Breve sintesi dell’Eneide (Quarta Parte: Libri X, XI e XII)

Duello finale tra Turno ed Enea
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Introduzione alla quarta parte.
Gli ultimi tre libri dell’Eneide hanno un solo tema: descrivere la progressione e lo sviluppo della guerra che si svolge fra Troiani ed Etruschi da una parte e Rutuli e Latini dall’altra parte.
I tre libri (X, XI e XII) svolgono in progress, in un intreccio fra divino e umano, tutti gli episodi di eroismo e le aristie dei combattenti prima di arrivare al duello finale tra Enea e Turno. Enea ha tutto il favore dalla sua parte: gli dei, ad eccezione della potente Giunone, il Fato, il Superfato (riferito al Princeps), l’età di Enea (35/40 anni) per contro l’età di Turno (20/25 anni), la maturità e la lucidità di Enea per contro l’impulsività e l’irruenza di Turno, che preso dal suo furore accetta il duello finale con Enea. Turno giudica Enea un usurpatore, perché ai suoi occhi è un predone che è lì nel Lazio per sottrargli il regno e la promessa fidanzata; Turno, quindi, si crede nel giusto ad affrontare Enea con la speranza di abbatterlo e sposare Lavinia. Il Fato, però, a sua insaputa, ha stabilito che dovrà essere Enea a fondare la nuova Roma e Turno dovrà morire a difesa della sua Terra. Insomma, Turno deve morire per volontà del Fato, ma per mano di Enea ed è così che finisce l’Eneide.
Questo esito finale viene raggiunto dopo l’accordo tra Giove e Giunone, che col mettersi d’accordo sul futuro del Lazio, renderanno definitiva la morte di Turno. Per Turno non basta la difesa ad oltranza di Giunone e l’aiuto della sorella di Turno, Giuturna, perché comunque saranno sconfitte da Giove e dal Fato. Infatti, Turno diventerà la vittima predestinata dal Fato che, inspiegabilmente, ha decretato che sia Enea il progenitore della gens Iulia e della fondazione della città di Roma.
Questi ultimi tre libri, inoltre, manifestano anche tutto lo stoicismo di Virgilio e tutta la sua devozione agli dei ufficiali di Roma. Infatti Virgilio, oltre allo stoicismo, mostra di adeguarsi a tutti i valori della cultura romana, sia quelli tradizionali che quelli restaurati dal Princeps Cesare Ottaviano Augusto. L’adeguamento di Virgilio alla restaurazione augustea è ben sintetizzata da Alessandro Fo nella sua introduzione al libro “Eneide”: “Enea è al centro della narrazione, e, in qualità di nobile exemplum e paradigma a valere nei secoli, colloca alle origini della stirpe un complesso di valori che ruota attorno a pietas (rispetto di uomini e dei e attaccamento agli affetti familiari), virtus (coraggio e valore bellico), fides (lealta e correttezza), magnitudo animi (pazienza e sopportazione delle fatiche, generosità perfino coi nemici). Augusto è il restauratore di questi valori: colui che, fondando una nuova età dell’oro in quel Lazio in cui la portò un tempo Saturno, se ne farà custode per gli anni a venire. E al contempo si farà garante che possa pienamente compiersi quella che Anchise delinea quale la missione dei Romani: reggere i popoli, lungo l’imperium sine fine concesso da Giove.” [Eneide, Nuova Universale Enaudi, pag. LI].
In questi tre libri Virgilio ha come modello di riferimento sempre l’Iliade di Omero e la segue in modo desultorio, prendendo spunti e frasi da diversi libri dell’Iliade. In particolare, Virgilio segue da vicino il canto XXII dell’Iliade, dove Omero racconta e descrive il duello mortale fra Ettore ed Achille.
Il modello della guerra rimane quello dei libri omerici a cui Virgilio si adegua, ma aggiungendovi alcune novità desunte dall’esercito romano a lui contemporaneo. Virgilio quindi come aggiunge i nuovi valori romani a quelli omerici così aggiunge la sua cultura latina a quella greca. Ed in questa uguaglianza, mimesi e rinnovamento dell’opera di Omero sta la prima grande novità di bellezza dell’Eneide. La seconda grande novità dell’Eneide, apportata da Virgilio, consiste nel creare nuovi personaggi come: Euriolo e Niso, Mezenzio, Camilla. Questi personaggi, assenti in Omero, contraddistinguono l’Eneide e l’epica latina-romana. La terza grande novità consiste nella lexis e nello stile di Virgilio che, giustamente, emerge subito rispetto all’epica classica, tanto che lo stile dell’Eneide è stato definito, nella rota Virgilii, stile sublime e maestoso, perchè sintetizza gli attributi dell’ ornatus: robustus, fortis, validus, solidus. Inoltre allo stile sublime di Virgilio compete anche il periodare abbondante e ricco di figure retoriche come la nota endiade, i frequenti hysteron proteron e lo stilema tutto virgiliano “del tema e variazione”, con la copula epesegetica.
Io, Biagio Carrubba, credo che lo stile di Virgilio si trovi nel mezzo tra lo stile attico e lo stile asiniano.
Un’altra caratteristica nuova di Virgilio apportata all’Eneide è quella che si riferisce alla trasformazione dei suoi personaggi. Infatti, è la guerra dei Troiani contro i Rutuli che cambia la natura e l’indole di ogni personaggio del poema: Mezenzio da cruento e feroce diventa, prima di morire, un personaggio più mite e più umano; Turno, da irascibile e vendicativo, diventa più umile e ragionevole; Didone, da pura amante diventa, una depressa suicida (suicidio inutile, perché non cambia niente sul destino e sulla missione di Enea); Camilla, da forte vergine guerriera, diventa una giovane debole materialista affascinata da beni effimeri; infine, Enea, partito da Troia come uomo mite e pio (che sintetizza più un valore romano che un valore greco), diventa l’irascibile ed il furioso uomo pari di Achille. Da questo miscuglio di intensi sentimenti e di forti valori, nasce l’epos latino e la drammaticità etica e pragmatica di ogni personaggio dell’intero poema epico-mitologico.

