Cesare Pavese. LA LUNA E I FALÒ

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Cesare Pavese
LA LUNA E I FALÒ

“LA LUNA E I FALÒ” è un romanzo biografico, e non autobiografico, anche se il protagonista del romanzo è l’alter ego di Cesare Pavese. Il romanzo rientra nel genere realistico – simbolico ma anche in quello di ambiente naturalistico in quanto descrive ampiamente le langhe piemontesi. Il romanzo racconta in prima persona (auto diegetico) la storia di un uomo che agli inizi degli anni ’30 emigra negli Usa e poi, nel 1947, ritorna nella sua terra di origine, le langhe cuneesi, e ripercorre e riscopre la sua vita, dalla nascita a tutta la sua adolescenza fino al momento della sua partenza per gli Usa. L’epigrafe del romanzo è “for C. Ripeness in all” (per Costance. La maturità è tutto). (Tutte le citazioni riportate nella sintesi dei vari capitoli sono tratte dal libro “La luna e i falò” – ed. Einaudi)

Capitolo I

Il libro inizia con un monologo interiore del protagonista che dice perché è rientrato in un particolare paese delle langhe e non in un altro vicino. Infatti il protagonista avrebbe potuto scegliere anche Canelli, Barbaresco o Alba poiché non conosceva il paese dove era nato in quanto non aveva mai conosciuto i genitori ed era stato lasciato sulle scale del duomo di Alba e da lì in un orfanotrofio da dove era stato prelevato da una famiglia di Gaminella. Inizia da questo momento un lungo e continuo flashback del protagonista che continuamente passa dal presente al passato e dal passato al presente. Questa è una caratteristica costante di tutto il libro. La famiglia che lo aveva adottato era formata da Virgilia, Padrino e altre due figlie ma lo avevano “preso ed allevato” (pag. 9) soltanto per la “mesata” (pag. 9) che l’ospedale di Alessandria gli passava. Il protagonista rimase con questa famiglia fino all’età di 13 anni quando, nel 1921, andò ad abitare come servitore “alla cascina della Mora” (pag. 12) dove rimase a lavorare fino al compimento del diciottesimo anno di età quando partì per il servizio militare, a Genova. Alla cascina della Mora conobbe Nuto, il suo amico del Salto, che era più grande di 3 anni, il quale trascorreva molte sere a suonare con il suo clarino alla Cascina della Mora per allietare le serate all’interno del cortile. Il protagonista ora che è ritornato dice che gli piace ricordare la sua infanzia, i tempi della Mora e tutta la sua giovinezza. Il protagonista ricorda anche con piacere la strada per Canelli e le persone che passavano in quella strada. Per il protagonista “le collinette di Canelli sono la porta del mondo” (pag. 13).

Capitolo II

Durante l’estate del 1948 il protagonista alloggia all’albergo dell’angelo del paese (Santo Stefano Belbo) dove il suo amico Nuto, anch’egli ormai adulto, lo va a trovare. Sia Nuto che il protagonista ricordano il passato e il protagonista chiede a Nuto come mai avesse smesso di suonare e perché adesso faceva soltanto il falegname. Nuto risponde che la musica “Diventa un vizio, bisogna smettere” (pag. 17). Nuto invece chiede al protagonista se fosse andato a rivedere la cascina della Mora ma il protagonista gli rispose di non averlo ancora fatto ma che ci sarebbe andato a breve.

Capitolo III

Il protagonista dice che aveva sentito parlare di Nuto già nei primi anni del suo soggiorno in America quando un altro emigrante di Bubbio, un altro paese delle langhe piemontesi, che si trovava di passaggio dove lavorava lui, gli raccontò che l’anno precedente c’era stata una gara tra le bande musicali dei paesi delle langhe e Nuto era stato il più bravo. Il protagonista dice che in quel periodo aveva una fidanzata ma la grandezza di quei territori gli metteva paura e si rendeva conto che la gente del luogo non si sentiva sicura a vivere in quegli ampi spazi e lui un giorno se ne sarebbe andato.

Capitolo IV

Nuto va a trovare il protagonista nel suo albergo e gli dice che secondo lui c’è un destino per tutti e “A tutti qualcosa tocca” (pag. 26). Nuto gli dice che il mondo è sbagliato e bisogna cambiarlo e che non è giusto che vi sia chi ha tutto e chi ha niente. Al che il protagonista risponde che alla fine della guerra, nel 1945, i comunisti avrebbero potuto cambiare l’Italia. Nuto gli risponde che, invece, tutto è rimasto invariato.

Capitolo V

Il protagonista si rende conto del caldo che fa in quel mese di agosto e si rende conto anche che nessuno in quel paese ormai lo conosce. Un giorno tramite Nuto conosce il nuovo mezzadro del casotto della Gaminella, “il vecchio Valino” (pag. 30). Un pomeriggio il protagonista va a vedere il casotto della Gaminella dove vede un ragazzo seduto per terra il quale gli fa ricordare la sua infanzia trascorsa nel casotto. Dal casotto uscirono anche due donne. Il ragazzo si alzò da terra e il protagonista vide che era zoppo e rachitico e aveva non più di 10 anni. “Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso” (pag. 32).

Capitolo VI

Il protagonista va a cercare Valino a riva, seguito da Cinto, il ragazzetto di 10 anni. I due trovano Valino che rimane indifferente allo sconosciuto. Intanto il protagonista osserva i cambiamenti avvenuti nelle colture del posto e pensa che “Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale” (pag. 36). Ricorda anche quando in quei luoghi andava a fare pascolare la capra. Cinto gli dice che da poco, in quella riva, era stato ritrovato un tedesco morto.

Capitolo VII

Il protagonista e Valino discutono sulla guerra e poi quando vanno via il protagonista ricomincia a parlare con Cinto per fargli capire che conosceva quei luoghi.

Capitolo VIII

In questo capitolo il protagonista racconta una discussione con una persona anziana chiamata il Cavaliere il quale racconta al protagonista tutta la sua vita.

Capitolo IX

Il protagonista rivede nuovamente Cinto al quale chiede se in quella zona facessero i falò. Cinto gli risponde che i falò fanno bene alla campagna. Poi il protagonista riparla con Nuto di Cinto e secondo il protagonista Cinto doveva cavarsela da solo e “finchè non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre” (pag. 50). Il protagonista chiede a Nuto se anche lui credesse ai falò e alla luna. Nuto risponde che lui credeva all’azione benefica dei falò e soprattutto credeva alla luna che favorisce o sfavorisce il lavoro dei contadini e che non c’era da meravigliarsi su questi discorsi. Secondo Nuto non era superstizione pensare alla luna e ai falò come fattori importanti nella tradizione contadina.

