché tu mi dici che io sono un poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Io non ho che le lacrime da offrire al Silenzio (DIO).
Perché tu mi dici che io sono un poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
così semplici, che se io dovessi dirle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco (di vivere);
solamente perché i grandi angeli
sulle pareti delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;
solamente perché io sono ormai
rassegnato come uno specchio malinconico,
come chi tutto vede e riflette
senza partecipazione e appropriazione.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh (anima), non meravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi (nulla);
io non saprei dirti che parole così vane
che mi verrebbe di piangere come chi sta per morire.
(Anima non guardarmi); vedresti
le mie lacrime scendere
lungo le guance, a una a una,
simili ai singoli grani di un rosario triste
davanti alla mia anima
sette volte sofferente;
vederesti che io non sono un poeta
e sono semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
al quale capita di pregare,
così come si canta e come si dorme.

V
Io vivo di silenzio, quotidianamente, come vivo di Gesù.
E conosco i dolori della vita,
senza i quali io non avrei cercato e trovato Dio,
e che sono la strada naturale e necessaria che porta a Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
mi sembrò di essere dimenticato da tutti gli uomini,
mi sembrò di essere una povera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
e desiderai di essere picchiato,
e desiderai di essere costretto a digiunare,
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo buio.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Io vidi molte passioni morire, a poco a poco,
per ogni ideale che si perdeva!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII
Oh, io sono veramente malato!
E muoio un poco ogni giorno.
Vedi che io non sono un poeta:
io so che per essere detto poeta
è necessario vivere una vita ben diversa!
Io non so fare altro, mio Dio, che morire.
Amen.

Il tema della poesia.

Il tema centrale della poesia è la ricerca e il ritrovamento di Dio, benché ciò si evince a metà della lirica e in pochi versi. Dio è, per Corazzini, la soluzione salvifica ai suoi dolori e alla sua vita. Dio è la soluzione a tutti i suoi pensieri di morte, perché ciò che più conta per Corazzini è proprio il sentire di aver trovato Dio. Il poeta, riprendendo temi poetici dei poeti simbolisti a lui più cari e noti, e alcuni spunti del suo amico
Corrado Govoni, descrive i suoi sentimenti in maniera diretta ed immediata, lasciandosi trasportare da suggestioni oniriche e da sentimenti inconsci, cadendo anche in un vittimismo un po’ di maniera, ma efficace nel riscrivere il suo dramma esistenziale sia come giovane sia come poeta.
All’alba del XX secolo, quando in Europa si diffondevano le prime conoscenze della psicoanalisi di Sigmund Freud, Sergio Corazzini aveva imboccato nuove vie per la poesia italiana, scrivendo su temi e immagini interiori ed inconsce, e sceglieva il verso libero liberandosi sia dalla poesia dominante della tradizione aulica che dalla poesia ufficiale e dominante di Gabriele d’Annunzio.
Dunque Corazzini esprime tutto il suo dolore a Dio, e per il poeta ciò che più conta è essere fanciullo più che poeta perché Dio salverà i piccoli e dolci fanciulli più che i grandi poeti che vivono ben altra vita.
Dio giudicherà gli uomini e non le loro professioni. Questo motivo di fondo, autobiografico, esistenziale, metafisico e quasi mistico della poesia si eleva come soluzione di un terribile problema di cui il poeta elenca i termini lungo lo sviluppo della poesia, intrecciandoli e riprendendoli dall’inizio fino alla fine e dove ribadisce l’incipit e cioè che lui non è un poeta, ma un piccolo fanciullo che piange. Il poeta risponde al suo alter ego cioè alla sua anima e al suo io ideale, pieno di speranze e di illusioni.
Il suo io reale e concreto risponde che le sue tristezze sono tristezze comuni e le sue gioie molti semplici. Ma ciò che più lo tormenta è il pensiero della morte che lui vede rappresentata dalle immagini degli angeli disegnati sulle pareti delle cattedrali; figure che lo fanno tremare d’amore e d’angoscia e che lo mettono in comunicazione con Dio. Rivolgendosi alla sua anima, il Poeta le dice che non deve meravigliarsi della sua tristezza, delle sue parole e delle sue lacrime, che gli danno l’aria affranta e piena di desolazione di un povero poeta sentimentale, perché lui è solamente un dolce e pensieroso fanciullo a cui capita di pregare così come canta e dorme. A questo punto si ha la confessione più sincera del poeta: lui ha trovato Dio, perché ha capito che tramite i dolori della sua malattia, lo ha dapprima cercato e poi trovato. (Si presuppone, quindi, che il poeta abbia attraversato un periodo di dubbi e di incredulità su Dio e che ora lo abbia superato ritrovando la fede).
Il poeta a questo punto regredisce ad uno stadio anteriore con immagini simboliche e con pensieri onirici tratti dai sogni. Cade in un vittimismo puerile.
Il poeta prosegue ora con un colpo di ala e, dando al suo pensiero un movimento di zig zag, creativo e liberatorio, esce fuori da sé stesso e include nel suo eterno dolore anche le cose. Esse muoiono a poco a poco così come le passioni, (e questa consapevolezza della transitorietà della vita e del dolore lo rende più leggero e più razionale).
Ma il poeta sa che la sua anima non lo capisce e gli sorride quasi per consolarlo dalla sua malattia. E qui Corazzini passa al finale della poesia per confermare alla sua anima che lui è veramente malato e che muore un poco ogni giorno come le cose. Dunque lui non è un grande poeta, un grande vate, che non muore mai, ma lui è semplicemente un piccolo fanciullo che sa soltanto di morire. Amen.

Sintesi della poesia: inizio, sviluppo e conclusione.

Questa bella poesia di Corazzini inizia con un tema ripreso dai poeti simbolisti francesi e cioè il sentirsi poeta; ma Corazzini aggiunge a questa tema anche la poetica del “fanciullino” di Pascoli, riscrivendo la sua poesia con un spirito tutto nuovo e immettendo in essa un afflato religioso e quasi mistico, trasformando la poesia in una preghiera salmodiante, lenta e molto triste.
La prima strofa inizia con la domanda retorica alla sua anima: “Perché tu (anima) mi chiami poeta?, Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”.
Nella seconda strofa il poeta esprime la tristezza del suo stato d’animo e ricorda che le sue gioie furono semplici, e ciò che più conta è la sua volontà di morire.
Nella terza strofa il poeta spiega perché vuole morire: è stanco di soffrire, ha visto i grandi angeli sulle pareti delle cattedrali che lo fanno tremare d’amore e d’angoscia e ormai si sente rassegnato e inerte come un povero specchio malinconico.
Nella quarta strofa il poeta descrive alla sua anima la fenomenologia del suo dolore: se lo sentisse non avrebbe che parole vane, se lo guardasse avrebbe soltanto lacrime che scenderebbero nelle sue guance ad una ad una pieno di dolore, come si sgrana un rosario pieno di tristezza.
Nella quinta strofa il poeta dice che lui ha comunicato Dio tramite il dolore e i sacerdoti del silenzio.
Nella sesta strofa il poeta cade vittima del suo dolore e si rifugia in una descrizione desolata della sua vita attuale: ha sognato di essere un piccolo e dolce fanciullo, dimenticato dagli uomini, preda del primo venuto, e ha desiderato di essere venduto, di essere battuto per rifugiarsi in un angolo oscuro e sentirsi disperatamente triste e piangere tutto solo.
Nella settima strofa il poeta si guarda attorno e vede le vita semplice delle cose, ma egli sa che le cose muoiono a poco a poco, sa che le passioni appassicono come le foglie di un fiore e cadono a terra ad una ad una.
Nell’ottava strofa il poeta trae la conclusione della poesia dicendo che come le cose muoiono giorno dopo giorno, così muore lui, e per questo non può essere definito poeta, perché i grandi poeti vivono ben altra vita (immortale ed inimitabile come d’Annunzio) e quindi non muoiono mai, e lui, invece, non sa fare altro che morire. Amen.

Il messaggio della poesia.

Io, Biagio Carrubba, credo, che Corazzini non perda la fiducia nella poesia fino alla sua morte; dopo la malattia, ciò che cambia nel poeta è il diverso rapporto con la vita: egli si sente un dolce e pensoso fanciullo che prega, confortato dall’aver cercato, e trovato, Dio.

La tesi della poesia.

La tesi della poesia è quella fenomenologica, cioè la descrizione diretta del dolore del poeta che si sente morire e vede la sua anima triste e desolata.
Egli può offrire a Dio solo le sue lacrime; le sue tristezze sono comuni; ha solo voglia di morire; è stanco di soffrire ed è rassegnato come un povero specchio melanconico. Le sue lacrime sono come grani di un rosario triste davanti alla sua anima sette volte dolente. Durante la notte sogna di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti e desidera di essere picchiato e di poter piangere tutto solo in un angolo buio.
Ama la vita semplice delle cose, ma sa esse moriranno giorno dopo giorno, come lui sta morendo lentamente. Corazzini è davvero malato e ciò non gli consente di sentirsi poeta, perché per essere definito poeta ci vuole ben altra vita e invece lui sa solo morire. Amen.

Contesto sociale, culturale, filosofico e letterario della poesia.

La raccolta poetica “Piccolo libro inutile” fu pubblicata nel 1906 in un Italia giolittiana piena di contrasti sociali, ma avviata ad un forte sviluppo economico e sociale.
Il clima culturale dell’Italia di quel periodo è dominato dalla triade, così Marino Moretti chiamava la triade Carducci – Pascoli – d’Annunzio.
Ma Corazzini attinge molto ai poeti francesi: Jammes, Samain, Guérin, Maeterlink, Rodennbach, Laforgue, poeti che, importati dal d’Annunzio medesimo, spopoleranno tra i crepuscolari.

Analisi della forma.

Il genere della poesia.
Il genere della poesia è il genere lirico, perché il poeta esprime i suoi sentimenti in modo diretto ed immediato, mediati però dalla compostezza e raffinatezza della forma poetica e linguistica.

La metrica della poesia.
La poesia è composta da otto strofe di varia lunghezza per un totale di 55 versi liberi.

Le figure retoriche della poesia.
Le figure retoriche hanno una grande importanza in questa poesia, perché proprio dalla domanda retorica iniziale della poesia dipende la comprensione della poesia stessa perché il poeta sa già che lui è un vero poeta e il confronto con d’Annunzio è solo un pretesto per dare l’incipit alla poesia. E la bellezza della poesia conferma il genio poetico di Corazzini. Le altre figure retoriche sono: la personificazione del Silenzio, l’anafora, la similitudine, la metafora, come nella V strofa: “Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù./ E i sacerdoti del silenzio sono i romori,/ poi che senza di essi io non avrei cerato e trovato il Dio.”

Il tono emotivo della poesia.
Il tono emotivo della poesia è un tono mesto e triste, dovuto alla consapevolezza del poeta del suo tragico destino e alla sua morte prematura, come già lui aveva scritto in una lettera del 21 agosto 1905 ad Antonello Caprino. Ora io credo che questo tono melanconico sia dovuto sia a questi motivi esistenziali sia a motivi inconsci. Il poeta subisce una regressione a livello infantile e sogna uno stato di assoluta sincerità e debolezza sia fisica che psichica.

La lexis della poesia.
La lexis della poesia è molto bella, perché è fatta da un periodare breve e semplice, ma nuovo, personale e creativo. La lexis della poesia esprime anche la semplicità della sua anima, triste e sconsolata, ma esprime anche la complessità della sua personalità espressa da un periodare fatto a zigzag, cioè un modo di pensare tortuoso, ma divergente. Di fatti tutta la poesia procede con colpi d’ala inaspettati ed improvvisi che danno alla poesia una lexis chiara e forte, ma sostenuta da una rapida e precisa analisi della sua forma per lanciare il messaggio della propria condizione esistenziale di desolazione di un povero poeta sentimentale.

Il linguaggio poetico della poesia.
Il linguaggio poetico della poesia è fatto da parole della vita comune, quasi familiare e colloquiale e da una sintassi molto semplice costruita da brevi principali e qualche subordinata.
Io, Biagio Carrubba, credo che la bellezza della poesia derivi proprio da questi accostamenti imprevisti e divergenti che danno alla poesia un linguaggio alto, raffinato, aulico e suggestivo e che fanno provare nell’anima del lettore una miriade di sensazioni pure, soavi e tristi. Questo dolce e suggestivo linguaggio poetico, fatto da una triste e monotona cadenza e dal ritmo salmodiante, evoca nell’animo del lettore uno struggente dolore e uno stato emotivo malinconico, pieno di sottili sfumature emotive che sanno far vibrare l’anima in modo intenso e meraviglioso. Ma ciò che più conta nella poesia è la raffinata eleganza della costruzione diretta delle frasi che danno alla poesia l’aria di una chiesa che presenta, all’esterno, una semplice e scarna facciata, ma, all’interno, una ricca e complessa composizione floreale e monili d’oro.

Aspetti estetici della poesia.
La poesia, pur insistendo sul tema monotematico della morte, (il poeta vi ritorna ben sei volte apertamente), sprigiona una bellezza poetica davvero eccezionale e feerica. La bellezza della poesia nasce dal contrasto tra la sua vita fatta di umili e semplici emozioni e la vita di altri poeti fatta da grandi e gloriosi sentimenti. Ma io credo che ciò sia solo il pretesto per dare l’incipit alla poesia, mentre la poesia esprime soprattutto la forza e la volontà di non farsi vincere dalla morte in modo così netto e facile e allora il poeta ricorre al pensiero più universale che possa esistere nell’umanità intera: il pensiero salvifico di DIO. Questo pensiero salvifico di Dio è ben espresso tramite immagini originali e rare come: “solamente perché i grandi angioli/ su le cattedrali/ mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;/ solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio,/ come un povero specchio melanconico…. Oppure questa bella altra immagine “Questa notte ho dormito con le mani in croce./Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo/ dimenticato da tutti gli umani,/ povera tenera preda del primo venuto;/ e desiderai di essere venduto,/ di essere battuto, di essere costretto a digiunare/ per potermi mettere a piangere tutto solo/ disperatamente triste,/ in un angolo oscuro.”
Queste belle ed originali immagini unite a poche, ma creative figure retoriche, conferiscono alla poesia una grande bellezza, fatta di suggestioni linguistiche e di emozioni profonde, tanto da far vibrare di dolce malinconia l’anima dei lettori.
L’ultima strofa è veramente bella: incomincia con una frase esclamativa dal tono dimesso e sconsolato tra lo sbigottimento e lo stupore inesorabile dettato dal suo stato emotivo e fisico a causa della malattia che lo fa morire un poco ogni giorno e finisce con la consapevolezza di non essere un vate, ma un semplice poeta, il quale non pensa che a morire; il finale della poesia, con quel “Amen”, dà alla poesia un tocco di preghiera salmodiante che la fa unica nel panorama della letteratura italiana.