Turno

Turno

Decimo libro
Le aristie di Pallante e Turno e di Enea e Mezenzio

Il decimo libro è composto da 908 esametri.
Il decimo libro si apre con un concilio degli dei convocato da Zeus perché irritato dalla continua lotta tra Giunone e Venere, le quali si rimproverano a vicenda sulla missione di Enea. A questo punto Giove decide di mantenersi estraneo sulla sorte di Enea, (cosa che non farà) e conclude: “Travagli e fortuna daranno/a ognuno le imprese sue: Giove è re uguale per tutti./Il destino seguirà la sua via”. Virgilio, a questo punto, cambia scena e parla di Enea che si inoltra verso l’Etruria a parlare con il capo degli etruschi, Tarconte, il quale non esita ad allearsi con Enea. Virgilio poi descrive la discesa di Enea a capo della nuova flotta etrusca che si era formata con nuove alleanze. Io, Biagio Carrubba, in questo passo rilevo alcune discordanze non rilevate da altri critici sul viaggio di ritorno di Enea: per primo, non si capisce perchè Enea, dopo aver ricevuto le armi da Venere, partito a cavallo dal Lazio arrivi a Mantova con un’imbarcazione; poi non si capisce come il viaggio di ritorno si svolge nel Mar Tirreno, anche se questo non viene mai nominato, ed infine non si capisce da dove Enea riparti o dalla Liguria o dalla Toscana per giungere al fiume Tevere.
La flotta, guidata da Enea, è composta da vari alleati: Marsico, Abante, Asila e tanti altri che guidano trenta navi. Durante il viaggio di ritorno la ninfa Cimodocea per accelerare la navigazione di Enea lo incita a navigare più veloce e gli dice: “Vegli, Enea,/stirpe divina? Veglia e allenta le scocche alle vele.” La nave vola ed il giorno dopo, all’alba, Enea arriva alla foce del Tevere.
Intanto quando i Troiani, che stanno dentro il loro forte, vedono arrivare la flotta di Enea esultano con un grande strepito; allora Turno, che stava assediando il forte, stimola ed infiamma ancora di più i suoi soldati e li esorta così: “Come avete invocato, ora potete sterminateli con le armi/[…] la fortuna arride agli audaci”. Subito dopo Enea e gli altri capi alleati sbarcano sulla riva per liberare il forte. Comincia l’aristia di Enea che uccide molti Rutuli e Latini che volevano attaccare l’esercito troiano appena sbarcato dalle navi. Solo l’imbarcazione di Tarconte si infrange sugli scogli; invece Pallante, il figlio di Evandro, quando vede che il suo reparto rimane indietro, incita e sprona i suoi soldati ad uccidere i Rutuli. La battaglia si fa cruenta e sanguinosa. Interviene anche Turno, che prende il posto di Lauso; allora Turno sfida a duello Pallante, il quale non si tira indietro ed accetta il duello con Turno. Pallante invoca Ercole, ma interviene Giove che rivolgendosi al figlio Ercole gli dice: “Fissato è il giorno di ciascuno, breve ed irrevocabile è per tutti/il tempo della vita; ma prolungare la fama con le imprese,/questo è il compito del valore”. Comincia il duello tra Turno e Pallante e questi viene ucciso da Turno: “Pallante strappa il ferro ancora caldo dalla ferita, ma invano:/da quella stessa via escono sangue e vita”. Ricomincia un’altra strage di Enea che uccide molti soldati nemici. A questo punto la scena si sposta dal campo di battaglia a Giove e Giunone, che gli chiede aiuto per Turno. Giunone scende dalla nuvola e crea il fantasma di Enea che incalza Turno che poi fugge e si rifugia in una nave attraccata sulla riva. Turno, sbigottito dal fantasma di Enea fuggitivo, diventa ancora più baldanzoso, ma non sa che la sua speranza è riposta nel vento. Turno si imbarca per seguire il fantasma di Enea, ma quando si trova solo in alto mare capisce che è stato un inganno di Giunone per allontanarlo dal campo di battaglia. Poi Turno rientra e giunge nella sua città.
A questo punto, entra in azione il feroce ed empio Mezenzio il quale, dopo aver ucciso molti nemici, promette al figlio Lauso le spoglie dei nemici: “E a Lauso dona le armi/da indossare e il pennacchio da fissare sul cimiero”. Mezenzio uccide molti nemici tra cui Orode che gli preannuncia una morte immediata ma Mezenzio, sdegnato, gli risponde: “Adesso muori; a me provvederà il padre dei numi/ e re degli uomini”. Poi Mezenzio sfida a duello Enea, il quale gli lancia un’asta che trafigge lo scudo e lo ferisce all’inguine; quando Lauso, figlio di Mezenzio, vede che il padre è ferito si frappone tra lui ed Enea e così lo salva. Enea, subito dopo, uccide Lauso affondandogli la spada nel petto. Ma quando Enea vide il giovane Lauso morto, turbato dalla sua pietà, lo solleva da terra e gli guarda, stupito, i suoi bei capelli legati all’uso antico. Intanto, Mezenzio si va a distendere in riva al fiume, si riposa e chiede continuamente del figlio Lauso, che gli viene portato morto sopra uno scudo. Comincia ora il monologo di Mezenzio contro sé stesso, contro Enea e contro gli dei. Poi, rivolgendosi al suo cavallo Rebo, gli dice: “Rebo, abbiamo vissuto a lungo, se qualcosa a lungo dura/per i mortali”.
Mezenzio, quindi, galoppa nella mischia e rientra nel campo concitato di battaglia. Mezenzio appena vede Enea con un tono minaccioso gli dice: “Credi forse d’atterrirmi dopo avermi ucciso il figlio,/mostro spietato? Quello era il solo mezzo per potermi annientare./Io non temo la morte e non rispetto gli dei./ Basta, vengo per morire ma prima ti porto questi doni.”.
Mezenzio lancia molte aste contro Enea che si ripara con il suo scudo. Allora Enea scaglia la sua lancia nella testa del cavallo che si impenna e disarciona il cavaliere, cadendo sopra Mezenzio che prima di morire, dice ad Enea: “<<Concedimi di essere sepolto con mio figlio.>> Così dice: cosciente allora nella gola riceve la spada/ e sulle armi col sangue versa la sua vita.”.