Capitolo X

Il protagonista ricorda sempre la sua infanzia e la sua giovinezza e oggi alcuni lo chiamavano nuovamente “quello del Mora” (pag. 55). Il protagonista seppe che la prima moglie di Valino era morta e che ora questi dormiva con la sorella della moglie e che Valino aveva un carattere violento. Infatti Valino frustava sia la cognata che Cinto.
Un giorno il protagonista va a Canelli per sbrigare sue faccende economiche e rimane entusiasta dello sviluppo avuto dalla città. Ripensando al discorso con Nuto, il protagonista si rende conto di non credere alla luna. Nuto dice al protagonista che avevano trovato due morti repubblichini “Sui pianori di Gaminella” (pag. 58)

Capitolo XI

In questo undicesimo capitolo, il protagonista ripercorre le sue disavventure negli Usa dove prima aveva fatto l’operaio in ferrovia e poi aveva comprato un camioncino dove trasportava dei liquori. Una volta voleva andare verso il Sud, verso il Messico, ma il camioncino “si impannò in aperta campagna” (pag. 60). Il protagonista rimase da solo in quella desolata prateria ed ebbe paura sia dell’ampiezza del territorio sia della luna che “pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura” (pag. 63).

Capitolo XII

In questo capitolo alcuni abitanti di Gaminella accusavano i partigiani di essere gli assassini dei due repubblichini e che la colpa della guerra e della morte di molti cittadini della zona era dei comunisti e dei partigiani. Il parroco fece una predica contro i partigiani e lanciò un “anatema contro i rossi” (pag. 66).

Capitolo XIII

In questo capitolo il protagonista parla nuovamente con Nuto della guerra e l’amico gli dice che i partigiani sono stati dappertutto. Il protagonista chiede a Nuto come fosse morte l’ultima figlia del padrone della Mora, sor Matteo.

Capitolo XIV

Il protagonista confessa che, dopo tanti anni di emigrazione, era ritornato per rivedere tutte le persone che aveva conosciuto e frequentato durante la sua permanenza alla Mora. Ma ora quelle facce e quelle voci non c’erano più. Si sentiva che veniva da lontano e che il mondo lo aveva cambiato. Il protagonista racconta l’anno in cui Padrino e la moglie si trasferirono a Cossano e lui per intercessione del parroco andò a lavorare come servitore nella cascina della Mora. Lì lo accolsero Cirino il servitore, il massaro Lanzone e gli altri camerieri, Emilia e Serafina. “Chi mi disse che sembravo un’anguilla fu l’Emilia” (pag. 78).

Capitolo XV

In questo capitolo il protagonista racconta che nella cascina imparò a fare oltre al servitore anche il contadino, “a trattare i manzi” (pag. 80) e a lavorare le vigne. Poi il protagonista racconta in breve la storia del sor Matteo che aveva ereditato la cascina dal padre e che aveva ampliato e maggiormente utilizzata con tanto lavoro e commercio. Sor Matteo aveva avuto due figlie dalla prima moglie, Irene e Silvia, e da poco aveva avuto la terza figlia, Santa, dalla seconda moglie.

Capitolo XVI

Il protagonista viene a conoscenza della vita magra di Valino e del suo carattere irascibile. La famiglia di Valino aveva un cane a cui non davano da mangiare e che “abbaiava alla luna che gli pareva la polenta” (pag. 85). Un giorno Nuto doveva riparare una tina di Valino e il protagonista va con lui e riesce ad entrare nel casotto della sua infanzia.

Capitolo XVII

Nuto e il protagonista ricordano di quando si conobbero la prima volta e il protagonista descrive il carattere di Nuto, espansivo e gioviale. Nuto sapeva già suonare a quell’età e parlava con tutti, anche con lui appena arrivato. Era Nuto che gli spiegava, in quegli anni, come doveva comportarsi e come era fatto il mondo e molte volte insieme arraffavano una bottiglia in cantina e la bevevano alla bocca discorrendo di ragazze.

Capitolo XVIII

In questo capitolo il protagonista racconta di quando il sor Matteo gli promise una paga mensile come gli altri servitori e lui fu molto felice di essere aggiustato come gli adulti. Il protagonista dice che i primi soldi che ricevette li spese tutti al tiro a segno.

Capitolo XIX

Un giorno Cinto andò a trovare il protagonista all’albergo dell’angelo. Il protagonista gli comprò un coltello nella fiera della piazza. Cinto scelse il coltello e poi se ne andò con suo padre che lo venne a prendere. Il protagonista confessa che avrebbe voluto vedere il mondo con gli occhi di Cinto e lo invidiava. Il protagonista anche se non era stato zoppo comunque adesso invidiava Cinto. “Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza” (pag. 100)

Capitolo XX

In questo capitolo il protagonista racconta di quando con Nuto andavano sui Coppi a leggere vecchi libri del sor Matteo e sentivano, dal terrazzo, che Irene, la bionda, suonava il pianoforte e cantava. Anche Nuto ogni tanto andava a trovare Irene per ascoltarla suonare sul pianoforte. Comunque il protagonista confessa che le due figlie di sor Matteo, Irene e Silvia, erano inarrivabili per lui, per bellezza, età e condizione sociale. Malgrado questa certezza il protagonista occhieggiava le due ragazze con invidia e simpatia.

Capitolo XXI

In questo capitolo il protagonista racconta di quando andò a prestare il servizio militare, a Genova dove conobbe una giovane donna, Teresa, che lo consigliava e gli voleva bene. Il protagonista ricorda che negli Usa aveva conosciuto una maestra, Rosanne, con la quale si era fidanzato e stava per sposarsi. Lei aveva il desiderio di essere fotografata per diventare famosa. Rosanne non beveva ma consigliò al protagonista di fabbricare “il prohibition-time gin, il liquore del tempo clandestino, per chi ci avesse ancora gusto – e furono molti” (pag. 112). Ma Rosanne lasciò il protagonista e non ritornò a casa sua ma andò nella Costa e “non uscì mai sui giornali a colori” (pag. 114). Da quel momento il protagonista non seppe più nulla di Rosanne.

Capitolo XXII

In questo capitolo il protagonista racconta le pene d’amore e il disagio che provavano le due figlie di sor Matteo quando non venivano invitate da una contessa di Genova, che abitava nella cascina del Nido, vicino Canelli. Il protagonista racconta la storia di questa contessa che proveniva da Genova, si era sposata con un ufficiale francese ed era rimasta una vedova ricca e manteneva molti nipoti. Quando la vecchia contessa non le invitava nella sua cascina per le sue feste, le due figlie di sor Matteo ne soffrivano.

Capitolo XXIII

Il protagonista comincia a raccontare la storia di Irene e Silvia che erano frequentate da un giovane, Arturo, che abitava vicino a loro. Arturo cominciò a frequentare la loro casa dove portava anche un suo amico. Il protagonista sentiva dalla terrazza le chiacchiere e le risate dei quattro giovani e ne provava invidia perché non si sentiva all’altezza di loro quattro. La sera i quattro uscivano sullo stradone della cascina e tutti gli altri li guardavano “seduti sul trave, nell’odore fortissimo dei tigli” (pag. 125).