Commento e mie valutazioni personali sulla poesia.
Io, Biagio Carrubba, amo molto questa poesia perché essa esprime molte mie sensazioni, emozioni e pensieri che vivono dentro di me ogni giorno: mi sento anch’io un “piccolo fanciullo che piange”; anch’io “non ho che lagrime da offrire a Dio”; anche “le mie tristezze sono povere tristezze comuni”, mentre le mie gioie sono da poco tempo semplici e forti. Io non voglio morire, come dice il poeta, ma cerco e ho trovato Dio come dice e ha fatto il poeta. Io non mi sento un piccolo fanciullo inerme ed indifeso, bensì un modesto poeta che vive cento anni dopo Sergio Corazzini all’inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio, oscuro e chiaro allo stesso tempo, mentre per Corazzini il nuovo secolo si aprì con buoni auspici ma finì ben presto nella tragedia della morte. Io trovo questa poesia molto bella sia per il suo linguaggio poetico sia per le sue belle immagini originali e creative. Penso che la poesia sia ricca di un fascino particolare dovuto al tono disperante e disperato dettato dall’animo sconsolato e desolato del poeta. Io trovo la poesia piena di magia perché mi suscita mille emozioni diverse e contrastanti: dalla consapevolezza della brevità della vita alla piacevolezza di essa, dalla leggiadria del tono sommesso e soave al distacco che bisogna saper tenere verso le cose e le passioni umane.
Dunque reputo questa poesia molto bella perché è un atto di preghiera verso quel Dio, che tutto può e vuole; reputo questa poesia molto bella perché è una preghiera che certamente ha aiutato la povera anima di Sergio Corazzini ad andare presso quel Dio che lui ha cercato e trovato.

La morte di Tantalo.

La morte di Tantalo è la lirica che ha affascinato di più i critici per il suo spiccato simbolismo, spingendoli alle più varie interpretazioni.
(Idolina Landolfi da Sergio Corazzini – Poesie – Bur Editore).

Testo della poesia

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d’amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vania
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d’oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l’acqua d’oro,
e l’alba ci trovò seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l’acqua d’oro, come la luna.

E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.

Parafrasi della poesia.

Noi arrivammo e sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro.
Sedemmo in silenzio con le lagrime agli occhi.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele si gonfiano
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d’amore
né era dolore di rimpianto
né era dolore di passione materiale.
Noi, il mio bene ed io, morivamo ogni giorno
cercando una causa divina.

Ma quel giorno già finiva
e la causa della nostra morte
non era stata trovata.

E la sera scese sulla vigna d’oro
e tanto essa era scura
che una nevicata di stelle
apparve ai nostri occhi.

Mangiammo per tutta la notte
i dolcissimi grappoli.
Bevemmo l’acqua chiara,
e l’alba ci trovò seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.

O dolce mio amore,
dì al passeggero,
che non abbiamo saputo morire,
(perché abbiamo mangiato i grappoli d’uva)
mentre da ora ci negheremo
il grappolo saporoso e l’acqua chiara.

E aggiungi di dire al passeggero
che non morremo più
e che andremo verso la vita (beata)
girando per l’eternità.

Il tema della poesia.

Il tema della poesia è quello particolare della reverie, cioè del sogno (abbandono fantastico) che preannuncia la vita eterna. La poesia percorre, in modo onirico e in modo intuitivo, il percorso che va dalla fine della vita alla morte. Corazzini descrive questo percorso sintetizzando e unendo due miti: il mito di Adamo ed Eva e il mito di Tantalo. Corazzini non nomina i due miti ma costruisce su di essi l’ultima sua poesia dandogli una caratterizzazione mitica e favolistica. Il poeta immagina di arrivare nel luogo della partenza per la morte: esso è una vigna d’oro dove c’è una fontana con l’acqua chiara e splendente. Il poeta vi arriva insieme al suo bene più prezioso: la sua donna amata che potrebbe essere sia la sua anima, sia la sua poesia.
Dunque il poeta e la sua donna amata giungono nel paradiso terrestre in una vigna color giallo dovuto all’uva bionda e gialla e all’acqua chiara della fontana. Si siedono sull’orlo della fontana e hanno gli occhi gonfi di lagrime, come due vele che si gonfiano della brezza marina. Il poeta dice che il loro dolore non è dolore né d’amore né di rimpianto, né di passione. Essi cercano di dare alla loro morte una causa divina. Ma il giorno finisce e loro non riescono a trovare il motivo della loro morte. La sera scese sulla vigna d’oro e oscurò tutto, tanto che essi videro uno scintillio di stelle. Allora mangiarono i grappoli d’uva e bevvero l’acqua chiara della fontana e il giorno seguente si trovarono seduti sull’orlo della stessa.
A questo punto il poeta riconosce lo sbaglio di aver mangiato i grappoli d’uva, il che li riporta sulla terra. Capisce che la vera strada è quella di abbandonare la vita terrena e guardare alla vita beata, per cui il poeta invita la sua amica a dire ai passeggeri che loro non hanno saputo morire poiché hanno mangiato il frutto proibito e che quindi è necessario rinunciare ai beni materiali e terreni. Il poeta capisce allora, che per vivere l’eternità, da allora in poi dovranno negarsi i grappoli d’uva e l’acqua della fontana, lucente come la luna. Il poeta dice al suo amore che comportandosi così non moriranno mai, che avranno la vita beata e che gireranno per l’eternità.
Corazzini sintetizza con questa ultima poesia il senso favolistico e fantastico della sua breve vita terrena e lo fa contrapponendosi ai miti della Bibbia e al mito di Tantalo. Mentre Adamo ed Eva non ubbidirono alla legge divina che gli imponeva di non mangiare la mela, quindi preferendo i beni terreni alla vita felice del paradiso terrestre, cosi anche Tantalo, sfidando gli Dèi, fu condannato nell’Ade a non poter né mangiare né bere benché immerso nell’acqua e con frutti che pendevano sul suo capo perché, a ogni suo tentativo, le acque si ritiravano e i frutti gli sfuggivano; così, invece non accadrà a Lui e alla sua dolce amica perché non mangiando i grappoli d’uva e non bevendo l’acqua d’oro della fontana essi hanno rinunciato ai beni terreni ma hanno ottenuto in cambio la vita eterna.
Lo stesso tema è raccontato da Omero nell’Odissea, quando i compagni di Ulisse mangiano i buoi riservati al Dio Poseidone. Ulisse sa che quei buoi non devono essere mangiati perché glielo aveva detto Tiresia nell’Ade, ma per quanto lui abbia supplicato i suoi compagni di resistere alla fame, essi disobbediscono ai suoi ordini e mangiano i buoi provocando l’ira del Dio e quindi il naufragio della nave.
Il genere della reverie è uguale alla poesia “Chiare, fresche e dolci acque” di Francesco Petrarca dove il poeta sogna di incontrare, sulla sua tomba, Laura che intercede con Dio per la propria salvezza. Inoltre si può dire che gli ultimi tre versi fanno il controcanto del girovagare in eterno di Paolo e Francesca nell’inferno, stupendamente delineati e resi immortali da Dante, mentre Corazzini prefigura il loro errare nel regno di Dio. Se tutti i contenuti culturali e poetici a cui fa riferimento Corazzini sono la materia poetica allora La Morte di Tantalo si può definire una poesia “una antipoesia” nel senso che essa, costruendo su di essi, crea una poesia che nuova e con un contenuto antitetico alle tesi delle opere precedenti. Anche il linguaggio della poesia La morte di Tantalo è un linguaggio che assume una sfumatura metafisica poiché rappresenta il messaggio visionario.

Il messaggio della poesia.

Il messaggio della poesia, scritta nel genere della reverie, è quello indicato dalla religione cristiana e cioè che per ottenere la vita beata è necessario rinunciare ai beni e ai piaceri terreni e carnali. Corazzini, nella poesia, sostiene che non si conosce mai la causa della morte e afferma che la morte non ha una causa divina, ma indica la strada della salvezza eterna dicendo che solo rinunciando ai piaceri terreni si può conquistare la vita beata e per ottenere ciò è necessario obbedire alle leggi dell’anima e non alle bramosie del corpo. Sbaglio che hanno fatto sia Adamo ed Eva che Tantalo. Corazzini, nell’imminenza della propria morte e in una visione metafisica della vita eterna, lancia il suo monito ai viventi, cioè quello di non attaccarsi ai piaceri carnali e ai beni terreni, ma di seguire la vita dell’anima. E Corazzini dice tutto questo non nominando mai né Dio né la Chiesa, ma lo dice soltanto col linguaggio poetico basato e costruito su simboli cristiani, come la vigna d’oro che è il simbolo del paradiso terrestre. Anche l’espressione “la vigna del Signore” sta ad indicare la Chiesa.
Visione. (francese visionnaire) – Nell’esperienza religiosa, il percepire visivamente realtà soprannaturali. – Nella mistica cristiana e musulmana, stadio estremo della contemplazione, in cui al praticante si manifesta l’essenza stessa di Dio. – Rivelazione delle condizioni dell’altra vita, e descrizione delle cose vedute, sia essa in sogno, sia sensibilmente. – Percezione visiva di eventi, immagini, che, pur non essendo in sé reali, traggono origine della realtà, sono attinenti ad essa e possono divenire realtà. – Allucinazione, sogno, fantasia.
Previsione. – (latino praevisus previsto da prevedere latino praevidere comp. Di prae “pre” e vedere “vedere”. Vedere in anticipo con la Mente). Effetto del prevedere.
Visionario. Chi segue le visioni della propria fantasia o interpreta in modo personale e fantastico la realtà, elaborando con la mente piani, progetti, soluzioni totalmente irrealizzabili.

Il linguaggio della poesia.

Il linguaggio della poesia è piano e lineare, chiaro e personale. Contiene poche figure retoriche: due similitudini e qualche allitterazione. Ma la forza della poesia sta nel suo linguaggio che è basato su riferimenti ai miti greci ed è costruito come un linguaggio mitico e favolistico come nel verso in cui “la vigna non è più d’oro” in cui la vigna passa da oro a qualcosa altro cioè a un luogo aspro e arido. Il linguaggio fa riferimento al mito del paradiso terrestre di Adamo ed Eva come nel verso “il frutto saporoso” che richiama il frutto proibito del paradiso terreste della Bibbia. Si può definire il linguaggio della poesia un linguaggio metafisico o metalinguaggio, così come tutta la poesia, perché tutta costruita sopra i miti della Bibbia e della cultura mitologica greca e cosicché il linguaggio della poesia diventa un linguaggio lieve, simbolico, allegorico ed evanescente.
Il tono emotivo della poesia.
Il tono emotivo della poesia è, nella prima parte, di tristezza e di dolore perché esprime il dolore del poeta e della sua amica che non sanno dove si trovano e non sanno capire il motivo della loro morte. Nella parte centrale della poesia il poeta esprime lo stato dubbioso per il suo nuovo errore ed infine esprime la gioia per aver trovato la strada che conduce alla vita eterna.

Le interpretazioni della poesia.
Idolina Landolfi, nel suo libro “Sergio Corazzini. Poesie”, afferma: “La condanna alla vita, in tale interpretazione, si configura così quale condanna all’eterna dannazione di scriver versi.(….)Fedele a quella primissima dichiarazione di identità vita – poesia (Il mio cuore, in Dolcezze), il poeta ha trovato, insomma, per sé e per i suoi versi, il modo di non morire: E aggiungi che non morremo / e che andremo per la vita/ errando per sempre. (Poesie Bur pagine 43 – 44). In sostanza Idolina Landolfi sostiene la tesi che con questa poesia Corazzini non morirà come poeta, anche se in precedenza aveva scelto il silenzio.
Sempre Idolina Landolfi riporta l’interpretazione di A. Benevento secondo il quale: “La morte di Tantalo è, quindi, non solo l’atto di commiato della poesia di Corazzini, ma anche il suo testamento poetico, nel quale egli riprende, in termini d’allegoria e di mito, il discorso sulla poesia e sulla vita svolto nella Desolazione del povero poeta sentimentale, precisando che “il piccolo fanciullo che piange” è veramente un poeta”. In altre parole anche A. Benevento afferma che Corazzini con “La morte di Tantalo” ci ha lasciato il suo testamento poetico identificando il poeta con il fanciullo.
Io, Biagio Carrubba, credo invece che il messaggio della poesia insiste più sull’aspetto metafisico che poetico. In altre parole Corazzini ha voluto sottolineare la via che conduce alla vita eterna cioè di non cadere nell’errore di attaccarci ai piaceri terreni, ma di seguire la strada che porta alla vita eterna.

La bellezza della poesia.
La bellezza della poesia nasce da diversi motivi. Il primo motivo è dovuto al genere unico della reverie: infatti “La morte di Tantalo” è una poesia visionaria, sognante; poi un altro motivo è quello della agnizione cioè del riconoscimento dell’errore fatto ancora una volta mangiando “i meravigliosi grappoli” e bevendo “l’acqua d’oro”. Cioè Corazzini ha visto nel suo visionarismo che non bisogna andare dietro i piaceri carnali ma seguire la vita divina. Il terzo motivo della bellezza della poesia deriva dal linguaggio poetico che richiama i miti della Bibbia e della mitologia greca ed, infine, un altro motivo di bellezza della poesia nasce dal procedere delle idee espresse da Corazzini nella poesia. È un procedere a zigzag cioè un procedere che, con una serie di secchi cambiamenti di direzione, dà alla poesia una creatività inaspettata e fantastica.

Il mito di Tantalo.
Dalle sue nozze con Dione, una delle figlie Iadi, nacquero moltissimi figli, fra cui Pelope, Brotea, Niobe. Per le diverse colpe e offese agli dèi, come il furto di Gamete, il furto dell’ambrosia e del nettare per distribuirlo ai suoi sudditi, quello del cane d’oro custode di un tempio di Zeus, ma specialmente per l’uccisione del figlio Pelope, imbandito come cibo per gli dèi, fu condannato a subire il famoso supplizio: non poteva né mangiare né bere benché immerso nell’acqua e con frutti che pendevano sul suo capo perché, a ogni suo tentativo, le acque si ritiravano e i frutti gli sfuggivano.