Virgilio legge l'Eneide al Princeps

Virgilio legge l’Eneide al Princeps

Undicesimo Libro
L’arestia e la morte di Camilla

L’undicesimo libro è composto da 915 esametri.
L’undicesimo libro si apre con Enea che appronta e prepara il trofeo per Mezenzio. Poi Enea dà ordine di condurre Pallante nel palazzo del padre Evandro. Quando Evandro vede il figlio Pallante morto, comincia a piangere per la morte del figlio e conclude riferendosi ad Enea: “Soltanto questo ai meriti ti manca,/manca alla tua fortuna. Non lo chiedo per gioia di vivere,/non mi è lecito, ma per dirlo al figlio tra i profondi Mani.”.
Intanto un gruppo di latini arriva da Enea che gli chiedono una tregua per raccogliere e seppellire i morti. La richiesta viene fatta dal vecchio Drance. Enea concede una tregua di dodici giorni.
Nel frattempo nel palazzo dei Latini, Latino convoca un’assemblea straordinaria di cittadini per sentire il resoconto di Venulo, che era ritornato dalla città di Argiripa, dove era andato per offrire a Diomede oro e doni, affinché costui si alleasse con loro; ma Diomede rifiuta le offerte e la proposta di Latino; quindi Venulo riferisce a Latino che il grande Diomede dice e consiglia ai latini di fare pace con Enea. Latino, sconfortato da questo rifiuto, fa una proposta a tutti i suoi concittadini; ma viene interrotto da Drance il quale dice a Latino di rafforzare la sua offerta ad Enea dandogli in sposa la figlia Lavinia. Poi Drance si rivolge direttamente a Turno e gli dice: “Perché tu, fonte e causa al Lazio di tante sciagure, così spesso/esponi ad aperti pericoli gli sventurati cittadini?/Non vi è salvezza nella guerra!!!”.
A questa provocazione Turno risponde dicendo che è meglio difendere il Lazio e l’Italia con le armi anziché con le parole e conclude: “Non vi è salvezza nella guerra? Dillo, pazzo che sei/ad Enea e alla sua parte.”. Nel contempo arriva un messaggero che annuncia che Enea è sceso in campo e sta arrivando con il suo esercito. Tutti si disperdono impauriti e Turno va nel suo palazzo a indossare la sua armatura. Nel suo cuore esulta perché spera di vincere il nemico. Intanto arriva Camilla con il suo squadrone di cavalieri e dice a Turno che vuole essere lei, per prima, ad affrontare il reparto dei cavalieri di Enea. Turno, ben felice, le dice che lui nel frattempo andrà sopra una gola tortuosa e lì aspetterà Enea per tendergli un agguato. Poco dopo, Turno si porta nel luogo dell’agguato e si apposta nella selva in attesa di Enea. A questo punto Virgilio interrompe l’azione bellica e racconta per esteso, con una digressione, tutta la storia di Camilla. Il padre di Camilla, Metabo, dovendo fuggire dalla sua città, porta con sé la figlia neonata; poi un giorno deve attraversare un fiume quindi la lega alla freccia e la consacra a Diana. La bambina cresce forte e vigorosa tra i monti dell’Appennino. Tutti la vorrebbero come nuora, ma lei sceglie di rimanere vergine, guerriera, fedele e devota alla dea Diana. L’azione ritorna sul campo di battaglia dove Camilla affronta i Troiani e ne uccide molti, ma viene seguita passo dopo passo da Arrunte che con una freccia la uccide e la colpisce nel petto. Camilla, esangue, abbandona le redini del cavallo e scivola in terra: “A poco a poco fredda in tutto il corpo/si scioglie, reclina languidamente il collo/e il capo invaso dalla morte, le armi le sfuggono di mano,/ e la vita con un gemito (le) sfugge, sdegnosa, tra le onde.”. Allora Opi, ninfa delle dea Diana, scende dal cielo e a sua volta uccide Arrunte, il quale cade per terra abbandonato dai suoi compagni nella polvere di un campo sconosciuto. Opi allora se ne torna volando nell’etereo Olimpo.
Turno viene a sapere della morte di Camilla e triste e arrabbiato da questa notizia, abbandona il posto dell’agguato e si riversa dentro la città di Latino. Subito dopo arriva Enea col suo esercito e passa indenne dalla gola montuosa e si riversa davanti la città. Turno riconosce Enea ed Enea riconosce Turno; entrambi avrebbero ingaggiato battaglia subito, ma rinunciano al duello finale perché il sole stava tramontando. Così i due eserciti “s’accampano davanti la città e trincerano le difese”.