Capitolo XXIV

Irene si era innamorata di un nipote della vecchia contessa e soffriva per lui e quindi smaniava per andare sempre nella cascina del Nido a trovare il suo Cesarino. Invece Silvia si mise con uno di Crevalcuore con cui girava in motocicletta in molti luoghi della zona. “A volte andavano anche a Nizza all’albergo” (pag. 129). Il protagonista guardava sempre con ammirazione la vita delle due sorelle che lui continuava a desiderare e sulle quali fantasticava.

Capitolo XXV

Irene soffriva per Cesarino, il nipote della contessa, mentre Silvia continuava la sua storia con il giovane di Crevalcuore, Matteo, e iniziò “a imparare a montare il cavallo e correre con gli altri” (pag. 133). Il protagonista guardava Silvia per scoprire i segni che le lasciava Matteo ma per quanto la guardasse attentamente non notava differenze, nel viso e nel corpo della giovane.
A novembre di quell’anno Irene si ammalò di tifo e fu curata per due mesi.

Capitolo XXVI.

In questo capitolo Nuto chiede al protagonista come mai fosse andato negli Usa e il protagonista risponde che non fu tanto la voglia di andare lì quanto la voglia di riscattare la sua situazione di servitore. Quando era a Genova, dopo il servizio militare, cominciò a frequentare alcuni giovani compagni e quando molti di questi furono catturati lui ne parlò con Teresa che gli trovò “un posto di fatica su un bastimento che andava in America” (pag. 139). Intanto videro arrivare Cinto che, arrancando e ansimando, li cercava.

Capitolo XXVII

Cinto raccontò a lui e a Nuto che la Madama della villa era andata da loro per spartire il raccolto. Valino ritornò la sera nero e torvo nel volto e prese a calci la cognata fino ad uccidere lei e la madre di lei. Valino uscì fuori e diede fuoco con la lampada al fienile, alla paglia e a tutto il casotto. Cinto scappò nella riva con il coltello. Valino lo chiamò diverse volte e lui scappò diverse volte. Alla fine quando Cinto ritornò nel casotto vide, dalla volta del noce, “pendere i piedi di suo padre, e la scaletta per terra” (pag. 144). Il protagonista disse a Nuto che dovevano pensare loro al futuro di Cinto.

Capitolo XXVIII

Irene non morì di tifo e a gennaio guarì. Subito dopo ricomparvero anche Santa e Silvia che durante la malattia della sorella erano andate via di casa. Nel frattempo Silvia continuò la sua storia con Matteo di Crevalcuore. Ma subito dopo Matteo prese un’altra donna e lasciò Silvia che si mise con un ragioniere di Canelli. Ma nel frattempo Silvia conobbe un uomo che veniva da Milano e “s’incontrava con lui in una villa di conoscenti e ci facevano le merende” (pag. 149). Ma questo milanese, di nome Lugli, che era ben vestito, un giorno abbandonò tutti lasciando grossi debiti. Al che Silvia si ribellò e seppe che era andato a Genova. Silvia con i pochi soldi che aveva a casa andò a trovarlo a Genova ma non trovò nessuno e soffrì la fame. Il mese dopo il Sor Matteo la riportò a casa “ma stavolta Silvia era incinta davvero” (pag. 151).

Capitolo XXIX

Irene seppe che il palazzo del nido era stato chiuso e che il suo Cesarino era andato via senza cercarla.
Il protagonista continua a leggere per darsi una cultura e riflette sulle parole di Nuto che diceva “che il sangue è rosso dappertutto” (pag. 154). Intanto Silvia, dopo essere ritornata da Genova, andò un giorno da una levatrice di Costigliole per farsi ripulire. Silvia, qualche giorno dopo, nel giugno del 1925, “Morì senza dire una parola né al prete né agli altri, chiamava soltanto papà a voce bassa”. (Pag. 155).
Sor Matteo che non seppe niente della morte della figlia sentì la litania del prete e cercò di dire che non era ancora morto. Adesso Arturo che frequentava sempre la casa del Sor Matteo strinse di più con Irene che lo sposò nel novembre del 1926 soltanto per andarsene da casa e “per non sentire la matrigna brontolare e far scene” (pag. 156). Irene pensava di andare fuori dalla sua cascina ma invece rimase lì a fare le flanelle al padre. L’anno dopo Arturo la portò in una casa a Nizza in una stanza dove la batteva.

Capitolo XXX

In questo capitolo il protagonista racconta un episodio accaduto quando aveva sedici anni, nel 1924, quando portò Irene e Silvia alla festa del buon consiglio. Le due splendide ragazze passarono una bella serata insieme ad altri amici e lui, dopo averle accompagnate, le guardava con ammirazione ed invidia perché voleva essere un giovanotto in mezzo alle due fanciulle. Dopo la festa il protagonista riaccompagnò a casa Irene e Silvia a notte tarda.

Capitolo XXXI

Il protagonista disse a Nuto che Cinto doveva rimanere nella falegnameria di Nuto ad imparare un mestiere. Dopo il protagonista gli avrebbe trovato un posto di lavoro a Genova. Il protagonista disse a Nuto che a breve “Magari m’imbarco – gli dissi, – ritorno per la festa un altr’anno” (pag. 163). Nuto invitò il protagonista a salire sulla cima della Gaminella e ambedue si soffermarono a guardare i sentieri della cima. A un certo punto Nuto cominciò a parlare di Santa che, dopo la morte della madre, era andata ad abitare a Canelli dove faceva la maestra. Era molto bella e si impiegò nella casa del fascio. Era così bionda e così fina che stava bene a girare nelle case dei signori. Poi dopo l’estate del 1943 e l’inizio della Repubblica di Salò Santa era scappata per un breve periodo con il suo capo popolo ad Alessandria, ma continuò a vivere a Canelli “si ubriacava ed andava a letto con le brigate nere” (pag. 167).

Capitolo XXXII

Nuto dice che vedeva Santa molte volte a Canelli e una volta lei lo invitò a parlare dentro un bar. Nuto non ebbe il coraggio di dire a Santa di fare la spia per i partigiani ma l’idea venne a Santa stessa che cominciò a riferire a Nuto delle circolari dei repubblichini. Ma i fascisti si accorsero del doppio gioco di Santa che una notte scappò con il partigiano Baracca ma poi ritornò un’altra volta a frequentare i fascisti. A un certo punto anche Baracca si accorse del doppio gioco di Santa e quindi decisero di giustiziarla. Un giorno Baracca chiamò Nuto per dirgli che Santa faceva il doppio gioco. Santa voleva scappare da Canelli e andò a nascondersi nel casotto della Gaminella dove c’erano Baracca, Nuto ed altri due partigiani. Qui Baracca disse a Nuto che la sentenza di Santa era stata ormai decisa. I due partigiani la condussero fuori dal casotto dove fece un urlo e una scarica di mitra la colpì. Nuto e Baracca uscirono fuori e la trovarono distesa sull’erba. Il protagonista chiese a Nuto “Non c’è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due…” (pag. 173). Nuto rispose “No…Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò” (pag. 173).