Guido Gozzano.
La vita.
Guido Gozzano nacque a Torino il 19 dicembre del 1883 da genitori nativi di Agliè Canavese, dove la famiglia Gozzano possedeva una villa con ampio frutteto.
Nel 1896 Gozzano si iscrive al liceo Cavour di Torino. Nel 1903 frequenta l’ultimo anno di liceo al collegio Nazionale di Savigliano, dove conduce vita dissipata. Nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Legge ma ai corsi dei giuristi preferisce quelli storico- letterari di Arturo Graf, e in particolare le lezioni “libere” del sabato pomeriggio (le sabatine) frequentate da un vasto pubblico mondano. Conosce molti scrittori, tra cui Massimo Bontempelli, e poeti, tra cui Carlo Vallini, e altri. Si afferma come dandy e comincia a frequentare i camerini delle attrici. Il 1906 è un anno operoso, in cui nascono i più riusciti fra i componimenti destinati a “La via del rifugio”, raccolta poetica che viene pubblicata nei primi giorni di aprile del 1907. Sempre in aprile gli viene diagnostica una lesione polmonare all’apice del polmone destro. Nella primavera dello stesso anno inizia una relazione epistolare con la giovane, ma già nota, poetessa Amalia Guglielminetti, di cui diviene ben presto l’amante (il poeta l’aveva conosciuta l’anno prima alla società di Cultura). Nel 1907 si ritira a Genova presso S. Francesco d’Albaro, albergo di S. Giuliano, dove scriverà la bellissima poesia “Nell’Abazia di S. Giuliano”, che esprime il momento di maggior crisi spirituale del poeta.
Nel 1908, nei mesi di marzo ed aprile, a Torino, vive il momento più intenso della relazione con la Guglielminetti che termina in quei giorni, trasformandosi poi in una viva amicizia intellettuale. Quindi, individuata ancora una volta nel “distacco” la “risoluzione più leale”, ripara ad Agliè, dove compone il “Quaderno di appunti per “i Colloqui”“. Nel 1909 conosce un periodo di eccezionale vena creativa componendo la maggior parte delle poesie che formeranno la seconda raccolta poetica “I Colloqui”. Nel 1910 completa il corpus poetico destinato alla raccolta “maggiore”. Nel 1911, alla fine di febbraio, con qualche mese di ritardo rispetto alle sue attese, “I colloqui” vengono pubblicati a Milano (editi da Treves), suscitando una vasta, ma non unanime, messe di recensioni. Il 16 febbraio del 1912, per motivi di salute, inizia un viaggio in India, con il suo amico Giacomo Garrone, che si concluderà alla fine dell’anno. Nel 1914 lavora alle “Farfalle. Epistole entomologiche” che in parte vengono pubblicate. In novembre comincia uno scambio epistolare con le sorelle Silvia ed Alina Zanardini di Trieste, organizzatrici a Torino di applauditissime serate di musica e di poesia, alle quali, per la serata inaugurale del 18 novembre, spedisce la poesia “Prologo”. Nel 1915 per le Zanardini (ma è Silvia, ora, l’interlocutrice esclusiva) scrive in febbraio il poemetto “Carolina di Savoia”. Nel marzo scrive il componimento poetico “Ah difettivi sillogismi”.
Nel 1916 si impegna alla sceneggiatura del film sulla vita di San Francesco. Il 29 maggio, in procinto di partire per la riviera, trasmette a Silvia Zanardini il testo dell’ultima poesia, il poemetto drammatico “La culla vuota”.
Il 16 luglio è ricoverato all’ospedale di Genova in seguito ad una violenta emottisi. Muore il 9 Agosto, mercoledì, al crepuscolo.
Solo i famigliari, e i pochissimi amici non trattenuti al fronte, vanno a dargli l’estremo saluto, due giorni dopo, nel cimitero di Agliè.
Contemporanea alla produzione poetica, Gozzano produsse anche una vasta produzione in prosa: scrisse moltissime fiabe, molte recensioni e le lettere dall’India con il titolo “Verso la cuna del mondo” uscite postume nel 1917, con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese. Nel 1917 la madre di Gozzano pubblicò una raccolta di fiabe dal titolo “La principessa si sposa” in appendice alla quale apparvero alcune poesie dedicate ai bambini con il titolo “Le dolci rime”, tra cui la dolcissima e leggiadra “La Notte Santa”, che descrive la nascita di Gesù bambino.

Le opere poetiche di Gozzano.

La prima raccolta poetica di Gozzano è stata “La via del rifugio” pubblicata nel 1907. Essa è composta da 25 poesie, nelle quali il poeta esprime già la sua Weltanschauung pressoché già solida e ben definita, la quale sarà completata e riaffermata nella sua seconda raccolta poetica “I colloqui” del 1911. Le due raccolte poetiche si completano a vicenda, poiché esse contengono il processo della sua evoluzione culturale, poetica, filosofica e l’itinerario della sua parabola esistenziale ed umana. Ma tra la prima e la seconda raccolta poetica il poeta vive un anno particolarmente intenso e decisivo: è il 1907, quando vive tre esperienze fondamentali per il prosieguo della sua vita umana e filosofica; 1) si intensifica la passione d’amore per Amalia Guglielminetti; 2) gli viene diagnostica la tubercolosi; 3) legge le opere di Maurice Maeterlinck il quale avrà molta influenza nelle opere successive ed in particolare modo nella composizione de “Le farfalle. Epistole entomologiche”. Nel 1907 si rifugia a Genova e poi in Piemonte in un andare e venire che avrà fine, solo con la morte. In quello stesso anno pubblica “La via del rifugio” che ha un grande successo tanto che, nello stesso anno viene ristampata.
A proposito della prima raccolta, Marziano Guglielminetti, scrive, a pagina I: “Dopo aver eliminato tute le poesie inficiate di dannunzianesimo” e a pagina XVII: “per il futuro è ormai modello di se stesso” e poco dopo scrive: “Sarebbe ingiusto se non si dichiarasse subito che cosa abbia significato, negli anni dal 1905 al 1907, la scoperta da parte di Gozzano della poesia di Francis Jammes” (da Guido Gozzano tutte le poesie della serie dei Meridiani Mondadori 1980).
Il titolo “La via del rifugio” è spiegato da Gozzano nella seconda bellissima poesia “L’analfabeta”, dedicata a Bartolomeo Tarella, l’ottantenne custode e fattore della villa del Meleto, un personaggio reale, che parlandogli del nonno del poeta chiedeva a Gozzano di restare. Ma il poeta gli spiegava perché non poteva fermarsi: “Dolce restare! E forza è che prosegua/ pel mondo nella sua torbida cura/ quei che ritorna a questa casa pura/ soltanto per concedersi una tregua;/ per lungi, lungi riposare gli occhi/ (di che riposi parlano le stelle!)/ da tutte quelle sciocche donne belle,/ da tutti quelli cari amici sciocchi” (vv. 33 – 40).
E così il poeta conclude la poesia: “Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame/ sulla panca di quercia, ove m’indugio;/ altro sentiero tenta al suo rifugio/ il bimbo illuso dalle stampe in rame” (vv. 176 – 180).
“La via del rifugio” contiene molto belle poesie, tra cui, in particolare, “I sonetti del ritorno”, “Ignorabimus”, “La medicina” e “Nemesi”; ma anche le altre poesie sono belle, come la prima “La via del rifugio” dove si trovano scritti i seguenti bei versi: “A che destino ignoto/ si soffre? Va dispersa/ la lacrima che versa / l’umanità nel vuoto?” (vv. 136 – 140). Anche la poesia “Il responso” ha dei versi crudi sulla triste condizione del poeta: “Ah! Se potessi amare! Vi giuro, non ho amato/ ancora: il mio passato è di menzogne amare” (vv. 31 – 32). Anche alcuni versi della poesia “L’inganno” sono molto belli: “Madre terra, sei tu che trasfiguri/ la vigilia dei giorni foschi e crudi? / O madre terra buona, tu che illudi/ fino all’ultimo giorno i morituri! / Essi non piangono la sentenza amara. / Domani si morrà. Che importa? Oggi / sorride il colco tra le stoppie invalide…/ Tutto muore con gioia (Impara Impara)/ e forse ancora s’apre contro i poggi/ l’ultimo fiore e l’ultima crisalide” (vv. 5 – 14). E bei versi vi sono anche in “Nemesi” quando scrive: “E mi fan pena tutti/ contenti e non contenti,/ tutti pur che viventi/ in carnevale e in lutti” (vv. 89 – 92). Nell’ultima poesia “L’ultima rinunzia”, Gozzano da un giudizio negativo sull’essere poeta; infatti tutta la poesia è rivolta a dare un’immagine del poeta come persona che vive fuori dalla realtà, come un sognatore, insensibile alle disgrazie altrui, e preso solo dal suo mondo illusorio e sognante e così conclude: “ma lasciatemi sognare/ ma lasciatemi sognare!/ Ma lasciatemi sognare” (vv. 91 – 93).
La Weltanschauung che emerge da questa prima raccolta poetica è quella di un giovane poeta lontano dalla poetica del d’Annunzio, ancora ben influenzato dalla filosofia di Nietzsche, ma che già aveva assorbito le teorie dell’evoluzionismo.
La bellezza della lexis dell’intera raccolta poetica “La via del rifugio” deriva da un linguaggio nuovo e lieve, rispetto a quello gravoso, amplio e retorico di d’Annunzio. Gozzano inventa un suo linguaggio poetico e una sua lexis personali, originali, nuovi e piacevoli che assomigliano a quelli di Sergio Corazzini; si può dire quindi che i due poeti abbiano dato inizio alla nuova poesia italiana del XX secolo.

II

La seconda raccolta poetica di Guido Gozzano è “I Colloqui” pubblicata nel 1911. Essa è composta da 24 poesie divise in tre parti così come il poeta spiega nella famosa lettera del 22 ottobre 1910 inviata al Direttore del giornale “Il Momento”; così scrive Gozzano: “”I Colloqui”. La raccolta adunerà il men peggio delle mie liriche edite e inedite e sarà come una sintesi della peggio della mia prima giovinezza, un pallido riflesso del mio dramma interiore. Le poesie – benché indipendenti – saranno unite da un sottile filo ciclico e divise in tre parti: I – il giovanile errore: episodi di vagabondaggio sentimentale; II – Alle soglie: adombrante qualche colloquio con la morte; III – Il reduce: “ reduce dall’Amore e dalla Morte, gli hanno mentito le due cose belle..” e rifletterà l’animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo” e poco dopo scrive: “Le poesie che sto adunando non sono opera, ma della mia vita, della mia adolescenza e della mia giovinezza; io ho fatto – come ho saputo – i versi; ora che li sto adunando posso forse notare nel loro insieme una tendenza che mi compensa delle mie fatiche e mi consola: l’ascensione dalla tristezza sensuale e malsana all’idealismo più sereno”.
Io, Biagio Carrubba, credo che una giusta interpretazione de “I colloqui” l’abbia data Marziano Guglielminetti nella introduzione del libro “Guido Gozzano. Tutte le poesie” (Ed. Mondadori 1980). Guglielminetti, a pagina XXIV, dice che: “I colloqui non sono più un’antologia, come La via del rifugio. Vogliono essere un poema, tanto da poter nascere, taluni di essi, congiunti, in sequenze unitarie solo in seguito distinte”. E Guglielminetti così spiega: “Dove per “tristezza sensuale e malsana” intende quella cagionata dal positivismo; per “idealismo più sereno” la reazione che contro il positivismo si era da qualche tempo scatenata un po’ dovunque, in nome di un “bisogno di fede”, che, per la circostanza, Gozzano fa proprio, e fors’anche accentua” (pagina XXIV – XXV). Guglielminetti così prosegue: “Che, invece, dietro il disegno dei Colloqui ci sia l’ambizione, più o meno segreta, di riportare a vita l’autoritratto di sé promosso dalle Rime di Petrarca, dai Canti di Leopardi, è tesi quasi indiscutibile; tanto che è cura di Gozzano condurre i nomi di questi poeti alla memoria del lettore” (pagina XXVI).
E a pagina XXVII Guglielminetti così scrive: “Avendogli Gozzano assegnato la voce e la vita dell’amante presto disilluso e progressivamente inariditosi nel suo impulso erotico, Petrarca e Leopardi, che di questa tradizione sono gli esponenti più prestigiosi, diventano necessari punti di riferimento” e poco oltre scrive: “Quel po’ delle proprie vicende, che Gozzano lascia trasparire, deriva quasi tutto dall’esperienza sentimentale avuta e patita con la Guglielminetti; e per ciò stesso la possibilità d’iscriverla integralmente sotto le rubriche di quella raccontata da Petrarca di sé medesimo e di Laura diventa, obiettivamente, elemento di confronto e d’interpretazione” (pagina XXVII). E parlando della terza parte dei “I Colloqui” Guglielminetti così scrive: “L’autoritratto del poeta, perseguito nella terza sezione dei “Colloqui” attenua simili proteste. Intitolata “Il reduce”, la sezione raffigura lo stato d’animo, di chi, giunto “alle soglie” della vita è ritornato indietro e continua a vivere. Delle tre è la più compatta e omogenea; tanto che si potrebbe definirla una sezione a tesi, a tale punto calza col progetto di fare dei Colloqui un poema esistenziale” (pagina XXXV).
E così Marziano Guglielminetti conclude la sua introduzione: “Ma I Colloqui erano tuttora additati ai lettori di questo giornale, perché, in fin dei conti, Gozzano “era stato il primo poeta italiano che sedendosi a tavolino non imboccasse gli oricalchi dei furori eroici e dimenticasse la storia”. Il necrologio non è firmato, ma c’è chi lo attribuisce ad Antonio Gramsci. Un poeta che abbia saputo soddisfare contemporaneamente e per ragioni opposte un Serra e un Gramsci si presenta subito con le carte in regola per essere considerato tra i pochi rappresentativi del Novecento italiano” (pagina XLVI). Giudizio che anch’io, Biagio Carrubba, condivido appieno.
Le poesie de “I Colloqui” sono tutte belle, tranne poche meno riuscite. La terza sezione è la più compatta e forse le poesie avrebbero dovuto avere una disposizione diversa da quella che gli ha dato Gozzano. Secondo me la prima poesia “Totò Merùmeni” dovrebbe essere invece l’ultima poesia, sia perché scritta per ultima, sia perché è l’ultima immagine che il poeta voleva lasciarci cioè quella di uomo e poeta maturo e non l’immagine lasciataci nei “I colloqui 2”, cioè quella di un giovane poeta ancora tutto da maturare e ancora da differenziarsi dagli altri letterati e poeti. Questa poesia dovrebbe essere preceduta dalla poesia “Un’altra risorta” e, a sua volta, questa dovrebbe essere preceduta da “Una risorta”, perché queste ultime due poesie esprimono tutto il tormento e il calore affettivo che il poeta avvertita per Amalia Guglielminetti; tutte queste poesie, a loro volta, dovrebbero essere precedute da “Pioggia d’agosto”, nella quale il poeta ci lascia l’ultima immagine di sé come uomo sconsolato e sfiduciato dalle grandi ideologie e dagli ideali: “La Patria? Dio? L’Umanità? Parole/ che i retori t’han reso nauseose” (vv. 23 – 24).
La Weltanschauung che emerge dalla raccolta poetica è quella di un giovane poeta disilluso dagli ideali degli uomini, come scrive nella poesia “Pioggia d’agosto”, e disilluso dalla Vita, come scrive in “Totò Merùmeni”; un giovane poeta che crede nello “spirito” ma dubita di Dio, e come fa dire ad Amalia, nella poesia “Una risorta”: (la sua vita:) “E’ come un sonno blando, un ben senza tripudio; / leggo, lavoro, studio/ ozio filosofando../ La mia vita è soave/ oggi, senza perché; levata s’è da me/ non so qual cosa grave…./ “Il Desiderio! Amico,/il desiderio ucciso/ vi dà questo sorriso/ calmo di saggio antico…/ Ah! Voi beato! Io/ nel mio sogno errabondo/ soffro di tutto il mondo/ vasto che non è mio!/ Ancor sogno un’aurora/ che gli occhi miei non videro; desidero, desidero/ terribilmente ancora..!” (vv. 25 – 44). La Weltanschauung del poeta è dunque quella di un giovane poeta che vive mestamente, sconfortato dall’amore e dalla morte come scrive nella poesia “In casa del sopravissuto”: “Reduce dall’Amore e dalla Morte/ gli hanno mentito le due cose belle!/ Gli hanno mentito le due cose belle: amore non lo volle in sua coorte,/ Morte l’illuse fino alle sue porte,/ ma ne respinse l’anima ribelle” (vv. 13 – 18).
La bellezza della lexis della seconda raccolta poetica “I colloqui” è data dal linguaggio robusto e intenso, molte volte chiaro ed elegante. Il tono emotivo è quasi sempre sobrio e diffuso, senza sbalzi e senza interruzioni. E’ un linguaggio ricco di figure retoriche e forbito, letterario ed aulico, ma che esprime sempre i sentimenti veri del poeta, senza falsa retorica, senza falsa letteratura e senza artificio.