Enea e Turno

Enea e Turno

Dodicesimo libro
Il duello finale fra Turno ed Enea

Il dodicesimo libro è composto da 952 esametri.
Il dodicesimo libro si apre con Turno che si mostra sempre più implacabile. Si rivolge a Latino e gli dice: “Mi batto. Adempi il rito, o padre e fissa i patti. O/nel Tartaro con questa mia mano sprofonderò il Teucro/ e da solo vendicherò col ferro la comune offesa,/ o ci abbia in suo dominio e a lui Lavinia spetti in moglie.”. Il re Latino cerca di dissuadere Turno dall’affrontare Enea. Ma la violenza di Turno non si ferma, anzi divampa ancora di più e conclude, rivolgendosi a Latino:”L’affanno che nutri per me, ti prego, mio buon re,/deponilo e lascia che patteggi la gloria con la morte.” Anche Amata cerca di rabbonire Turno ma non ci riesce e lui le dice: “O madre: Turno non ha il potere di fermare la morte.”.
Allora Turno si veste delle sue armi e scende sul campo di battaglia. Anche Enea si infiamma d’ira e poi comanda di accettare il duello con Turno. Inizia il nuovo giorno ed i soldati dei due eserciti misurano il campo per la sfida finale fra Turno ed Enea. Il re Latino si porta al centro del terreno di battaglia ed ascolta il giuramento di Enea, che lui accetta e convalida giurando sugli dei. Turno si avvicina al centro del campo con passo silenzioso, con lo sguardo chino a terra e con un pallore in faccia. Intanto però, la sorella di Turno, Giuturna, sollecitata da Giunone scende nel campo dei Rutuli e sobilla i latini a rompere il patto. L’augure Tolumnio lancia, per primo, una freccia e colpisce un Troiano. Comincia così la battaglia tra Rutuli e Troiani. Enea cerca di calmare gli animi, ma ormai la battaglia è cominciata e nel fragore e nel clamore dello scontro una freccia colpisce Enea alla gamba: “Quale mano l’abbia vibrata, qual turbine scagliata, non si sa,/ né chi ai Rutuli diede un onore così grande,/ se il caso o un nume.”.
Enea chiede subito di togliergli la freccia ed il suo medico Iapige cerca di curarlo come può, ma non ci riesce. Allora la madre di Enea, Venere, raccoglie un’erba, il dittamo, e lo cosparge, a sua insaputa, nel bacile del medico. Iapige lava la ferita di Enea e subito dopo la ferita scompare ed Enea riprende le sue forze. Enea, guarito, ridiscende sul campo di battaglia e dice al figlio Ascanio: “Quando la tua età sarà matura, ricorda/e, rievocando in cuore le imprese dei tuoi, ti siano di sprone tuo padre Enea e tuo zio Ettore.”.
Giuturna, allora, prende l’aspetto di Metisco, l’auriga di Turno e trasporta Turno fuori dal campo di battaglia, allontanandolo da Enea. Quando Enea capisce che Turno gli sfugge, si infuria ancora di più e fa strage di nemici. Allora, Venere gli consiglia di distruggere la città. Comincia l’assedio della città che viene incendiata. Amata, la moglie di Latino, quando vede la città in fiamme e non vede Turno, a difesa della città, presa da un improvviso e delirante dolore, con la mente sconvolta, si impicca. Latino e Lavinia si disperano. Il bellicoso Turno, benché la sorella cerchi di portarlo fuori dal combattimento, viene a sapere della morte di Amata e decide di affrontare Enea. Turno riconosce nell’auriga Metisco la sorella Giuturna e rivolgendosi agli Dei dice: <<Siatemi benigni/almeno voi, Mani, poiché i celesti mi sono contrari./Anima pura, che simile colpa ignora, scenderò/ fra voi, indegno mai della grandezza dei miei avi.>>.