Genesi e struttura del romanzo.

Pavese ebbe la prima idea di scrivere il romanzo “LA LUNA E I FALÒ” nel luglio del 1949. Infatti in una lettera del 17 luglio del 1949 comunica ai suoi amici Adolfo ed Eugenia Ruata l’idea di scrivere il romanzo: “Io sono come pazzo perché ho avuto una grande intuizione – quasi una mirabile visione (naturalmente di stalle, sudore, contadinotti, verderame e letame ecc.) su cui dovrei costruire una modesta Divina Commedia. Ci penso sopra, e tutti i giorni diminuisce la tensione – che alle visioni siano necessarie le Beatrici? Bah, si vedrà.” (tratto da Cesare Pavese – Vita attraverso le lettere – Edizioni Einauidi tascabili – Pagg. 225 – 226).
Per approfondire e completare la trama del romanzo Pavese scrisse molte lettere al suo amico di infanzia Pinolo Scaglione al quale chiedeva molte informazioni sulla vita dei giovani orfani che venivano ospitati negli orfanotrofi di Alba e di Alessandria. Pavese non solo chiese queste notizie a Pinolo ma si recò molte volte a casa dell’amico per parlare insieme del romanzo. Pinolo con grande piacere rispose con altre lettere a Pavese dandogli tutte le informazioni necessarie. Ricevute queste informazioni e rivisti, insieme a Pinolo, i luoghi di Santo Stefano e di Canelli, Pavese scrisse di getto il romanzo, dal 18 settembre al 9 novembre del 1949. Il romanzo è composto da 32 capitoletti, l’uno indipendente dall’altro. Infatti ogni capitoletto racchiude una storia che si chiude in sé ed è raccontata dall’io narrante, cioè il protagonista Anguilla, che è lo stesso Cesare Pavese, il quale racconta la sua storia aiutato da Nuto, che nella realtà è Pinolo, il suo amico di infanzia. Praticamente Pinolo in questo viaggio di ritorno di Anguilla nelle sue terre di origine fa la parte di Virgilio che faceva da guida a Dante nella discesa agli inferi e gli spiegava i territori dove si trovavano e i personaggi che incontravano. Pavese assegnando a Nuto il ruolo di guida collega il suo romanzo alla idea della Divina Commedia come aveva anticipato nella sua lettera agli amici. Nuto ora gli fa rivedere i territori cambiati rispetto alla sua partenza e gli fa conoscere le nuove persone che abitano quei posti come Valino e Cinto che abitavano nel casotto dove il protagonista aveva trascorso la sua infanzia.

Il tema del romanzo.

Il tema del romanzo, come chiarisce lo stesso Pavese nell’intervista alla radio del 12 giugno del 1950, è: “La memoria dell’infanzia e del mondo in La Luna e i falò” (lacerto tratto da Cesare Pavese – La letteratura americana e altri saggi – Edizione Einaudi – Pag. 266). Certamente Pavese identificava il tema della memoria con il ritorno all’infanzia e il risveglio dei ricordi in essa custoditi. In questo senso LA LUNA E I FALÒ diventa il romanzo modello del ritorno. Come tutti i critici attestano il tema del ritorno è il tema fondamentale del romanzo. Il ritorno viene inteso come ritorno alle radici della propria fanciullezza e della propria infanzia tema su cui Pavese aveva scritto molti articoli già compresi nel libro “Feria d’agosto”. Un lacerto essenziale che sintetizza il mito del ritorno e della memoria si trova nell’articolo “Del mito, del simbolo e d’altro” del 1944 in cui Pavese chiarisce il concetto di fanciullezza: “Il concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva”. (lacerto tratto da Cesare Pavese – La letteratura americana e altri saggi – Edizione Einaudi – Pag. 274). Un altro articolo spiega ancora il concetto di ritorno e di infanzia per Pavese: “I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere autentiche scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo”. (lacerto tratto da Cesare Pavese – La letteratura americana e altri saggi – Edizione Einaudi – Pag. 277). Bastano questi lacerti per far vedere l’insistenza di Pavese sul tema dell’infanzia e sul mito e questi concetti spiegano perché ancora una volta Pavese abbia scritto un romanzo sul ritorno alla fanciullezza. Anche ne “LA LUNA E I FALÒ”, il protagonista Anguilla, ormai uomo maturo, ritorna nelle langhe per riscoprire la sua infanzia e la sua fanciullezza così come Clelia, nel romanzo precedente, era tornata da Roma a Torino, ormai donna adulta e sicura di sé, per ritrovare i luoghi della sua infanzia e della fanciullezza. Anguilla, dopo aver riscoperto sia la fanciullezza che la giovinezza tramite il suo amico Nuto, scopre anche Cinto cioè la realtà del presente e vede anche la brutta fine che fanno Valino e i suoi familiari. Ma bisogna dire che il protagonista non scappa via né da Nuto e né dalle langhe, anche se non si ritrova nei nuovi personaggi che incontra ma se ne va solo per curare i propri interessi economici a Genova e in Usa. Quindi non c’è una mancanza di integrazione alla nuova realtà ma solo un ritorno alla sua nuova realtà economica con la certezza di un ritorno a breve per recuperare altri ricordi. Infatti Anguilla alla domanda di Nuto risponde: “Magari m’imbarco, – gli dissi, – ritorno per la festa un altr’anno”. (Cap. XXXI pag. 163).
Il fatto che sarebbe tornato l’anno successivo indica, secondo me, che il protagonista Anguilla apprezzava la nuova situazione trovata nelle langhe e, quindi, non si sentiva un déraciné.