La poetica di Guido Gozzano.

Pochi anni dopo le opere poetiche di Sergio Corazzini, un altro grande poeta italiano, Guido Gozzano pubblicava a Torino due libri di poesie, che rientravano nel clima dell’antidannunzianesimo e più in generale in quello definito da Antonio Borgese del crepuscolarismo; oggi, a distanza di un secolo dal primo decennio del XX secolo, io, Biagio Carrubba, penso che si possa, con tranquillità, affermare che le opere di Gozzano siano al di sopra delle tematiche del crepuscolarismo e rientrino in quelle più universali dello spirito umano.
Gozzano fu un poeta solitario, un’anima sofferente, sia per la sua malattia fisica, sia perché anelava a vivere in altro modo rispetto a quello in cui in effetti viveva. Questo dissidio interiore caratterizzò non solo la sua esistenza civile, sociale ed etica, ma anche la sua poetica, la sua cultura e anche la sua Weltanschauung.
Le somiglianza tra Gozzano e Corazzini si limitano soltanto al fatto che ambedue i poeti morirono di tubercolosi; per il resto i due poeti erano diversi. La stessa malattia fu diversa: in Corazzini intensa e rapida, in Gozzano lenta e graduale. La loro cultura di base era diversa, eccetto la conoscenza dei poeti francesi; Gozzano aveva una cultura filosofica più vasta e ampia rispetto a quella di Corazzini, che era più ristretta. Gozzano si era formato sui libri di Schopenhauer e di Nietzsche e conosceva molto bene i classici italiani e latini a differenza di Corazzini che, penso, data la brevità della sua vita e quindi dei suoi studi non aveva avuto il tempo per approfondire i classici italiani e latini. Questa differenza di cultura spiega il perché Corazzini nelle sue opere poetiche si fermò ad esprimere solo e soprattutto il suo dolore, mentre Gozzano riuscì ad esprimere non solo il suo dissidio interiore, ma anche l’aspirazione al piacere della vita quotidiana. Anzi dalla consapevolezza tra l’arida e la squallida vita che conduceva, minata dalla malattia, e l’aspirazione al godimento amoroso, nasce in Gozzano il leitmotiv della sua poetica.
Ora io credo che, la chiave di lettura per capire sia la prima che la seconda raccolta poetica di Gozzano sia questa: Gozzano vive una vita per lui desolata e triste e per questo aspira, ed anela, costantemente a una vita più felice e tranquilla. Questa discrepanza tra la vita vissuta e la vita desiderata è esplicitata chiaramente nella bellissima poesia “Pioggia d’agosto” della seconda raccolta poetica quando afferma: “Soffro la pena di colui che sa/ la sua tristezza vana e senza mete” (vv. 7 – 8). E successivamente afferma: “Essa (la Natura) conforta di speranze buone / la giovinezza mia squallida e sola” (vv. 37 – 38). Ma Gozzano vive questa discrepanza in molte sfere della sua personalità: nel campo affettivo vive praticamente da solo, ma sogna l’amore di attrici e principesse come afferma nella bella poesia “Totò Merùmeni” quando dice: “La Vita si ritolse le sue promesse./ Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse/ ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne./ Quando la casa dorme, la giovinetta scalza/ fresca come una prugna al gelo mattutino,/ giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza/ su lui che la possiede, beato e resupino…” (vv. 37 – 44). In campo religioso vive continuamente turbato dalla fede in Dio come si evince dalla bellissima poesia “Nell’Abazia di San Giuliano” in cui anela a credere in Dio, per finire, in ultimo, dopo la lettura delle opere di Maurice Maeterlinck, in un piatto spiritualismo panteistico. Nel campo filosofico Gozzano parte dalla lettura delle opere filosofiche di Schopenhauer e di Nietzsche per finire in un aperto naturalismo, anche se oscilla sempre tra questi due poli come testimoniano le due ultime poesie de “I Colloqui 2” e “Pioggia d’Agosto” dove confessa la sua fede nella Natura come afferma: “Ah! La Natura non è sorda e muta;/ se interrogo il lichene ed il macigno/ essa parla del suo buon fine benigno…/ Nata da sé medesima, assoluta, unica verità non convenuta,/ dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno” (vv. 31 – 36). Nell’ultima poesia “I colloqui 2” riconferma l’immagine di sé dedito alla filosofia, quando afferma: “il fanciullo sarò tenero e antico/ che sospirava al raggio delle stelle/ che meditava Arturo e Federico” (vv. 33 – 35). Nel campo sociale e civile Gozzano vive da cenobita e aspira a diventare un piccolo commerciante come dice nella famosa sestina del lungo poemetto “La Signorina Felicita ovvero la Felicità” quando scrive: “Oh! Questa vita sterile, di sogno!/ Meglio la vita ruvida concreta/ del buon mercante inteso alla moneta, / meglio andare sferzati dal bisogno, / ma vivere di vita! Io mi vergogno, / sì, mi vergogno di essere poeta!” (vv. 302 – 307). Gozzano vive tristemente il presente e rimpiange il passato come scrive nella poesia “Torino”: “L’ora ch’io dissi del Risorgimento, / l’ora in cui penso a Massimo d’Azeglio/ adolescente, a I miei ricordi, e sento/ d’essere nato troppo tardi…Meglio/ vivere al tempo sacro del risveglio,/ che al tempo nostro mite e sonnolento!” (vv. 37 – 42). Un altro forte dissidio che Gozzano vive è questo: da un lato lui vive di idealismo e di letteratura mentre dall’altro lato aspira a vivere la vita concreta di tutti i giorni come dice nella poesia “Torino” nei versi finali: “Eviva i bogianen.. Sì, dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello!/ Buona è la vita senza foga, bello / goder di cose piccole e serene…/ A l’è question d’nen piessla. Dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello” (vv. 73 – 78). E un altro dissidio che il poeta vive, tra la vita idealistica a cui aspira ed anela, e la vita pratica e piena di piaceri, è ben descritto nella bellissima poesia “Un’altra risorta” quando da Amalia Guglielminetti si fa dire nella bellissima terza sestina: “Che bel Novembre! È come una menzogna/ primaverile! E lei, compagno inerte/ se ne va solo per le vie deserte/ col trasognato viso di chi sogna../ Fare bisogna. Vivere bisogna/ la bella vita dalle mille offerte” (vv. 13 – 18). Dunque tutta la poetica di Gozzano è attraversata da questa discrepanza culturale e da questo dissidio interiore, di cui il poeta era ben cosciente, tra la vita effettiva, “il malato ambulante”, e la ricerca costante della vita sana, bella e ideale.
Anche nel campo politico Gozzano vive una doppia vita: da un lato ha perso la fede nei valori politici del suo tempo e dall’altro lato rimpiange i valori alti del Risorgimento italiano; così scrive nella bella poesia “Pioggia d’agosto”: “Guarda gli amici. Ognuno già ripose/ la varia fede nelle varie scuole./ Tu non credi e sogghigni. Or quali cose/ darai per meta all’anima che duole?/ La Patria, Dio? L’umanità? Parole/ che i retori t’han fatto nauseose” (vv. 19 – 24).
Ma una volta individuata la sorgente della sua poesia, ristretta alla sua doppia anima di esteta e di verista, di ateo e di deista, di apolitico e di idealista, di amante e di singolo, di letterato e di anelante commerciante, di onesto e piccolo borghese, ma anche di raffinato aristocratico che vuole vivere di amore platonico, ma anche di amante gaudente (maschio sollazzarsi) che vuole regredire al mondo dell’infanzia, (come nella bellissima poesia “Cocotte”) e di uomo che va alla ricerca della propria felicità; orbene io, Biagio Carrubba, penso sia doveroso e necessario indicare anche i motivi della grandezza e della bellezza della poesia del Gozzano, perché non c’è dubbio che le due raccolte poetiche, “La via del rifugio” e “I Colloqui”, sono autentici capolavori poetici, ad eccezione di qualche poesia meno riuscita.
Io credo che il primo vero motivo di bellezza e grandezza sia l’insegnamento della poetica di Gozzano e la risposta che il poeta ha saputo dare al tema della morte. Questa risposta ha attraversato sia la prima che la seconda raccolta poetica, ma si trova anche in alcune poesie sparse e nella famosa lettera che Gozzano spedì al direttore del giornale “Il Momento” quando scrisse: “e rifletterà l’animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo”. Orbene Gozzano ha indicato più volte che non solo alla vita bisogna rassegnarsi sorridendo, ma soprattutto bisogna alla morte rassegnarsi sorridendo. E questo atteggiamento, quasi da stoico (questo sorriso/ di calmo antico), è ben espresso già nella raccolta “La via del rifugio”, quando nella poesia “L’Analfabeta”, l’analfabeta (Bartolomeo Tarella, custode e fattore della villa del Meleto) esclama: “Il dolore non esiste / per chi s’innalza verso l’ora triste / con la forza d’un cuore sempre giovane” (vv. 97 – 100), e quando dice: “”Buona è la morte” e dici e t’avventuri / serenamente al prossimo congedo” (vv. 155 – 156). Secondo me questi bellissimi versi esprimono, già in un poeta così giovane (allora il poeta aveva appena 24 anni), una solida maturità e una chiara Weltanschauung forte e sicura dinanzi alla paura della morte che ogni uomo prova o sente dentro la sua anima e dentro il suo corpo. Gozzano esprime molto bene il terrore della morte che assale ogni uomo quando si trova solo dinanzi ad essa al momento di lasciare questa bella vita e incamminarsi nei regni bui della morte.
Gozzano descrive questo atteggiamento di pacata serenità e di aperta accettazione della morte anche nella poesia “L’inganno”, la poesia numero 11 della raccolta “La via del rifugio”, quando scrive: “O Madre Terra buona, tu che illudi/ fino all’ultimo giorno i morituri!/ Essi non piangono la sentenza amara./ Domani si morrà. Che importa? Oggi/ sorride il colco tra le stoppie invalide…/ Tutto muore con gioia (Impara! Impara!) / E forse ancora s’apre contro i poggi / l’ultimo fiore e l’ultima crisalide” (vv. 7 – 14). E nella poesia “Le due strade” il poeta scrive: “O bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;/ discendere alla Morte come per rive calme,/ discendere al Niente pel mio sentiere umano, / ma avere te per mano, o dolce sorridente!” (vv. 33 – 36). E anche nella bella poesia “Alle soglie”, Gozzano affronta il tema della morte in prima persona e, nella terza strofa, dice: “Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,/ mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo, / mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora – / che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte./ (Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo/ le danno un nome, che, credo esprima una cosa non tetra)./ E’ una Signora di nulla vestita e che non ha forma./ Protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma./ Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;/ ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome./ Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;/ né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano” (vv. 23 – 34). Bei versi dove viene ripetuto il verbo ridere che viene nuovamente espresso a Lorenzo Stecchetti, dal titolo [Stecchetti] quando dice, con aria quasi di sfida, alla morte: “Io non gemo, fratello, e non impreco: / scendo ridendo verso il fiume oscuro/ che ci affranca dal Tempo e dallo spazio” (vv. 12 – 14).
Nella poesia “Il più atto”, Gozzano dice: “Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;/ di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio” (vv. 13 – 14). Versi sublimi che io condivido (perché anch’io dirò la stessa la cosa alla Vita) e che fanno del poeta Gozzano un sommo poeta, universale, lirico che può essere avvicinato ai grandi poeti come Leopardi (che lui amava tanto). E come Leopardi anche Gozzano è il poeta delle grandi domande eterne e metafisiche come quelle che pone nella stupenda 61ª strofa del poemetto “La signorina Felicita, ovvero la Felicità” degna del Leopardi: “Voi che posate già sull’altra riva,/ immuni dalla gioia, dallo strazio, / parlate, o morti, al pellegrino sazio!/ Giova guarire? Giova che si viva?/ O meglio giova l’Ospite furtiva/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 363 – 368).
Ora io non sostengo che le poesie di Gozzano siano intense e sublimi come le poesie del Leopardi e penso che anche lui fosse cosciente di ciò, ma credo che Gozzano abbia saputo scrivere anche bellissime poesie che sanno esprimere tutto il suo dolore e la sua ricerca di felicità. Ma come Leopardi, che ha avuto una vita breve ed infelice, anche Gozzano ha avuto una vita breve e mesta ma, nonostante ciò, egli ha saputo reagire alla sua malattia e ha cercato di godersi “la bella vita dalle mille offerte” perché “bello (è)/ goder di cose piccole e serene”. Questi versi, sempre immortali ed attuali, riprendono il “Carpe Diem” di Orazio. Ma Gozzano, come il Leopardi, non sa dare le risposte alle domande eterne e metafisiche, poiché entrambi i poeti sono solo semplici uomini e come tali, finiti che aspirano all’infinito, a sapere e conoscere la luce della verità e se Dio c’è, aspirano a vedere la luce di Dio.
Gozzano parla del riso necessario a scendere nei regni bui della morte; ora io, Biagio Carrubba, credo che bisogna chiarire il significato di questo sorriso perché ha più significati. È un sorriso ironico, sornione, sardonico, cioè è un sorriso che distacca l’uomo dal dolore per la perdita della vita e crea un sentimento di rabbia contro una forza più forte della vita; il sorriso è ironico perché in un certo senso vuol denigrare e schernire la Morte; è sornione perché vuole deridere, di nascosto e pacatamente, la morte; è sardonico perché vuole nascondere il dolore che provoca nell’uomo e allora gli crea quel buon viso a cattivo gioco che lo conduce nell’eterno dolore. Non è certo un riso di gioia, è un riso di sfida e di sfregio verso chi ha creato la Morte, la quale incombe e ghermisce senza pietà e inesorabilmente l’umanità. Già il grande Leopardi aveva descritto questo atteggiamento di fierezza e di accettazione stoica verso la morte e aveva intuito questo sorriso beffardo dell’uomo verso la morte, come scrive nella poesia “Aspasia”: “Qui neghittoso immobile, giacendo,/ il mar la terra e il cielo miro e sorrido” (vv. 111 – 112).
Ma già oggi la scienza è in grado di sconfiggere la morte in quanto già si parla di persone che vivono 120 e tra un cinquantennio probabilmente si arriverà a vivere fino a 150 anni e infine si scoprirà l’elisir della giovinezza togliendo così alla morte il suo terrificante potere di annientamento e di nullificazione.
Se tutto questo accadrà, allora anche Dio, se esiste, sarà costretto a scendere da queste parti per riportare ordine alla natura e dare la giusta pace al genere umano, oggi così schiacciato dai suoi limiti fisici e mentali.
Ma io, Biagio Carrubba, credo che l’unica morte che si possa affrontare sorridendo sia quella che ci porti alla salvezza dell’anima. Ma siccome nessuno è ritornato salvo dall’aldilà per testimoniare l’eternità dell’anima, e quindi poiché nessuno sa come stanno le cose veramente dopo la morte, io aspetto la comparsa di Dio, o chi per lui, che possa dirci e darci la verità sulla nostra salvezza eterna. Altrimenti è vero che polvere eravamo e polvere torneremo, o meglio ancora, niente eravamo (nemmeno polvere) e niente ritorneremo. Anch’io ho le mie fedi spente nella patria, nell’umanità e in Dio e per questo bramo Dio.