Subito dopo gli arriva vicino il soldato Sace che informa Turno della morte della regina Amata e invoca Turno di ritornare a difendere la città, perché Latino non sapeva cosa fare. Allora Turno si rivolge alla sorella e le dice: “Ormai il Fato mi ha vinto sorella, non cercare indugi;/dove un Dio e la fortuna avversa mi chiama devo andare;/con Enea voglio battermi e soffrire tutta la amarezza della morte.”.
Sia Enea che Turno si portano al centro del campo di battaglia ed iniziano il duello finale. Turno balza dalla biga ma la sua spada si infrange su quella di Enea. Turno preso dal panico fugge; Enea lo insegue, come un cane segugio, per dieci giri intorno al campo di battaglia, delimitato. Enea scaglia la sua lancia che si conficca in un oleastro. Cerca di tirarla fuori ma non ci riesce; allora interviene Giuturna che dà a Turno la sua spada; poi interviene Venere, la madre di Enea, indignata, sradica la lancia di Enea e gliela porge. A questo punto Virgilio interrompe il duello, descrive e riporta il discorso conclusivo e conciliativo tra Giove e Giunone, la quale gli chiede di lasciare ai latini il loro nome e la loro lingua. Giove, sorridendole, accetta queste condizioni e così conclude: “La stirpe che da loro sorgerà, mista di sangue ausonio,/ la vedrai superare in devozione gli uomini e gli dei/ e nessun altro popolo celebrerà ugualmente le tue lodi.”. Giove, allora, per far finire il duello subito, manda una Dira che, prende la forma di un gufo, vola intorno al volto di Turno che per il terrore gli si rizzano i capelli e la voce gli si strozza in gola. Giuturna alla vista della furia comincia il suo monologo contro Giove in cui si lamenta perché non può più fare nulla per salvare il fratello. Riprende il duello finale: Enea dice a Turno parole ironiche e provocanti; Turno, scuotendo il capo, gli risponde: “Non sono le tue brucianti parole/ad atterrirmi, belva; mi atterriscono gli dei e Giove ostile.”. Turno infine afferra un masso e lo scaglia contro Enea, ma il macigno non termina la sua corsa. Enea, a sua volta, scaglia la sua lancia che squarcia lo scudo di Turno e gli penetra nella coscia. Turno piega le ginocchia e cade a terra. Turno solleva gli occhi e, supplice, in atto di preghiera verso Enea, gli dice: “L’ho meritato e non me ne dolgo;/goditi la tua fortuna […] ormai Lavinia è tua sposa:/ non spingere oltre il tuo odio.”. Enea, ascoltando queste parole si ferma e quasi esita a vibrare il colpo finale. Ma quando, per sventura, vede il balteo di Pallante che Turno portava sulle spalle come trofeo del nemico, allora Enea, accecato dal suo dolore ed infuriato per un eccesso di ira, gli dice: “Tu qui, vestito delle spoglie/dei miei, vorresti sfuggirmi? Pallante con questo mio colpo, ti immola e si prende la sua vendetta.”.