Sintesi del romanzo

Il romanzo “LA LUNA E I FALÒ” racconta la storia di un uomo che era ritornato in un paese delle Langhe tra Canelli, Barbaresco e Alba. Lui sapeva, con certezza, di non essere nato in quel paese perché non conosceva né i genitori né il luogo di nascita e quindi era un bastardo. Conobbe la verità quando all’età di dieci anni morì la sua matrigna e così scoprì che le due ragazze non erano sue sorelle. Era ritornato in questo paese l’anno prima ed aveva iniziato a girare il casotto della Gaminella dove era rimasto fino a tredici anni e si incontrava con Nuto, il suo migliore amico, che aveva conosciuto alla cascina della Mora. Lui aveva creduto che questo paese, Santo Stefano, dove non era nato, era stato tutto il suo mondo e considerava le collinette di Canelli come le porte del mondo. Il protagonista era andato ad abitare nell’albergo di Santo Stefano dove ormai nessuno lo conosceva e si incontrava spesso con Nuto che, dopo dieci anni in cui aveva suonato il clarino, aveva smesso e ormai faceva solo il falegname e abitava nella casa del salto. Il protagonista aveva sentito parlare di Nuto, anche negli Usa, come un bravo suonatore di clarino. Nuto diceva al protagonista che ogni persona ha il proprio destino e a tutti succede qualcosa. Un giorno il protagonista incontrò Valino, il mezzadro che abitava nel casotto della Gaminella. Valino era un tipo fosco e di poche parole. Qualche giorno dopo il protagonista andò nel casotto di Valino e vide un ragazzetto che avrà avuto dieci anni e che rideva.
Questo ragazzetto gli fece ricordare lui alla sua stessa età. Il protagonista si rende conto che il paesaggio era sempre uguale ma era lui ad essere cambiato dopo la lunga emigrazione. Molte volte il protagonista parlava con Cinto, il ragazzetto sciancato, figlio di Valino, perché gli faceva piacere parlare con lui dato che gli ricordava sempre la sua infanzia da bastardo nel casotto della Gaminella.
Nuto gli ripeteva che il mondo è malfatto e che interessa a tutti cambiarlo. Un giorno il protagonista chiede a Cinto se per la festa di San Giovanni facessero ancora i falò come succedeva ai suoi tempi e Cinto gli rispose che ormai erano sporadici. Poi chiese a Nuto se lui credeva nell’importanza della luna nell’agricoltura. Nuto rispose che bisognava crederci per forza perché certe cose non riescono a luna piena. Il protagonista quando attraversava i suoi luoghi nativi ricordava con piacere la sua infanzia trascorsa lì e ricordava che sulle colline il tempo non passa mai. Il protagonista si ricordò anche di una escursione notturna lungo le strade degli Usa quando gli si impannò il camioncino e rimase solo per tutta la sera in aperta prateria e guardando la luna ne ebbe paura. In quei giorni a Gaminella trovarono i cadaveri di due repubblichini e il prete fece una omelia contro i partigiani. Il protagonista chiese a Nuto come fosse morta Santa, la terza figlia di Sor Matteo ma Nuto disse solo che era morta in modo tragico senza svelare l’epilogo finale. Quando era negli Usa, il protagonista sognava che un giorno, quando sarebbe ritornato, avrebbe ritrovato le mani e le voci delle donne che aveva lasciato e in particolare quelle delle due figlie di Sor Matteo. Poi il protagonista ricorda di quando il suo patrigno aveva venduto la Gaminella e lui, a tredici anni, era andato ad abitare e lavorare nella cascina della Mora. Qui un’altra servitrice, Emilia, gli aveva affibbiato il soprannome di Anguilla. Anguilla nella sua nuova dimora, alla mora, si trovava bene perché aveva imparato un nuovo mestiere, quello di contadino, e aveva conosciuto le bellissime figlie di Sor Matteo, Irene la bionda e Silvia la bruna. Un giorno il protagonista andò a trovare, insieme a Nuto, la moglie di Valino ed entrò, finalmente, dentro il casotto della Gaminella. Il protagonista racconta ancora le molte occasioni che aveva trascorso con Nuto, il giovane falegname, che veniva a suonare nella cascina della Mora. Sor Matteo, qualche anno dopo, cominciò a pagare la giornata al protagonista che, a tutti gli effetti, diventò un lavoratore a tutto campo della cascina. Un giorno Cinto andò a trovare il protagonista all’albergo del paese. Il protagonista gli comprò un coltellino e dentro di sé provava un sentimento di invidia per l’età di Cinto e avrebbe voluto rivedere il mondo con gli occhi del ragazzo. Tra i bei ricordi della Mora, il protagonista ricorda quando con Nuto andavano sotto i coppi del tetto della cascina a sfogliare vecchi libri. Il protagonista, nella sua gioventù, guardava sempre con ammirazione le due figlie di Sor Matteo e le seguiva. Un giorno, estasiato dalla bellezza della giovane donna, guardò Irene attraversare il torrente Belbo per cogliere dei fiori gialli per Santa, la terza figlia di Sor Matteo avuta dalla seconda moglie. A diciotto anni il protagonista andò a Genova per il servizio militare e conobbe una ragazza che diventò la sua fidanzata. Ma il protagonista si ricordò anche di un’altra ragazza americana, Rosanne, che aveva conosciuto in America, la quale gli aveva consigliato di produrre il liquore, clandestinamente, e questa operazione vietata, che lui fece, lo fece diventare un ricco commerciante italiano. Ma anche la relazione con Rosanne finì. Poi il protagonista capì anche che le due figlie maggiori di Sor Matteo erano inquiete e non soddisfatte della vita che conducevano perché la contessa della cascina del Nido, a volte, non le invitava nel suo palazzo quando organizzava feste da ballo. Le due giovani donne soffrivano molto, quando non venivano invitate dalla vecchia contessa.
Due giovani del luogo cominciarono a frequentare Irene e Silvia, anche se il Sor Matteo non li vedeva di buon occhio. Il protagonista, attento alla vita delle due giovani donne, veniva a conoscere le storie degli amori delle due ragazze dagli altri servitori. Silvia aveva perso la testa per un uomo di Crevalcuore che la portava in giro in moto. Irene invece era innamorata di un nipote della contessa, Cesarino, che era indifferente alla ragazza. Intanto Irene si era ammalata di tifo. Quando guarì seppe che Cesarino, il nipote della contessa, era andato a Genova. Nuto chiese ad Anguilla come mai fosse andato in America. Il protagonista gli risponde che la sua voglia di andare via non era tanto dovuta all’attrattiva per gli Usa bensì alla rabbia di non essere nessuno e visto che era già arrivato a Genova per il militare voleva ormai anche attraversare il mare. Il protagonista racconta all’amico che quando arrivò a Genova conobbe altri compagni della sua età che in qualche modo gli fecero conoscere una realtà politica, alternativa al fascismo, con cui lui si legò per un breve periodo. Quando poi alcuni suoi compagni furono arrestati la sua fidanzata di Genova gli procurò un posto di lavoro su una nave che andava in America. Quindi il suo emigrare negli Usa fu più un fatto casuale che un fatto preordinato ed intenzionale. Intanto Cinto veniva verso di loro, zoppicando e mugolando, e gli disse che suo padre Valino aveva incendiato il casotto ed ucciso Rosina, la mamma di Cinto, e la mamma di lei. Anguilla e Nuto andarono subito alla Gaminella e videro effettivamente che tutto era bruciato e notarono del fumo ancora fuoriuscire. Cinto raccontò che la madama della villa era andata nel casotto di Valino e pretendeva la metà del raccolto. Vi fu un grosso litigio tra Valino e la madama e il Valino dopo avere dato metà del raccolto andò via da casa. Ritornò la sera, arrabbiatissimo, e cominciò a picchiare e a scalciare Rosina e la madre di lei fino ad ucciderle. Poi cercò anche di acchiappare Cinto che riuscì a scappare. Diede fuoco al fienile e alla paglia e richiamò Cinto che nel frattempo si era nascosto sulla riva del fiume. Cinto dopo un po’ rientrò e vide pendere i piedi del padre sotto la volta del noce. Un giorno Silvia fu abbandonata da Matteo, il giovane di Crevalcuore, e si mise con un altro giovane. Dopo questa breve storia, Silvia ebbe un’altra breve avventura con un cinquantenne di Milano, Lugli, che la abbandonò lasciandola all’improvviso. Silvia cercò di rintracciarlo andando fino a Genova ma qui, non trovandolo, rimase sola. Sor Matteo dopo un mese andò a riprendere la figlia che era rimasta incinta ad insaputa del padre. Sor Matteo, ritornato a casa, seppe che Silvia era incinta e fu colpito da un ictus. La figlia, qualche giorno dopo, andò di nascosto ad abortire. Silvia ritornò a casa e qualche giorno dopo morì per le conseguenze dell’aborto. Sor Matteo ormai usciva solo nel terrazzo mentre Arturo ritornò a frequentare la casa solo per interesse e riuscì a sposare Irene che non lo aveva mai amato. Irene accettò di sposare Arturo soltanto per andarsene da casa e per non sentire i brontoli della matrigna. Arturo portò Irene a vivere a Nizza in una stanza dove la batteva. Il protagonista poi racconta anche un giorno di festa quando aveva accompagnato le due sorelle in un paese vicino. Le due ragazze erano felici di stare con i loro amici e lui sognava di trovare insieme a quei giovani ed era molto felice di vedere le giovani ragazze ridere e scherzare con gli amici anche se avrebbe voluto essere con loro. Il protagonista raccomandò Cinto a Nuto perché gli insegnasse il mestiere di falegname nella sua bottega. Se il ragazzo fosse riuscito ad imparare bene il mestiere lui, da grande, gli avrebbe trovato un lavoro a Genova. Nuto accettò Cinto nella sua bottega ma sua moglie protestò. Nuto chiese al protagonista quando sarebbe ritornato dagli USA? Anguilla gli rispose che probabilmente sarebbe ritornato l’anno successivo. Il protagonista, parlando con Nuto, rimpiange la triste fine di Irene e Silvia ma era curioso di conoscere i dettagli della fine di Santa, la giovane figlia di Sor Matteo. Nuto preso da un momento di tenerezza e di confessione verso l’amico cominciò a raccontargli che Santa era più bella delle due sorelle maggiori e aveva “gli occhi come il cuore del papavero” (pag. 165). Nuto gli disse che Santa, da giovane, si era trasferita a Canelli, dove si era impiegata nella casa del fascio e girava insieme agli ufficiali per tutti i territori della provincia. Poi arrivò l’estate del 1943 quando cadde il fascismo e a settembre fu istituita la Repubblica di Salò e anche per lei finì la bella vita. Nuto quando passava da Canelli guardava la casa di Santa e una volta lei lo invitò a parlare. Gli confidò notizie riservate sui repubblichini e praticamente cominciò a fare la doppiogiochista raccontando ai partigiani informazioni sui repubblichini. Nuto, nel maggio del 1944, chiamò Baracca per fare entrare Santa tra i partigiani ma lei ritornò dai repubblichini per riferire notizie dei partigiani. Quando Baracca si accorse del doppio gioco decise di giustiziarla in quanto spia. Un giorno di giugno del 1944 Baracca invitò Nuto alla Gaminella per raccontare la verità su Santa e in uno di quei giorni Santa, scappata da Canelli, si trovò alla Gaminella dove Baracca le lesse la sua sentenza di morte. La ragazza fu condotta fuori da due partigiani ma tentò di scappare e fu uccisa da una scarica di mitra che non finiva più. Anguilla chiese a Nuto se un giorno fosse stato possibile ritrovare il corpo di Santa. Nuto rispose che non sarebbe stato possibile perché Baracca fece tagliare molto sarmento nella villa con la quale ricoprirono il corpo di Santa su cui versarono della benzina. A mezzogiorno il rogo già bruciava e tutto era finito in cenere. Ancora dopo qualche anno si vedevano i segni del rogo come i segni che rimangono dal letto di un falò. (Pag. 173).