Il linguaggio poetico di Guido Gozzano.

Le caratteristiche più importanti del linguaggio poetico di Guido Gozzano sono queste: 1ª) maestria insuperabile delle rime e bravura eccelsa nella scelta e formazione delle strofe; 2ª) sapiente ricomposizione dei versi dei poeti classici e diffusi riferimenti a pensieri ed idee di poeti francesi da Sully Prudhomme (1839 – 1907) ad Alfred de Musset, da Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814) a Francis Jammes; 3ª) uso di dialoghi frequenti e di battute fra i vari personaggi interrotti dai puntini di sospensione per dare le giuste pause al tono dei dialoghi; 4°) le frasi chiare, dove predominano i periodi paratattici e buoni sintagmi creativi ed originali. Molti critici letterari hanno sottolineato la novità del Gozzano nel saper introdurre un linguaggio basso e popolare all’interno di un linguaggio poetico ed alto, come scrive Romano Luperini nel bel libro “Poeti Italiani: il novecento” (Palumbo 1984) a pagina 66: “In particolare efficaci si sarebbero rivelate l’apertura lessicale e l’originalità stilistica, soprattutto nelle frequenti parti parlate, con vere e proprie battute di discorso, dei suoi testi più spiccatamente narrativi. Si assiste a un generale inquadramento dei termini e delle strutture sintattiche alte entro coordinate stilistiche medio-basse: il poeta non rinuncia al linguaggio letterario di d’Annunzio o di Pascoli, ma adotta, al solito, l’antidoto della ironia, quasi che certe parole vengano pronunciate tra virgolette e per scherzo”.
E a proposito dell’ironia gozzaniana devo dare alcune mie riflessioni personali: so che molti critici hanno dato molta importanza all’aspetto ironico della poetica di Gozzano e primi fra tutti Marziano Guglielminetti e Giusi Baldissone che, nel libro “Opere di Guido Gozzano” (Utet 1983), scrive a pagina 24: “L’ironia ridistribuisce a ciascuno le sue possibilità poetiche e alleggerisce Gozzano dalle proprie. Attualizza il passato pigiando su tutti gli effetti e le possibilità, mettendone quindi in risalto tanto il grandioso quanto il ridicolo”.
Ora io, Biagio Carrubba, dico invece che le poesie ironiche di Gozzano sono veramente poche e si possono contare sulle dita di una mano, mentre Gozzano fu soprattutto poeta lirico e serio, non concedendo quasi niente alla affabulazione, perché il Gozzano affabulatore fu essenzialmente scrittore di novelle e di fiabe. Ho trovato un po’ di ironia e sarcasmo nella poesia “Il commesso farmacista” e ho trovato un po’ divertente le poesie “L’esperimento”, “Le Golose” e pochi altri versi in alcune poesie sparse; non ho trovato nessuna poesia ironica, né tanto meno divertente nelle due opere maggiori, “La via del rifugio” e “I colloqui”.
Sia “La via del Rifugio” che “I Colloqui” sono opere poetiche autobiografiche, dove è molto ridotta la funzione fatica e dove predomina quasi esclusivamente la funzione emotiva; insomma, le due opere servono al Gozzano per esprimere soprattutto la sua filosofia come dice Giusi Baldissone: “Espone insomma una filosofia che è quella di Gozzano”, (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 13) ma successivamente aggiunge: “Il vecchio e il poeta non possono coincidere, appartenendo il vecchio all’ordine del reale e il poeta a quello del fittizio, e avendo due soli punti in comune: la disponibilità del vecchio a trasformare il proprio reale in fittizio, innescando i sogni del poeta: e l’approdo finale a un’uguale sapienza” (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 14).
Il Gozzano è soprattutto buon poeta, attento all’euritmia come dice nella poesia “Il commesso farmacista” del 1907; il poeta attacca i falsi, o prolissi, poeti come scrive nella lettera ad Amalia Guglielminetti del 13 luglio del 1909: “Ah! Il lavoro paziente e lentissimo, la rinunzia e il raccoglimento intesi a quell’unica meta, il coscienzioso labor limae che solo ci dà l’opera bella e duratura”. E subito prima, polemicamente, aveva scritto: “Una genia, questa, di maschi e di femmine, con la quale io sono implacabile. Malfattori che sbrodolano in due mesi un volume di 300 pagine e hanno la tracotanza di farsi chiamare poeti!”.
La lexis delle due raccolte è molto originale, piana e chiara, senza concedere niente alla prolissità e al barocco. Periodi larghi e folti danno alla poesia di Gozzano una grazia e una leggerezza molto soffusa all’interno delle due opere poetiche, cosicché risulta che nessuna poesia ha una luce più brillante delle altre, ma ciascuna diffonde una luce sua propria che aumenta la brillantezza e la lucentezza di tutte le altre; allo stesso modo farebbero due collane vicine dove nessuna gemma risplende più delle altre ma dove ogni gemma aumenta la luminosità delle due collane.
Ma io credo che la bellezza della poesia del Gozzano stia nel gran tormento che lui prova interiormente. E’ un ripiegamento silenzioso sia per la sua malattia fisica, sia per la perdita dell’amore di Amalia Guglielminetti. È la via tormentata della ricerca della felicità, attraverso l’amore tortuoso per Amalia Guglielminetti. Questa è la vera dimensione psicologica; è il vero tormento di un poeta che si crede di essere un gelido sofista, mentre in realtà è un semplice giovane che soffre le pene di tutti gli uomini, quando si rende conto che l’amore tanto cercato gli sfugge definitivamente. È il dolore che il poeta prova quando sa che la sua vita sarà triste e breve, per cui la sua favola bella durerà poco. La bellezza delle poesie consiste, in sintesi, nel fatto che le due raccolte, complementari ed unitarie, sono ricche di pathos sentimentale, di calore umano, di passione esistenziale e di tormento amoroso; Romano Luperini dà questo giudizio sulla produzione poetica gozzaniana: “Le due raccolte più caratterizzanti della produzione gozzaniana sono “La via del rifugio” e “I colloqui”, mentre il poemetto incompiuto “Le farfalle” implica una regressione a un modello passato e inattuale…Ora non servono più neppure l’ironia e il distacco, tanto la poesia è ormai priva di abbandoni e di vitalità: la nuda letteratura, depurata di ogni calore presente, è la forma conclusiva assunta dalla critica di Gozzano alla letteratura” (da Poeti Italiani: il Novecento – Palumbo Editore – 1984 – Pagina 66).

Gozzano e l’immagine di poeta all’inizio del secolo.

Gozzano, come altri poeti a lui contemporanei, ha una lucida coscienza sul ruolo sociale del poeta all’inizio del XX secolo. Gozzano ha dinanzi a sé l’immagine del poeta vate, cioè di d’Annunzio. Il grande vegliardo, cioè il Carducci, era morto da poco, mentre il Pascoli esaltava la grande proletaria. Oltre a questi tre grandi poeti, probabilmente, Gozzano, aveva letto anche le poesie di Corazzini, che aveva scritto di essere un piccolo fanciullo che piange anziché un poeta, e quelle di Palazzeschi che si era definito prima “Saltimbanco” nel 1909, e poi nel 1910, aveva scritto, nella divertente poesia “Lasciatemi divertire”, l’amara conclusione:
Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti: e lasciatemi divertire!.
In generale in Italia i poeti avevano perso, già da tempo, l’aureola di poeta simbolo e vate e si erano ridotti a uomoni comuni che non riuscivano a dare e rivelare niente di vaticinio e di profetico. Già Baudelaire aveva scritto l’apologo del poeta e della prostituta, nel quale aveva messo in rilevo la perdita, da parte del poeta, dell’aura e dell’aureola. Questa analisi è confermata da Romano Luperini: “Si chiama perdita dell’aura la perdita di sacralità e d’incanto subita dalle opere d’arte; si chiama perdita d’aureola l’analoga perdita di sacralità subita dalla figura dell’artista”. Gozzano subisce il fascino di questo declassamento della figura del poeta e arriva al punto di scrivere: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere poeta!” (da La Signorina Felicita, ovvero la Felicità – vv. 306 – 307). Ma, secondo me, questa affermazione non è vera! È assolutamente falsa; fa parte della personalità del poeta, del suo sentire ambivalente che da un lato rifiuta la sua condizione di poeta, ma dall’alto lato non sa fare altro e allora continua a scrivere sia poesie sparse, sia novelle, sia consulenze per il cinema. Io credo, invece, che Gozzano fosse fiero di essere poeta e di rimanere un freddo sognatore come dice Giusi Baldissone: “Guido Gozzano è comunque essenzialmente poeta: sciogliere versi e sintetizzare immagini risulta la sua vera ed originale attitudine” (da Opere di Guido Gozzano – Utet 1983 – pagina 30).

Introduzione alla poesia
La signorina Felicita ovvero la Felicità.

Questa poesia fu pubblicata sulla “Nuova Antologia” del 16 marzo 1909, con il sottotitolo Idillio.
Ebbe un lungo periodo di composizione, così come si legge in due lettere ad Amalia Guglielminetti e in una lettera a De Frenzi. Antecedente poetico scritto dallo stesso Gozzano è L’Ipotesi del 1907.
Il poemetto poetico racconta la storia, solo immaginaria, di una signorina Felicita che abitava in una villa del canavese, probabilmente in una villa del Gozzano. Il poemetto è composto da 434 versi per un totale di 72 sestine, è diviso in otto parti unite da un numero romano progressivo e fa parte della seconda raccolta poetica di Gozzano “I Colloqui” della quale è la 14ª poesia. Il poemetto si trova nella seconda parte del libro intitolata “Alle Soglie” ed è la quinta poesia su sette di questa seconda parte. Credo che i versi 312-313 facciano riferimento ad Amalia Guglielminetti.

Testo del poemetto poetico.

La signorina felicita
Ovvero
La felicità

10 luglio: Santa Felicita
I
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè,
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo e il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia dl Nume ghermitore…

Penso l’arredo – che malinconia –
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani della Bella Otero
alle specchiere… che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente…Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II
Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del guaio
notarile, con somma deferenza.

“Senta, avvocato…” e mi traeva inquieto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto…
“ … la Marchesa fuggì… Le spese cieche…”
da quel parato a ghirlandette, a greche…
“ dell’ottocento e dieci, ma il catasto…”
da quel tic-tac dell’orologio guasto…
“…l’ipotecario è morto, e l’ipoteche…”

capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva:” Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…” – “ E se l’ipotecario
è morto, allora…” Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
“Ecco il nostro malato immaginario!”

III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto squadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poiché trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio…

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciotolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino…

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

IV

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca, bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

“ E’ quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno… E poi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena… L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi…”

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo un mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
“ Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?”

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e, ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria: un corridoio basso,
tre ceste, un cantarano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “ cosi
con due gambe” che fanno tanta pena…

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere…

Schierati al sole o all’ombra della croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè! – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro…

L’alloro…Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui…”

“ Avvocato, non parla: che cos’ha?”
“Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città…
Sarebbe dolce restar qui, con lei!…”-
“Qui, nel solai?…” – “ Per l’eternità!”-
“Per sempre? Accetterebbe?…” -”Accetterei!”

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parate: il segno spaventoso
chiuso tra le ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

“ Che ronzo triste!” – “ E’ la Marchesa in pianto…
La Dannata sarà che porta pena…”
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena…

un richiamo s’alzò, querulo e roco:
“E’ Maddalena inqueta che si tardi;
scendiamo; è l’ora della cena!” – “ Guardi,
guardi il tramonto, là… Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!” – “ Andiamo, è tardi!”
“Signorina, restiamo ancora un poco!…”

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana…

“ Una stella!…” – “Tre stelle!…” – “ Quattro stelle!…”
“Cinque stelle!” – “ Non sembra di sognare?…”
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo! E’ tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle…”

V

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggittivi…
Io ti parlavo, piano, e tu cucici
innebriata dalle mie parole.

“ Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore…”

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
“ Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”

“Perché mi fa tali discorsi vani?”
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..”
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza;
“ Non mi ten…ga mai più tali dis..corsi”

“Piange! E come tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccole consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno di essere poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatto la seconda
classe, t’han detto che la terra è tonda,
ma tu non credi… e non mediti Nietzsche…
mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…

Ed io non voglio più essere io!

VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace:
“ Vedrà che dorme tutte le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!”
Narrava, intanto, certa gelosia,
con non so che loquacità mordace.