Gridando così, gli affonda furioso il ferro in pieno petto;
a Turno (gli) si sciolgono le membra nel gelo della morte
e con un gemito la vita (gli) sfugge, sdegnata, tra le ombre.

Questi sono gli ultimi tre versi dell’Eneide.

Il Professore Biagio Carrubba

Il Professore Biagio Carrubba

La mia esperienza con l’Eneide

Il critico letterario A. Traina ha dato questa interpretazione sul finale dell’Eneide:

<<E’ il finale in ombra” del poema, simbolicamente suggellato da un lessema ominoso, umbra, antitetico “alle stelle” che, notava T. Haecker negli anni trenta, suggellano le tre cantiche dantesche […]. Questa è la grande tragica intuizione di Virgilio, che fa perenne l’attualità dell’Eneide: è sempre l’individuo, nella sua irripetibile concretezza esistenziale, a pagare il prezzo dei paradisi futuri”.
Da Publio Virgilio Marone, Eneide, Nuova Universale Enaudi, p. 846.
Giudizio fine e commento, certamente, ottimo sull’Eneide. Poi potrei citare altri bei commenti ed altre belle interpretazioni come quelli di Ettore Paratore, di Vittorio Sermonti, di Gianluigi Baldo e di Francesco Della Corte. Tutti ottimi giudizi e commenti da leggere, gustare e scoprire, con calma e con lo studio. Ma li lascio alla lettura e all’analisi dei nuovi lettori e di curiosi che vorranno leggere e scoprire la bellezza ed il fascino dell’Eneide.
Infine, a conclusione di questa breve sintesi dell’Eneide, esprimo il mio modesto parere sul ponderoso e fascinoso poema epico-mitologico di Virgilio. Io, Biagio Carrubba, affermo che l’Eneide raggiunge ed eguaglia per bellezza e fascino i poemi omerici, ma non li supera, fermandosi al loro livello di splendore. Infatti credo che molte idee e molto fascino dell’Eneide provengano dai due capolavori omerici. Su tutti riporto tre versi dell’Iliade che condensano e sintetizzano i valori e la bellezza di Omero, in relazione al finale dell’Eneide.
Disse dunque così e un velo di morte lo avvolse,/e l’anima fuori dalle membra volando all’Ade discese/e il suo destino gemendo, perché giovane e forte lasciava/ la vita” .
Canto XXII, vv. 361-363 (versi riportati da Riccardo Scarcia come versi finali a commento sul finale dell’Eneide. Virgilio Eneide, BUR Rizzoli, p. 1137.).
Io, Biagio Carrubba, posso assicurare, con certezza, che negli ultimi dieci mesi nei quali ho letto e studiato l’Eneide, ho conosciuto la storia di Enea e le sue peripezie.
Ed infine ho accresciuto la mia cultura personale ed ho raffinato la mia anima e la mia esperienza personale, culturale ed estetica.

Modica, 14 Aprile 2015

Biagio Carrubba

Il Professore Biagio Carrubba

Il Professore Biagio Carrubba

Modica, 14 Aprile 2015

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