Il messaggio del romanzo.

Il messaggio del romanzo è dato dalla situazione del protagonista che non è un déraciné ma anzi è un uomo economicamente libero ed integrato nella società italiana e americana. Anguilla accetta le sue origini contadine e del suo territorio e rimane con la sua personalità generosa verso gli altri perché sa di avere ricevuto tanto bene dagli altri a cominciare dai suoi genitori adottivi, da Nuto, dal parroco del paese, dal padrone della Mora, Sor Matteo, dalla fidanzata di Genova che lo aiutò a fuggire in Usa, e da Rosanne, una delle fidanzate americane, che gli suggerì l’idea e il modo di diventare ricco. Il protagonista Anguilla è riconoscente a tutte queste persone e siccome aveva un animo buono ora, dopo il ritorno nel suo paese, quando incontra Cinto, in cui lui rivede sé stesso bambino, riversa sul ragazzetto tutto il bene che lui aveva ricevuto perché non era un ingrato con gli altri e perché non si sentiva un déraciné. Il protagonista quindi conserva ancora la bontà della gente del luogo, dei contadini di allora e quindi aiuta con animo favorevole Cinto che lui considerava un altro sé stesso disagiato e svantaggiato rispetto agli altri. Succede molte volte che un déraciné, divenuto un uomo arricchito, un ricco commerciante, un parvenu, dopo che ha fatto fortuna, disprezza la classe di origine povera perché lui non lo è più e quindi adotta i vizi e i pregiudizi della nuova classe arricchita, disprezzando i poveri. Il messaggio etico, che sfocia nella bellezza del romanzo, consiste nel fatto che Anguilla non dimentica la sua povertà originaria e la sua condizione di bastardo e di servitore ma, dall’alto della sua nuova posizione, aiuta Cinto che si trova nella sua stessa situazione di quando era ragazzo per cui il messaggio etico del libro è quello che ognuno di noi deve sapere amare gli altri che rimangono in povertà e in disagio. Questo atteggiamento di empatia e di amore per chi rimane povero e disagiato è il messaggio più forte del romanzo perché bisogna rafforzare e sviluppare la forza di amare coloro che rimangono più sfortunati rispetto a chi riesce a vincere la miseria e la povertà. Anguilla dimostra la sua capacità di amare quando Cinto rimane orfano e il protagonista si mette d’accordo con Nuto per trovargli una sistemazione: “Cinto se lo prese in casa Nuto, per fargli fare il falegname e insegnargli a suonare. Restammo d’accordo che se il ragazzo metteva bene, a suo tempo gli avrei fatto io un posto a Genova”. (Capitolo XXXI – Pag. 163). Accanto a questo messaggio etico c’è un altro messaggio esplicito nel libro che è quello che ognuno di noi deve trovare il coraggio e la forza di abbandonare la terra di origine per far fortuna in un altro ambiente perché se non si esce si rimane chiusi nel proprio territorio e il più delle volte si rimane in condizioni di povertà. Ecco il brano più significativo che esplicita questo messaggio: “Nuto una sera mi domandò com’era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l’occasione e i vent’anni l’avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l’America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia dopo che avevo passato la Bormida, di passare anche il mare”. (Capitolo XXVI – Pagg. 137 – 138). Un proverbio che esprime questo coraggio e forza d’animo da noi afferma che: “Chi esce, riesce”.