“Ma c’è il notaio pazzo dell’oca!
Ah! Quel notaio, creda: un capo ameno!
La signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca…
E la dote… la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno…”

“Ma dunque?” – “ C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla…” –
“E’ geloso?” – “Geloso! Un finimondo!…”-
“ Pettegolezzi!…” – “Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla…” –

“Non tema! Parto. “ – “ Parte? E va lontana?” –
“Molto lontano… Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo…” –
“Davvero parte? Quando?” – “ In settimana…”
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva “ un punto sopra un I gigante “.

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
le tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno.
La Luna, prigioniera, fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, far le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà…

VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

“ Viaggio con le rondini stamane…” –
“ Dove andrà ? “ – “ Dove andrò? Non so… Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio…
oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette…
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…

“Un altro stormo s’alza!…” – “ Ecco s’avvia!”
“ Sono partite…” – “ E non le salutò!…” –
“ Lei devo salutare, quelle no:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò…”

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…

M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…

Quello che fingo d’essere e non sono!

Il tema del poemetto poetico.

Il tema del poemetto poetico è, certamente, la Rinuncia, alla morte e all’amore, alle quali il poeta preferisce la sua condizione di poeta e di gelido sofista, come afferma nell’ultimo verso del poemetto: “quello che fingo d’essere e non sono!” (v. 434). Il poeta frequenta Felicita, una signorina quasi brutta e priva di lusinga, che vive col padre in una villa presso un paese del canavese. Gozzano andava a trovarla ogni giorno e lei con i suoi occhi fermi e con gesti sottili gli mostrava simpatia e attrattiva. Negli occhi della signorina rideva una blandizie femminina, che attirava il poeta che si era invaghito di lei. Questo incipiente vagheggiamento faceva sognare il poeta che voleva abbandonare la sua sterile vita di intellettuale e di gelido sofista.
Secondo me, Biagio Carrubba, infatti, l’immagine del poeta è ambivalente e contraddittoria. Da un lato, Gozzano, si mostra impreparato come avvocato e sognatore come poeta, dall’altro lato si mostra inadeguato alla società moderna e aspira alla vita semplice, ma ruvida, di provincia. Da un lato è inadeguato al lavoro concreto e lo esercita perché spinto dal bisogno economico, dall’altro altro lato finge un animo romantico, mentre in realtà sa di non esserlo, come conferma la nota: “Cioè, Gozzano si riconosce pur sempre l'”esteta gelido”, il “sofista”“ (da “Guido Gozzano BUR editore a pagina 197).
La signorina Felicita lo accompagnava nel solaio, dove c’era una enorme tela dove era raffigurata la Marchesa Dannata, bianca e bella, la quale aveva lasciato la villa al nonno del nonno di Felicita. Questo dipinto era in mezzo a tanti altri oggetti, ormai abbandonati, ed era una stirpe logora e confusa, attorniata da un ciarpame reietto tra cui una effigie di Torquato Tasso incoronato delle frondi regie. Attraverso l’abbaino, il poeta guardava dall’alto del solaio la campagna canavesana, e da lì si diffondeva il suo desiderio di pace. Gozzano, allora, cominciava a pensare che oltre i colli dilettosi c’era il mondo, pieno di lotte e di commerci turbinosi e c’erano gli uomini che si davano guerra e che si inseguivano divisi e suddivisi a schiere.
Ebbene il poeta vuole rinunciare a vivere in questo mondo, perché sa che la sua poesia da sola non basta a distogliere gli uomini dalla guerra atroce. Ecco, allora, la prima rinuncia: “Meglio fuggire dalla guerra atroce / del piacere, dell’oro, dell’alloro…/” (vv. 197-198).
Durante un mezzogiorno il poeta parla con Felicita e le confessa il suo desiderio di voler stare con lei e le dice: “Mia cara Signorina, se guarissi,/ ancora, mi vorrebbe per marito?” (vv. 269-270). Ma Felicita diventa imbarazzata per la richiesta e piange. Allora il poeta, dopo aver colto un fuscello, le solletica l’orecchio e lei tutta luminosa nel sorriso gli risponde, trillando un trillo gaio di fringuello: “Non mi teen..ga mai più tali dis…corsi” (v.282). Il poeta prosegue dicendo che sarebbe bello per lui restare a vivere accanto a lei, facendo una vita da mercante, una vita ruvida ma concreta, perché non voleva essere più poeta. Si, poiché, si vergognava di essere poeta: “io mi vergogno/ si, mi vergogno d’essere poeta!” (vv. 306-307). Felicita invece è beata nelle sue faccende, non medita Nietzsche e non vive il male della Filosofia che si attacca negli intellettuali. Ed ecco, allora, la seconda rinuncia: il poeta rinuncia ad essere poeta, rinuncia alla vita letteraria che fa la vita simile alla morte.
Intanto il poeta di sera va a trovare il farmacista che gli aveva presentato Felicita. Nella farmacia, il farmacista dice al poeta, che il notaio è geloso di Felicita ed è furibondo con lui e con il poeta, il quale, inaspettatamente, lo rassicura perché lui in settimana andrà via dal paese. Il poeta, triste e perduto, vaga come un mendicante tra le siepi e i castagneti del canavese, fino a giungere al cancello del cimitero, alla mezzanotte che scoccò lenta e rombante, e la luna gli parve un punto sopra un I gigante (il campanile antico), come afferma nei versi: “La Luna sopra il campanile antico / pareva “un punto sopra un I gigante”“ (vv. 355 – 356).
Gozzano sosta davanti al cancello e invoca i Morti con una sestina piena di una bellezza poetica meravigliosa e sublime, che ricorda sia la discesa di Ulisse nell’Ade, sia il lamento del “Pastore errante dell’Asia” dell’immortale Leopardi: “Voi che posate già sulla riva/ immuni dalla gioia, dallo strazio,/ parlate, o morti, al pellegrino sazio!/ Giova guarire? Giova che si viva?/ O meglio giova l’Ospite furtiva/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 363-368). Ed ecco, allora, la terza rinuncia: la rinuncia alla morte. Il poeta rinuncia alla morte e sceglie di vivere e sceglie la Felicità. Guarda la luna che con le sue luci bizzarre imita gli amanti che si baciano in eterno. Il poeta sceglie di vivere e di fuggire alla morte e per questo farà un altro viaggio, oltre il Marocco, in qualche isoletta esotica per agguantare la felicità
che gli promette il bene che sarà. Nell’ultimo giorno della sua permanenza nel paese di Felicita, il poeta va a salutare la donna, la quale gli promette il suo amore als uo ritorno scrivendo la data 30 – settembre – 1907.
Il poeta guarda il cielo dove stormi di rondini volano e si preparano al rientro nelle terre calde. Gozzano insieme a Felicita guarda le rondini che addestrano le piume ai piccoli rondinini e saluta Felicita che piange nel momento del distacco dal poeta, il quale si mostra un buon sentimentale giovane romantico, ma sa che finge perché non lo è. Ecco la quarta rinuncia: il poeta rinuncia all’Amore di Felicita perché sa che non ritornerà e perché sa che non potrà mai mantenere la promessa di matrimonio con lei, perché lui resterà sempre il gelido sofista e il freddo sognatore di sempre che continuerà a vivere, “già smarrito nei sogni più diversi, accordando le sillabe dei versi/ sul ritmo eguale dell’acciotolio” (vv. 117-120).

Sintesi del poemetto poetico: inizio, sviluppo, conclusione.

Il poemetto inizia con un bel parallelismo retorico: “La sera scende nel giardino antico; il ricordo di Felicita scende nel cuore amico del poeta”. Questo parallelismo retorico, che è quasi una similitudine, introduce il flash-back iniziale. Il poeta, il 10 luglio, il giorno dell’onomastico di Felicita, ricorda la permanenza e la frequenza presso la Vill’Amarena, dove abitava Felicita sola con suo padre. Nella seconda parte del poemetto il poeta parla del padre di Felicita, “Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio -” (v.49), che lo intratteneva con un atto notarile e che sbigottiva quando capiva che il poeta non capiva niente di atti giudiziari, benché si facesse chiamare avvocato. La terza parte del poemetto prosegue con la descrizione fisica di Felicita, che è quasi brutta, indossa vesti quasi campagnole e ha una faccia buona e casalinga che: “ti fanno un tipo di beltà fiamminga…” (v. 78). Ella si mostrava compiacente verso il poeta e nei suoi occhi luceva una blandizie femminina. Certe volte Felicita tratteneva il poeta a cena e durante la partita a carte lui se ne stava in cucina tra gli odori di basilico, d’aglio, di cedrina, scrivendo versi e immergendosi in sogni diversi. Nella quarta parte del poemetto il poeta descrive la visita nel solaio della villa per ammirare la Dama Dannata dipinta in una tela enorme e per guardare, attraverso l’abbaino, il panorama circostante. Infine il poeta insiste per trattenere Felicita nel solaio per guardare insieme il tramonto di fuoco che annunciava la sera canavesana e il crepuscolo serale; Felicita si ribellava e premeva per scendere giù per calmare così il brontolio di Maddalena, dicendo: “scendiamo! E’ tardi! Possono pensare/ che noi si faccia cose poco belle…” (vv. 239-240). Nella quinta parte il poemetto prosegue con una richiesta di matrimonio, di circostanza, del poeta e l’imbarazzo di Felicita che si mette a piangere, ma poi ritorna a sorridere tanto che, conclude il poeta: “Donna: mistero senza fine bello” (vv. 289).
Nella sesta parte del poemetto il poeta desidera vivere come un mercante in oblio come il padr di Felicita e come il farmacista e non vuole più essere poeta, non più l’esteta gelido, il sofista.
Nella settima parte il poeta, dopo il colloquio con il farmacista che gli riferisce la gelosia del notaio, esce a vagabondare in aperta campagna fino allo scoccare della mezzanotte e si ferma davanti al cancello del camposanto: “come s’usa nei libri dei poeti” (v. 362). E qui esorta i morti a volergli svelare il mistero della vita e della morte e li interroga se: “Giova vivere? Giova che si viva?/ O meglio giova l’Ospite furtiva (la Morte)/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?” (vv. 366-368). Il poeta guarda la luna e il chiarore lunare che illumina gli amanti che si baciano in eterno e pensa alla morte che lo spinge a fare un altro viaggio, mentre la felicità gli promette il bene che sarà. Nell’ottava ed ultima parte del poemetto il poeta ritorna a Vill’Amarena a salutare per l’ultima volta Felicita, la quale giura sul suo amore per il poeta e scrive la data memoranda del 30 settembre 1907. Dopo che il poeta si congeda da Felicita e prova un distacco, amaro e senza fine, ma inevitabile, vede che Felicita piange come le donne romantiche che protese da un giardino singhiozzavano per gli amanti che partivano per l’esilio. E in quell’ultimo istante anche il poeta si mostra un buon giovane romantico, ma è solo una finzione perché era cosciente che in realtà non lo era!

Il messaggio del poemetto poetico.

Il messaggio del poemetto è quello ambiguo e ambivalente dell’atteggiamento che ha il poeta di fronte alla vita: da un lato non vuole essere poeta, ma dall’altro sa che è e rimane poeta; da un lato vuole amare Felicita, ma dall’altro lato fugge da lei. Il messaggio del poemetto è, dunque, un messaggio che si dispiega in 434 versi tra due poli che vanno da temi crepuscolari, che descrivono la realtà minuta, malinconica e dettagliata della villa a temi universali che invocano i Morti, o al tema dell’innamoramento tra due giovani che si giurano un desiderato amore, ma che poi, però, non sarà perseguito e mantenuto. La vita, sembra dire il messaggio del poemetto, è difficile: si fanno promesse d’amore che poi nessuno può mantenere, perché è impossibile cambiare la propria natura di uomo e di poeta. Il messaggio del poemetto diventa allora un messaggio triste per la sorte che tocca agli uomini, sempre più presi da chimere vane e suddivisi in schiere opposte, rosse e nere, intesi all’odio e alle percosse. Il poeta rinuncia all’amore di Felicita perchè non vuole rinunciare alla vita tanto che, per non morire, affronterà un altro viaggio verso terre ignote, ma che dovrebbero dargli un prolungamento di essa (Gozzano partirà per l’India per cercare l’aria salubre per curare la sua tubercolosi); quindi alla fine del poemetto il messaggio diventa positivo: la vita è difficile, ma: “giunse il distacco, amaro senza fine” (v. 423). Il messaggio del poemetto si completa con l’immagine delle rondini, le quali per istinto, intraprendono ogni anno un viaggio verso nuove terre, dove troveranno luoghi e clima più caldi e favorevoli alla loro vita. Come esse addestrano le ali dei rondinini affinché raggiungano, tra tempeste di vento e nell’ampia e sconfinata aria del cielo, nuovi climi tiepidi, così il poeta, il quale ha un animo randagio, affronterà un altro viaggio per arrivare in terre lontane per prolungare la sua vita, perché come si dice chi si ferma è perduto. Il richiamo al carattere randagio del poeta è significativo perché il tema ritorna da un’altra bellissima poesia che Gozzano aveva scritto qualche anno prima, “L’analfabeta”, scritta tra il 1904 e il 1906 e pubblicata ne “La via del rifugio”, dove nei versi 65-68 così scrive: “E la gioia del canto a me randagio/ scintillerebbe come ti scintilla/ nella profondità della pupilla/ il buon sorriso immune dal contagio”.
La tesi del poemetto.

La tesi del poemetto è quella di un messaggio forte a tutta l’umanità da parte di un giovane, e malato poeta, che già sapeva di dover morire presto. E così è stato: Guido Gozzano è morto molto giovane, appena trentatreenne, per cui si può dire che la sua favola bella è durata lo spazio di un mattino. Molti sono i versi nei quali Gozzano preannunzia, con riferimento ai versi del Petrarca, la brevità della sua vita; secondo me, i più significativi sono nella breve, ma densa, poesia “Salvezza”, che è la XII poesia dell’opera “I Colloqui I”: “Vivere cinque ore?/ vivere cinque età?…/ Benedetto il sopore/ che m’addormenterà…/ Ho goduto il risveglio/ dell’anima leggera:/ meglio dormire, meglio/ prima della mia sera./ Poi che non ha ritorno/ il riso mattutino./ La bellezza del giorno/ è tutta nel mattino”. La tesi del poemetto è una invocazione ai Morti, come nei versi 363-368 (tra i più belli di tutta la letteratura italiana), ma soprattutto è un inno alla vita agli uomini. La luna guarda gli uomini, intenti all’odio e alle percosse, e guarda impotente, sia i cristiani sia gli atei, e vede che essi sono condannati alla guerra continua. Il poeta ha paura del mondo e allora rinuncia ad esso; rinuncia alla lotta per l’oro e per l’alloro, mondo crudele simboleggiato dall’atropo soletto e prigioniero. L’atropo è l’Acherontia Atropos, farfalla detta comunemente sfinge o testa di morto, perché porta il segno di un teschio sul dorso, la quale dà un senso di mistero che bisogna sentire, indefinibile, incomunicabile a parole, un senso che nemmeno la musica, nemmeno la poesia – nemmeno la poesia – può riprodurre. (Dalla nota del libro G.Gozzano a cura di Giorgio Barberi Squarotti Edizione BUR a pagina 187).
Dunque la tesi del poemetto è quella di dire ad ogni uomo di essere quello che è, senza cambiare né la natura del carattere, né la personalità, ma di aver chiara la consapevolezza delle difficoltà ad essere uomini e tentare di rispondere alle eterne domande: “Giova guarire? Giova che si viva?”. Ma già il Gozzano stesso, secondo, aveva risposto, in buona parte, a tali domande quando ne “L’analfabeta” aveva dato questa meravigliosa risposta: “E se l’ombra indugia e tu rimuovine/ la tristezza. Il dolore non esiste/ per chi s’innalza verso l’ora triste/ con la forza d’un cuore sempre giovane” (vv. 97-100) oppure quest’altri bei versi sempre della stessa poesia: “Buona è la morte dici e t’avventuri/ serenamente al prossimo congedo” (vv. 155-156).

Il contesto culturale, sociale, filosofico e letterario del poemetto.

Il contesto culturale del poemetto, scritto tra il 1907 il 1909, è quello dell’Italia giolittiana e dannunziana. Il poemetto contiene la sestina nr. 34, aggiunta dopo la prima pubblicazione, che è in diretta polemica con il modello poetico di D’annunzio. D’Annunzio, con i pettegolezzi sulla sua vita, secondo Gozzano, è sempre in prima pagina. Altri spunti sociali del poemetto sono la pirografia sui divani corinzi dell’Impero e la cartina della bella Otero.
Il riferimento filosofico è praticamente quello esplicito a Nietzsche e alla sua filosofia del superuomo, interpretata e divulgata in Italia dal D’annunzio; troviamo questo riferimento nei versi: “e non mediti Nietzsche / Mi piaci. Mi faresti più felice / d’un’intellettuale gemebonda..” (vv. 311 – 313).
Moltissimi sono, invece, i riferimenti letterari: da Dante a Petrarca, dal Carducci al Pascoli, dai miti greci al D’Annunzio. Molti sono anche i passi e le immagini del poeta Francis Jammes e del poeta Alfred de Musset. Il poemetto fa inoltre riferimento a versi dello stesso Gozzano scritti in poesie precedenti: “L’analfabeta”, “I sonetti del ritorno” che aprono la strada alle poesie della terza parte de “I colloqui”, da “Totò Merùmeni” a “I colloqui II”.

Analisi della forma.

Genere del poemetto.
Il poemetto è di genere lirico, scritto in prima persona dal poeta che diventa l’io narrante della fabula. Il poemetto segue l’intreccio del flash-back.

La metrica del poemetto.
La metrica del poemetto è composta da sestine di endecasillabi rimate secondo lo schema ABBAAB con possibile variazione ABABBA.

Le figure retoriche.
Le figure retoriche sono moltissime: il parallelismo iniziale, il polisindeto (vv. 4-6), l’accumulazione (vv. 25-30), la sinestesia (vv. 28-29), la metafora (vv. 21-25), la simbologia (vv. 31-36), la figura etimologica (vv. 42-48), frasi nominali (v. 43), la similitudine (v. 78), l’allitterazione (v. 137), l’inversione, la personificazione (v. 187), la metonimia (v. 198), la paronomasia (v. 198) e perfino una epifonema (v. 289) e una rima al mezzo (v. 391).

Il tono emotivo del poemetto.
Il poemetto è intriso di una dolce malinconia che si sviluppa, dal sentimento di nostalgia iniziale del ricordo di Felicita, alla tristezza del distacco finale. Lungo il percorso il poeta esprime anche un sentimento lieto per il vagheggiamento per Felicita ed esprime anche la speranza per una vita semplice e lontana dalla lotta del mondo e dalla sua aridità sentimentale, perché lui si crede un gelido esteta. Il tono emotivo è, dunque, in certi momenti lieto e fiducioso per una vita nuova e più autentica. Ma ciò è un’utopia perché il poeta sa già che non potrà mai avere una vita semplice e felice, come scrive Romano Luperini: “Semplice, ingenua, priva di cultura la Signorina Felicita incarna un ideale di vita elementare e sana, lontana dagli intellettualismi e dalle astrazioni proprie dell’arte e cui il poeta è legato; ella si offre come una possibile e vitale alternativa all’aridità sentimentale cui Gozzano era costretto dalla formazione culturale e dalla malattia”. (da Poeti Italiani: Il Novecento – Palumbo Editore – pag. 74). Il poemetto si chiude con il dolore profondo del poeta che vaga triste e perduto come un mendicante, con molti e mesti pensieri e pochi lieti sogni, e con il rimpianto di un amore che poteva fiorire e che invece non è fiorito.

La lexis del poemetto.
La lexis del poemetto è, senza dubbio, originale, aulica e personale e rappresenta il modo di scrivere di Gozzano. La lexis di Gozzano è lucida, forbita, accattivante e peculiare., una lexis chiara, semplice, piena di figure retoriche e di rime. Certamente la rima condiziona, limita, confina la lexis del poeta; ma, secondo me, Gozzano è poeta classico (l’ultimo dei classici), che scrive con la rima tutte le sue poesie. Ma la lexis di Gozzano, se pur condizionata dalla rima, riesce ad essere anche una lexis nuova e moderna, perché esprime la visione di vita del poeta: una visione di vita sconsolata e disincantata della realtà.
Nuovo e vecchio sono presenti e convivono nella lexis di Gozzano. Gozzano è l’ultimo dei poeti classici, ma il primo tra i poeti moderni tra cui altri grandissimi come Montale, Corazzini e Ungaretti.

Il linguaggio poetico del poemetto.
Il linguaggio poetico del poemetto è direttamente proporzionale alla lexis di Gozzano. Quanto più spicca la lexis moderna, tanto più diminuisce la vecchia lexis rimata, così quanto più spicca il linguaggio nuovo, tanto più diminuisce il vecchio linguaggio. Nell’intera produzione poetica emerge un italiano medio, alto, forbito e pregiato. Molti critici, da Montale a Sanguineti, hanno insistito sulla novità del linguaggio gozzaniano; Montale per primo ha parlato di scintille: “Infallibile nella scelta delle parole (il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico e il prosaico)”. Dello stesso parere sono sia Romano Luperini che Maurizio Dardano, mentre Giusi Baldissone ne fa addirittura la novità più evidente di Gozzano, così scrive: “Gozzano fa della poesia sulla letteratura, con esiti tecnici sicuramente degni di certi sperimentalismi d’oggi, ma soprattutto instaurando un nuovo rapporto con le parole letterarie…(pagina 10). Gozzano parla sempre di letteratura, del fare letteratura. Tutta la sua poesia, in particolare, è un discorso sulla poesia, sui poeti, sulla rappresentazione della realtà in genere. E’ l’inaugurazione di una poesia di puro metalinguaggio… (pagina 11). Una poesia si può fare dunque anche con tante poesie messe insieme, incastrate come in un puzzle. Divertente, ironico, fine: sì, ma soprattutto disperato (pagina 16)” (da Gozzano Classici Italiani Utet). Infine Giusi Baldissone insiste sull’ironia di Gozzano: “L’ironia è la differenza tra sé e gli altri, tra il passato e il presente, tra la vita e la letteratura..(pagina 22). L’ironia ridistribuisce a ciascuno le sue responsabilità poetiche e alleggerisce Gozzano delle proprie (pagina 24)” (da Gozzano Classici Italiani Utet).
Io, Biagio Carrubba, trovo poca ironia nell’opera poetica di Gozzano e trovo per lo più un tono serio e compito, dato da un linguaggio alto, lirico e classico, poiché mi risulta come la sintesi del linguaggio di Dante e di Petrarca, di Leopardi e di Pascoli in una risultante che è solo gozzaniana. Dunque il linguaggio poetico di Gozzano è classico e nuovo insieme, ma anche personale come scrive Giusi Baldissone a pagina 23: “E’ sufficiente lo scarto di quell’ironia per non sentirsi intrisi dei suddetti veleni, per non essere né il Prati né l’Aleardi ma nemmeno il D’annunzio, il Pascoli ecc..”.

Le espressione poetiche più belle del poemetto.
Le espressione poetiche più belle del poemetto sono diverse: vv. 1 – 4; vv. 117 – 120; vv. 363 – 368; vv. 432 – 434.

La Weltanschauung del poeta.
La Weltanschauung del poeta è espressa chiaramente nei vv. 181- 204, nei vv. 297 – 326 e poi ancora nei vv. 429 – 434. E’ la Weltanschauung di un poeta che vuole rinunciare a vivere in competizione con gli altri, ha paura della vita con gli altri uomini e preferisce starsene da solo nella sua villa appartato, come dice in altre poesie de “I colloqui”, come la poesia “Un’altra risorta”.
La Weltanschauung di Gozzano allora è quello di un poeta che, condizionato dalla malattia, ha una visione della vita sconsolata e disincantata della realtà per cui rinuncia a tutto perfino all’amore sia di Amalia sia di Felicita.

Aspetti estetici del poemetto.
Gli aspetti estetici del poemetto sono molteplici: dal linguaggio forbito e chiaro alla drammaticità di alcuni dialoghi, dalle immagini liriche alla struttura quasi di novella. Gozzano, nei suoi ultimi anni di vita, finisce di scrivere raccolte di poesie e si dedicherà alle novelle e al cinema, ma non rinuncerà a scrivere poesie sparse molto belle. La bellezza poetica del poemetto è data, secondo me, dal tono soffuso e malinconico, dal leggero senso di utopismo che aleggia nel poemetto, dalla consapevolezza del poeta che la vita è piena di difficoltà e di speranze, ma che si può vivere anche senza amore. Si può rinunciare all’amore, ma ciò aumenta la sterilità dei sentimenti che fa diventare la vita simile alla morte.

Commento e valutazioni mie personali.

Io, Biagio Carrubba, amo molto le poesie di Gozzano perché le trovo profonde di pensiero filosofico ed esistenziale e ben curate, levigate ed ordinate. Posso dire che mi trovo molto vicino alle idee di Gozzano perché le mie fedi (culturali, filosofiche, politiche) e speranze sono spente, perché vorrei vivere da solo ma voglio essere circondato dall’amore (come lo sono in questo momento), perché spero e credo in Dio anche se ho molti dubbi sul piano logico. Mi piacciono molto, anche, le poesie sparse di Gozzano tra cui “Nell’abazia di San Giuliano”, “Ah! Difettivi sillogismi”, “L’ipotesi” e tante altre come “La Notte Santa”.
Inoltre concordo perfettamente con queste due considerazioni di Giusi Baldissone, dal libro “Opere di Guido Gozzano” (Utet 1983): la prima considerazione è questa a pagina 9: “Ci sono almeno due consigli che si è tentati di dare a chi voglia leggere Gozzano oggi. Primo, dimenticare il cosiddetto “crepuscolarismo”; secondo, dimenticare D’Annunzio”. La seconda considerazione è quella scritta a pagina 29: “Gozzano è un post-moderno, è l’Arbasino dei salotti torinesi di primo novecento, è quello che alla fine di un movimento poetico, concluso e senza seguito di novità, scopre il metalinguaggio come unica autentica novità, come filo di ricerca verso approdi forse ancora lontani. Questa è, in ultima analisi, la drammatica attualità di Gozzano: l’avere inventato il metalinguaggio come poesia, l’essere e il proporre una poesia di passaggio, in una civiltà poetica che era, ed è nuovamente, di passaggio”. Io, Biagio Carrubba, credo che Gozzano non sia solo un poeta crepuscolare ma è soprattutto un poeta universale poiché nel corso della sua vita, con le sue opere poetiche, ha saputo esprimere tutta la perplessità, la precarietà e le paure dell’uomo di inizio XX secolo e per traslazione, dell’umanità intera.

Introduzione alla poesia “Un’altra risorta”.

La poesia “Un’altra risorta” è la numero 19 dell’opera poetica “I Colloqui”. Questa poesia fu pubblicata da Gozzano sulla “Rivista Ligure” nel febbraio 1910 con il titolo “Novembre” e con la data: Torino, novembre 1909, dove però mancavano i versi dal 19 al 30, che furono aggiunti nella pubblicazione per il libro “I colloqui” nel febbraio del 1911. Questa aggiunta è contemporanea alla stesura di “Totò Merùmeni” poesia che riprende e riafferma tutti i concetti e i sentimenti già espressi in Un’altra risorta cosicché essa vuole costituire il testamento umano e culturale dell’uomo e del poeta Gozzano e chiude “I Colloqui”. Per questo motivo i due testi poetici si possono chiamare poesie gemelle. La figura femminile della poesia è sicuramente Amalia Guglielminetti, la sua ex passione amorosa, ormai già diventata amica stimata ed amata, come si ricava dalle lettere tra i due poeti. La poesia riprende a sua volta l’atteggiamento di Amalia già delineato nella precedente poesia “Una risorta”.
Testo della poesia “Un’altra risorta”.
Solo, errando così come chi erra
Senza meta, un po’ triste, a passi stanchi,
udivo un passo frettoloso ai fianchi;
poi l’ombra apparve, e la conobbi in terra…
Tremante a guisa d’uomo ch’aspetta guerra,
mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi.

Ma fu l’incontro mesto, e non amaro.
Proseguimmo tra l’oro delle acace
del Valentino, camminando a paro.
Ella parlava, tenera, loquace,
del passato, di sé, della sua pace,
del futuro, di me, del giorno chiaro.

“ Che bel Novembre! È come una menzogna
primaverile! E lei, compagno inerte,
se ne va solo per le vie deserte,
col trasognato viso di chi sogna…
Fare bisogna. Vivere bisogna
la bella vita dalle mille offerte”.

“Le mille offerte…Oh! vana fantasia!
Solo in disparte dalla molta gente,
ritrovo i sogni e le mie fedi spente,
solo in disparte l’anima s’oblìa…
Vivo in campagna, con una prozia,
la madre inferma ed uno zio demente.

Sono felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno: il sogno che non varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza rimpianto:
appartenersi, meditare. Canto
l’esilio e la rinuncia volontaria”.

“Ah! Lasci la rinuncia che non dico,
lasci l’esilio a me, lasci l’oblìo
a me che rassegnata già m’avvio
prigioniera del Tempo, del nemico…
Dove lei sale c’è la luce, amico!
Dove scendo c’è l’ombra, amico mio…”.

Ed era lei che mi parlava, quella
che risorgeva dal passato eterno
sulle tepide soglie dell’inverno?…
La quarantina la faceva bella,
diversamente bella: una sorella
buona, dall’occhio tenero materno.