La tesi del romanzo.

La tesi del romanzo è il lavoro. Pavese aveva una grande considerazione del lavoro perché secondo lui soltanto il lavoro fa realizzare la personalità degli uomini. Già nel romanzo precedente “Tra donne sole” Pavese aveva messo al centro del romanzo Clelia, una donna che si era fatta da sé con il lavoro.
Ne “LA LUNA E I FALÒ” Pavese non sceglie più una donna come protagonista ma un uomo, che identifica in sé stesso, che con il suo lavoro si realizza come afferma il protagonista, parlando di sé stesso: “Far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare così, arricchito, grand’e grosso, libero.” (capitolo VIII – pag. 43). Infatti il protagonista Anguilla dopo essere emigrato in Usa, grazie al suo coraggio, riscatta la sua condizione di disagiato e di povero, diventa un uomo grande e grosso e libero. Pavese difende i personaggi di Clelia e di Anguilla e quindi ribadisce l’importanza del lavoro nelle due lettere che scrisse al suo professore Augusto Monti il 18 gennaio e il 28 gennaio del 1950 e in quella che scrisse al critico Del Sasso. Nella prima lettera del 18 gennaio Pavese scrive: “Lo stesso si dica per le Donne: qui non sono più ragazzi, qui non si canta la scoperta, qui una dura esperienza di persona che lavora, che si è fatta da sé, che basta a sé viene a contatto con che?” Nella seconda lettera il poeta chiarisce: “La garanzia e la speranza della mia futura grandezza (stiamo seri) è una sola: fare bene il lavoro che ci tocca…chi fa bene il suo lavoro ha la coscienza a posto; chi no, no…Il mondo è quello che è e chi non si salva da sé non lo salva nessuno.” La stessa difesa dell’idea del lavoro Pavese la fa nella lettera scritta a Del Sasso giorno 1 marzo del 1950 in cui scrive: “Così per Clelia delle donne: essa è una borghese sdegnata e inquieta che crede in un solo valore, il lavoro, e naturalmente, come borghese non può crederci in modo socialista, cioè liberato ma sempre con una punta di amarezza, di stoicismo”. (tutti i tre lacerti di queste lettere sono tratti dall’opera Il Vizio assurdo di Davide Lajolo – Daniela Piazza Editore – pag. 248 – 249 – 250). Il lavoro diventa l’unica possibilità per il protagonista Anguilla di liberarsi dalla sua condizione originaria (di bastardo e di servitore) e grazie al lavoro diventa imprenditore e padrone di sé stesso e quindi diventa un uomo libero, economicamente e culturalmente, dagli altri. Ma non per questo perde la capacità di amare gli uomini più poveri, deboli e sfortunati nella vita così come lo era stato lui prima di diventare un emigrato negli USA. Quindi il lavoro fa diventare liberi e sicuri di sé stessi: all’autonomia economica corrisponde anche una autonomia di pensiero, di cultura e una posizione di libertà.

Analisi della forma.

Genere del romanzo.

LA LUNA È I FALÒ è un romanzo di genere “realistico e simbolico”. È un romanzo che riesce a fondere elementi neo realistici con elementi simbolici, secondo i presupposti teorici che Pavese stesso mirò a realizzare nei suo romanzi scritti dal 1930 al 1949. Lo stesso Pavese, ne “Il Mestiere di vivere”, il 26 novembre del 1949, ha classificato l’evoluzione dei suoi romanzi e della sua poetica lasciando un grafico ben chiaro che va da “Lavorare stanca” a “La Luna e i falò”.

Grafico del 26 novembre del 1949 tratto da “Il Mestiere di vivere” (Pagg. 377 – 378).
“Ecco la ragione dell’estasi del ricordo: si ritrovano gli istinti del risveglio, di conoscenza del mondo”.

Lavorare Stanca

1930
1933
1936 (parola e sensazioni)
1938
1940

Carcere

1938
Paesi tuoi 1939 (naturalismo)
Bella estate 1940
1941

Feria d’agosto 1941
1942 (poesia in prosa e consapevolezza dei miti)
1943
1944

Dialoghi con Leucò 1945 (gli estremi: naturalismo e simbolo staccati)
Compagno 1946

La casa in collina 1947-48
Il diavolo sulle colline 1948 (realtà simbolica)
Tra donne sole 1949
La luna e i falò 1949

Questo grafico e questa evoluzione non fanno altro che confermare e realizzare una precedente affermazione teorica di Pavese sempre sulla natura simbolica del romanzo. Infatti il 14 dicembre del 1939 scrive: “Ci vuole la ricchezza d’espressione del realismo e la profondità dei sensi del simbolismo”; “Tutta l’arte è un problema di equilibrio tra due opposti”. (Dal Mestiere di vivere pag. 166). Seguendo questa indicazione di Pavese stesso, La Luna e i falò, è il romanzo che riesce a fondere insieme situazioni di neorealismo ed elementi di simbolismo. Tutti i critici sono d’accordo nel sostenere che questo romanzo è il capolavoro di Pavese perché riesce a fondere insieme, in un armonico equilibrio, elementi di neorealismo con elementi di simbolismo.

Il lessico del romanzo.

Il lessico del romanzo ha sicuramente una cadenza lirica su un contesto realistico. Molti critici affermano che una parte della bellezza del romanzo è data dall’equilibrio tra parte lirica e parte realistica della lexis. Molte pagine del romanzo sono scritte con una intensità lirica quasi poetica e altre, invece, con una capacità descrittiva e realistica molto intensa, senza che vi sia una sproporzione tra le due forme di lexis. Proprio in questo equilibrio ed armonia tra liricità e prosaicità sta una parte della bellezza del libro, come dimostra magnificamente Gian Luigi Beccaria nell’introduzione al romanzo: “Un’attualità di linguaggio negata e rinforzata ad un tempo dal rigidamente monotonale del poetico: il ritmo poetico nella prosa”. (pag. XXVIII)

Il tono emotivo del romanzo.