Tacevo, preso dalla grazia immensa
di quel profilo forte che m’adesca;
tra il cupo argento della chioma densa
ella appariva una deità settecentesca…
“ Amico neghittoso” a che mai pensa?”.

“Penso al Petrarca che raggiunto fu
per via, da Laura, com’io son da Lei…
Sorrise, rise discoprendo i bei
denti….” Che Laura in fior di gioventù!…
Irriverente!.. Pensi invece ai miei
capelli grigi… Non mi tingo più”.

Parafrasi della poesia.

Vagando solo così come chi erra
senza meta, un po’ triste, a passi lenti,
udivo un passo frettoloso ai lati;
poi l’ombra apparve e la riconobbi.
Attento come chi è pronto a far guerra
mi volsi e vidi i suoi capelli bianchi.

L’incontro fu triste ma non litigioso.
Proseguimmo tra le foglie delle acacie
del Valentino, camminando a lato.
Lei, tenera e loquace, parlava
del passato, di sé, della sua pace,
del futuro, di me, del giorno chiaro.

(Amalia dice al poeta:)
“ Che bel novembre: è come una menzogna
primaverile! E lei, compagno inerte,
se ne va solo per le strade deserte,
con il viso trasognato di chi sogna…
Bisogna fare, agire. Bisogna vivere
la bella vita dalle mille offerte”.

(Il poeta risponde ad Amalia:)
“Le mille offerte… Oh! Vana fantasia!
Io ritrovo solo e in disparte
i sogni e le mie fedi spente,
solo e appartato l’anima dimentica…
Vivo in campagna, con una prozia,
la madre inferma ed uno zio demente.

Sono felice. La mia vita è così
simile al mio sogno; il sogno che non cambia:
vivere in una villa solitaria,
senza più passato, senza rimpianti:
appartenersi, meditare…Canto
l’esilio e la rinuncia volontaria”.

(Amalia risponde al poeta:)
“Ah! Lasci la rinuncia che non dico,
scegli l’esilio a me, preferisci l’oblìo
a me, che rassegnata già m’avvio
prigioniera del tempo, della vecchiaia…
Dove Lei (la vecchiaia) sale c’è la luce, amico!
Dove io scendo c’è l’ombra, amico mio!..”.

Ed era lei che mi parlava, quella
che risorgeva dal passato lontano,
sulle soglie tiepide dell’inverno?…
La quarantina la faceva bella,
nuovamente bella: una sorella
buona, dall’occhio tenero materno.

Io tacevo, poiché ero preso dalla sua grazia
da quel profilo forte che mi seduceva;
ella appariva giovane e fresca
tra il grigio-argento dei capelli folti
come una deità settecentesca…
Amalia dice: “Amico inoperoso,
a che cosa sta pensando?”.

(Il poeta risponde:)
“Penso al Petrarca che fu raggiunto
per via da Laura, come io son raggiunto da lei”.
Amalia sorrise, rise discoprendo i bei
denti…e risponde: “Che Laura giovane, in fior di gioventù!
Irrispettoso! …Pensi invece ai miei
capelli grigi che non tingo più”.

Il tema della poesia.

Il tema della poesia è certamente la ricerca della felicità tra i due protagonisti della poesia, ognuno dei quali sceglie strade diverse e completamente opposte. Il poeta sceglie la vita della solitudine e dello studio, rinunciando ad inserirsi nella vita attiva della società borghese, mentre Amalia sceglie la vita del bel mondo sociale che le offre mille offerte ed opportunità che lei vuole godersi in pieno. Il poeta sceglie la vita dello studioso, nella quale legge, studia, ozia filosofando, mentre Amalia opta per una vita concreta, prativa, attiva, operosa, corporale, gaudente, per provare tutte le gioie che la bella vita dalle mille offerte le offre per soddisfare quei desideri che ancora non ha realizzato e vivere “ancora sogno una aurora/ che gli occhi miei non videro” (vv. 41-42 della poesia “Una risorta”). Il poeta sceglie una vita da cenobita, come colui che vive solo per sé stesso per meditare lontano dalla gente, in silenzio e lontano dai frastuoni e dalla guerra economica all’opposto di chi è costretto a vivere nella società borghese. Il poeta può permettersi il ritiro nella sua villa solitaria perché è proprietario di essa e perché la rendita economica di poeta glielo permette, mentre chi non è poeta per natura deve provvedere con le altre capacità, mentali e fisiche. Il poeta dice di essere felice perché la sua vita è tanto simile al suo sogno e riconferma questa sua scelta anche nella poesia “Totò Merùmeni” che così termina: “Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,/ quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima./ Chiuso in se stesso, medita, s’accresce, esplora, intende/ la vita dello Spirito che non intese prima./ Perché la voce è poca e l’arte prediletta/ immensa, perché il tempo – mentre ch’io parlo! – va,/ Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta./ E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà” (vv. 53-60). Ma il poeta viene subito ripreso da Amalia, la quale lo rimbrotta perché gli dice che con quella rinuncia lui perde molte cose belle, in primo luogo l’amore di lei, e poi la scelta di una vita solitaria e romita che lo fa diventare un uomo morto al mondo. Dopo l’ultima domanda di Amalia: “Amico neghittoso a che mai pensa?” (vv. 48), il poeta ha ancora un ultimo sussulto di orgoglio e le dice che lui vive di un amore poetico, paragonandosi al Petrarca giovane, raggiunto da Laura, così come lui è stato raggiunto dall’amore di Amalia. Ma Amalia lo riprende ancora una volta dicendogli che anziché pensare a Laura sarebbe meglio pensare alla vita che passa inesorabilmente e a lei che sta terribilmente ed inevitabilmente invecchiando e per constatare questo non deve fare altro che guardare i capelli grigi che non tinge più.
Ecco dunque il tema della poesia: tis àristos bios cioè quale è la forma migliore di vita per essere felici.
Io, Biagio Carrubba, pernso che entrambi i protagonisti abbiano ragione: la vita del poeta è bella perché la vita contemplativa e meditativa riempie l’anima di conoscenze e di una felicità spirituale a cui è impossibile rinunciare; invece, la vita di Amalia è bella perché la vita attiva e sessualmente appagante riempie il corpo e i sensi di una felicità appercettiva a cui è impossibile rinunciare, cosicché la miglior vita (tis àristos bios) è quella che unifica, sintetizza, fonde e realizza la vita meditativa e la vita attiva e sessuale, prendendo il meglio delle due vite e lasciando le manchevolezze di esse. Non è possibile scegliere tra ragione e sentimento: sono necessari entrambi. La vita bella è sintesi di ragione, sentimenti e sesso. Oggi io non potrei vivere più senza la vita meditativa e senza le poesie, ma non potrei vivere nemmeno senza l’amore affettivo e senza il sesso poiché la vita senza di essi diventa davvero povera, deprivata e deprimente tanto che sarebbe molto difficile vivere. Come si suol dire, vivere la magnifica vita d’amore e di poesia.

Sintesi della poesia: inizio, sviluppo e conclusione della poesia.

La poesia riporta il dialogo e descrive l’incontro, un po’ inaspettato, tra il poeta ed Amalia Guglielminetti, sua amica amata e sua ex amante, forse dopo un burrascoso litigio. La poesia inizia con la prima scena nella quale il poeta vaga, tutto da solo, per le vie di Torino, senza meta e un po’ triste, quando all’improvviso sente un passo frettoloso che lo affianca. Guarda l’ombra e la riconosce. Si volge e vede i suoi capelli bianchi. I due si mettono a parlare tra gli alberi del Valentino, camminando a paro. Lei parla continuamente di sé, del passato, di lui, del futuro, quando ad un certo momento lo apostrofa dicendogli: “E lei, compagno inerte, / se ne va solo per le vie deserte,/ col trasognato viso di chi sogna…/ fare bisogna, vivere bisogna, la bella vita dalle mille offerte” (vv. 14 – 19). Il poeta è toccato in prima persona da questo rimprovero e risponde dicendole che lui è felice perché conduce la vita che ha sempre sognato di fare e cioè: “vivere in una villa solitaria,/ senza passato più, senza rimpianto:/ appartenersi, meditare… Canto / l’esilio e la rinuncia volontaria” (vv. 27 – 30). Amalia subito gli risponde che lui lascia il suo amore, preferisce una vita solitaria e sarà dimenticato da tutti, mentre lei si avvia alla maturità, un’età piena di ombre. Il poeta ora l’ascolta, la guarda affascinato dalla bellezza matura di lei, che diventava sempre più amica buona, quasi una sorella dall’occhio tenero materno. Il poeta tace affascinato dalla grazia di lei che gli appariva giovane e fresca; all’ultima domanda di Amalia su che cosa stesse pensando, il poeta le risponde che stava pensando a Laura, che aveva fatto innamorare il Petrarca giovane, così come Amalia aveva fatto innamorare lui giovane. Amalia allora accorgendosi che il poeta era tutto preso dalla sua vita di poeta e cioè fuori dalla vita reale e fuori dal tempo lo rimprovera un’altra volta cercando di riportarlo alla triste realtà di lei che stava invecchiando e alla velocità del tempo che passa cosicché il poeta non gode le cose belle della vita e, un pò risentita e infastidita, così gli risponde: “Che Laura in fior di gioventù! Irriverente…Pensi invece ai miei capelli grigi … Non mi tingo più” (vv. 52 – 54).

Il messaggio della poesia.

Il messaggio della poesia è chiaro, semplice e proferito con voce alta, forte e quasi stizzito, da Amalia, quando dice: “Fare bisogna. Vivere bisogna/ la bella vita dalle mille offerte”. Bellissimi versi che riprendono in termini moderni e con parole nuove i celebri versi del “Carpe Diem” di Orazio Flacco. A questo messaggio antico il poeta vuole aggiungere però il suo pensiero personale: è necessario meditare, appartenersi, vivere in disparte dalla molta gente e chiuso in se stesso, meditare, intendere la vita dello spirito, perché “ars longa, vita brevis”, perché il tempo vola. Ma la meditazione non basta; è necessario non vivere solo di poesia e di amori letterari perché il tempo, trascorrendo veloce, travolge ogni amore, trasforma e distrugge ogni cosa, imbianca i capelli e fa invecchiare e fa appassire la bellezza delle donne.
Su questo argomento non posso non riportare il bellissimo sonetto che Gozzano aveva scritto e pubblicato sulla rivista “Il Piemonte” il 24 dicembre 1904. Esso è il terzo sonetto di quattro dal titolo “Domani”.

per l’amico Silla Martini de Valle Aperta.

Perché morire? La città risplende
in novembre di faci lusinghiere;
e molli chiome avrem per origliere,
bendati gli occhi dalle dolci bende.

Dopo la tregua è dolce risapere
coppe obliate e trepide vicende-
bendati gli occhi dalle dolci bende –
novellamente intessere al Piacere.

Ma pur cantando il canto di Mimnermo
sento che morta è l’Ellade serena
in questo giorno triste ed autunnale.

E l’anima trema nell’enigma eterno;
fratello, soffro la tua stessa pena:
attendo un’Alba e non so dirti quale.

La tesi della poesia.

La tesi della poesia è senz’altro il contrasto tra la bella vita dalle mille offerte e la considerazione e la riflessione che il poeta ne fa subito dopo: “Le mille offerte…Oh! Vana fantasia” (v. 19). Dunque Gozzano non crede alla vita attiva e pratica di tutti giorni e non crede che la gente possa offrire mille occasioni di piaceri. Egli invece si ritira nella sua campagna a fare una vita da cenobita. Egli canta il suo esilio in una villa solitaria lontano dalla molta gente, perché non riesce a lavorare come fanno tutti gli altri e perché si vuol tenere lontano dalla società borghese così dipinta nella bella poesia “Pioggia d’agosto”: “Lotte brutali d’appetiti avversi / dove l’anima putre e non s’appaga…” (vv. 25 – 26) e molto più diffusamente descritta nelle 31ª, 32ª, 33ª, 34ª strofe del poemetto “La signorina Felicita ovvero la Felicità”. Ma è Amalia che gli ricorda cosa perde ritirandosi nella sua villa: per prima cosa il piacere dell’amore di lei e poi la sua scelta di ritirarsi nella sua villa avrà la conseguenza di farlo dimenticato nel tempo dagli altri che sì, possono portare guai e danni, ma possono portare anche amore e felicità. Lo scontro tra le due Weltanschauung non potrebbe essere più inconciliabile e infatti non vi fu più conciliazione, tra i due protagonisti della poesia, sia nella poesia sia nella vita reale.

Contesto sociale, culturale, filosofico e letterario della poesia.

La poesia fa parecchi riferimenti sociali: Torino, dove c’è il “parco del Valentino”, e poi la sua villa. La poesia inoltre richiama il clima del 1910 e parla di un tiepido novembre tanto che sembra un mese primaverile. Il contesto culturale si riferisce alla cultura del poeta, a quella del primo decennio del XX secolo e alla Weltanschauung di Amalia che prenderà una strada diversa da quella del poeta. Il contesto filosofico è quello tre due visioni di vita opposte: quella del poeta dedita all’estetismo nemesi del grande D’annunzio come conferma nella poesia “Totò Merùmeni” quando scrive: “Totò non può sentire. Un lento male indomo/ inaridì le fonti prime del sentimento; / l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo / ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento” (vv. 45 – 48); la visione di vita di Amalia Guglielminetti, invece, si avvicina al futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. Il contesto letterario è notevole perché parecchi sono i riferimenti letterari: prima di tutto l’inizio della poesia è una palese reminiscenza di due sonetti petrarcheschi; poi c’è il riferimento a D’Annunzio e infine uno a Pascoli. La poesia termina con un diretto riferimento alla vita del Petrarca che amò la bella Laura, la quale però non ricambio l’amore del poeta il quale se ne dolse per tutta la vita e ne cantò l’amaro innamoramento nel famoso “Canzoniere”; invece Gozzano amò Amalia e per un breve periodo fu ricambiato fino a che la malattia lo allontanò da lei come dice Marziano Guglielminetti: “Tanto più che la Guglielminetti, stando alle lettere scambiatesi tra di loro, incarnava nei suoi versi e nel suo modo di fare quel tipo preraffaellita di vergine da profanare tanto caro al D’Annunzio prima delle Laude. Ecco perché fu questa donna a diventare, d’ora in poi, l’ispiratrice pressoché unica della poesia di Gozzano: perché portava su di sé, vivente, le stigmate preziose e venerabili della letteratura, allo stesso titolo che le portava, già nel nome goethiano, la fittizia Carlotta dell’amica di nonna Speranza” (dall’introduzione Guido Gozzano – Tutte le poesie – Edizione I Meridiani – Arnoldo Mondadori Editore – Pag. XX).

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Modica 22 gennaio 2019                                                                                         Prof. Biagio Carrubba.

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