Il tono emotivo del romanzo è abbastanza monotono perché il monologo interiore del protagonista si svolge con la stessa cadenza nel presentare il presente e il passato, il passato e il presente e i vari personaggi che incontra. Se c’è una pecca nel romanzo è proprio questa monotonia nel raccontare che dà al lettore l’impressione di un ritmo e un tono sempre uguale, come una noiosa cantilena che si ripete, uguale per tutti i capitoli, ad eccezione dell’ultimo. Pavese stesso cercò di superare questa monotonia di tono alla fine, quando descrisse la morte di Santa cercando di elevare il tono emotivo del romanzo inventandosi una suspense finale con la descrizione precisa e realistica della morte della giovane donna ad opera dei partigiani. Questa scena finale cerca di alzare il tono emotivo del romanzo dandogli un tono più brillante ed energico e scuote il lettore dalla monotonia dei capitoli precedenti.
Ma la descrizione dell’uccisione finale riesce solo in parte a fare dimenticare la monotonia del tono emotivo di tutto il romanzo. L’ultima immagine del romanzo è: “Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo finché bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”. (pag. 173) Con questa ultima azione drammatica Pavese ha cercato di collocare l’ultima tessera per cercare di riempire il puzzle scritto in precedenza, chiudendo il romanzo e cercando di dare un tono emotivo più forte rispetto alla monotonia precedente.

Il lessico del romanzo.

Il lessico del romanzo è forbito e lirico e tende alla lingua nazionale anche se Pavese fa continuamente ricorso alla parlata piemontese e usa anche molti termini delle langhe. Un altro aspetto del lessico del romanzo è certamente l’uso di molti anacoluti e di forme regionali di linguaggio. Pavese, in sostanza, come dimostra Gian Luigi Beccaria, nella sua introduzione, ha realizzato compiutamente una lingua nazionale su basi regionali.

La lexis del romanzo.

La lexis del romanzo è formata da un linguaggio lirico e forbito e da molte figure retoriche. Nella prima parte del romanzo prevale soprattutto il discorso diretto libero, mentre nella seconda parte il discorso indiretto libero. Infatti nella prima parte che è più lirica c’è un maggiore distacco tra chi racconta e i personaggi raccontati, mentre nella seconda parte dove prevale la descrizione mimetica prevale il discorso indiretto libero.

La bellezza del romanzo.

Io, Biagio Carrubba, credo che la bellezza del romanzo stia nella capacità di Pavese di avere saputo creare una galleria di personaggi, appartenenti a diverse classi sociali, che hanno in comune un unico obiettivo che è quello di raggiungere la propria felicità. Trovare la giusta strada per raggiungere la propria felicità è l’obiettivo che ha ognuno di noi nella vita e non solo nel romanzo. Lo scopo sotteso ed implicito del romanzo è quello di fare emergere attraverso gli occhi e la cultura del protagonista come ogni uomo e ogni donna, cerchi dentro di sé e fuori di sé una strategia per arrivare a soddisfare i propri bisogni interni, mettere a fuoco la propria esperienza e realizzare i propri sentimenti, cioè in una parola la felicità. Anguilla esplicita apertamente questo obiettivo quando dice: “Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono essere ricchi, innamorati, fa fortuna” (Capitolo XXIX – Pag. 154). Io, Biagio Carrubba, credo che effettivamente tutti vogliamo essere ricchi, innamorati e far fortuna anche se poi nella vita soltanto in pochi ci riescono o alcuni riescono soltanto in una delle cose e non nelle altre. Questa filosofia Pavese l’aveva già espressa molto tempo prima in una lettera del novembre del 1935 ad Adolfo Ruata, in cui scrive: “La caratteristica del Padre Eterno è evidentemente la mancanza di tatto, per cui, esagerando poi dalla parte opposta, riporta vanto di essere l’altra armonia che concilia i contrari. Prendi un esempio: ci sono delle persone a cui tutto va male, di quelli che, “se vendessero cappelli, la gente nascerebbe senza testa”. Ebbene, il Padre Eterno mette al mondo delle altre persone cui tutto va bene, e dopo averle fatte belle e sapienti, le fa ancora vincere alla lotteria. E giustizia è fatta. Ha perfino inventato il Diavolo; per poter addossare a lui le trovate troppo enormi.” (da Vita attraverso le lettere – Einaudi tascabili – pag. 130 – 131)
Le parole della lettera hanno un tono ironico e sarcastico che non si ritrovano nel messaggio della bellezza del romanzo. Nel romanzo le figlie di Sor Matteo cercano la strada della felicità nell’amore e nell’essere accettate in un ambiente sociale superiore, ma purtroppo tutte e tre non riescono a realizzare la loro felicità perché tutte e tre muoiono a causa di un destino amaro e crudele. Anche le donne di Valino, Rosina e la madre, muoiono a causa del suo raptus di follia. Hanno un destino migliore soltanto Nuto, Anguilla che ritorna in America e Cinto che riesce a trovare una casa dove vivere e qualcuno che gli insegni un mestiere. Alla fine, il romanzo commuove (movere) proprio perché le tre figlie di Sor Matteo trovano la morte anziché la felicità. Ma questa è l’unica emozione che si trova in tutto il libro e soltanto alla fine. Alla fine del romanzo però non c’è nessun dialogo tra la luna e i falò: la luna rimane simbolo del mistero dell’universo; il rogo di Santa rimane il mistero degli uomini che con la guerra si uccidono tra di loro. Anche i falò rimangono un mistero perché non si sa se favoriscano o no l’agricoltura o se siano soltanto dei fuochi della tradizione popolare contadina. Quindi per Pavese tutto rimane un mistero. Cesare Pavese aveva espresso la concezione del cosmo e degli uomini come mistero in una bellissima poesia giovanile, “Infinito stellato” che snoda e dispiega il mistero dell’universo.

Testo della poesia Infinito Stellato

Infinito stellato, tu, la notte alla mente
che ti sta ansiosa dici che sei il mistero;
il giorno efimero ti nasconde allo sguardo,
il giorno che è nulla nell’immenso tuo,
il giorno che è tutta la vita dell’uomo.
Infinito oscuro, stellato,
solo al tuo silenzio comprende l’uomo
che tra un’eternità tu gli sarai ancora un mistero,
sempre un mistero.
(marzo 1924, da Pavese Le poesie Einaudi pag. 150)

Io, Biagio Carrubba, prevedo che un giorno non molto lontano la scienza scoprirà le verità fondamentali sulla vita e sul cosmo per cui il mistero sarà svelato e sapremo da dove veniamo, chi siamo e dove andremo. Ma rimane comunque il fascino, l’importanza e il romanticismo dei falò che costituiscono sempre un momento di aggregazione e di accoglienza per molti giovani come si vede, ancora oggi, nei falò estivi sulle spiagge, dove molti giovani si raccolgono intorno ad essi per trascorrere la serata così come capitava al giovane Anguilla. Ecco come Pavese descrive il rapporto di trasporto di Anguilla, nella sua gioventù, con i falò: “Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo, di quelli d’estate, e gli guastava la festa”. (Capitolo XIX, pagg. 100 – 101).

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Modica, 01/ 10/ 2018                                                                       Prof. Biagio Carrubba.

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