
La terza sezione di LAVORARE STANCA, Città in campagna, comprende le poesie scritte da Pavese tra il 1933 e il 1935 ad eccezione della penultima poesia che è del 1939. Questa sezione costituisce il nucleo fondamentale ed originario di Lavorare stanca ed è la sezione più antica e compatta del libro. Il tema generale della sezione è il lavoro, i lavoratori e gli artigiani che esercitano i vari mestieri nella società civile. Accanto a questi lavoratori integrati ed attivi, Pavese tratteggia altri personaggi emarginati come alcuni ubriachi e ragazzi che provengono dalla campagna e si trovano disorientati e disorganizzati nella città. Cesare Pavese passa in rassegna molti lavoratori che svolgono vari mestieri e tratteggia molti comportamenti esterni ed interni. I personaggi sono vari e variegati e sempre in relazione ad un’attività lavorativa come muratori, sabbiatori, meccanici, commesse etc. Il tema più forte che emerge dal susseguirsi delle poesie è anche la descrizione dell’indifferenza degli uni verso gli altri. Infatti ogni personaggio vive i suoi problemi all’insaputa degli altri, in mezzo alla folla che scorre nelle città e nelle campagne e, dunque, non sconosce i problemi degli altri, cosicché ogni personaggio descritto è una isola a sé stante. Cesare Pavese descrive questi personaggi con distacco e con distanza. Pavese in questa descrizione non si lascia trascinare dalla commiserazione per ognuno di essi e quindi tratteggia ogni caso umano con sobrietà e neutralità dandone una figurazione il più possibile realistica e quasi fotografica. Cesare Pavese non scende nei particolari dei personaggi ma ne dà una rappresentazione fenomenologica e comportamentistica per non cadere nel patetico, nell’intimo e nel vittimismo dei personaggi. Questo fotografare i personaggi, non lasciandosi prendere dalla pietà ma descrivendoli nel loro ruolo attivo e realistico, fa nascere la bellezza poetica della sezione. Cesare Pavese riesce quindi a descrivere molto bene i vari personaggi cogliendo soprattutto la lontananza e il distacco che esiste tra ogni individuo e mettendo in risalto la solitudine che attanaglia gli individui di una folla che è costituita da tanti uomini, donne e bambini gli uni indifferenti e sconosciuti agli altri. Nella prima poesia della sezione, Il tempo passa, Cesare Pavese descrive i desideri e i sogni di un ubriaco. Nella seconda poesia, Gente che non capisce, il poeta descrive i desideri e i sogni di una giovane commessa che lavora a Torino e che ogni sera rientra in campagna. Nella quinta poesia, Atavismo, Cesare Pavese descrive in modo distaccato l’indifferenza della gente che passa per una strada. Un ragazzo guarda un operaio che lavora seduto per terra e si accorge che gli altri corrono veloci senza guardare nessuno. Anche l’operaio seduto per terra non vede la gente che va e viene nella giornata. Nella poesia numero undici, Indisciplina, Pavese descrive un ubriaco che attraversa la città, scansato dagli altri. L’ubriaco se camminasse ancora finirebbe in mare e manterrebbe sul fondo lo stesso cammino e la luce sarebbe sempre la stessa per indicare l’indifferenza della natura rispetto ai casi gravi umani. Questa poesia descrive in modo impressionante l’indifferenza tra i vari personaggi della città che vivono ognuno per conto suo. Nell’ultima poesia della sezione, Lavorare stanca, Pavese descrive un uomo che girovaga per una piazza deserta e si rende conto di essere solo. Questa consapevolezza della sua solitudine è espressa dal verso: “Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?”. Questo uomo capisce e sente dentro di sé che per uscire dalla solitudine dovrebbe convincere una donna a vivere insieme a lui. Il tono emotivo delle poesie della sezione è triste e monotono e si dilunga a rappresentare tanti tipi di mestieri e di lavoratori ad eccezione di due poesie che non parlano di lavoro e che hanno un tono ameno, distensivo e quasi divertente. Le due poesie spezzano il tono monotono della sezione e la rendono meno tediosa e più briosa.
Queste due poesie sono: “Avventure” e “Ritratto d’autore”.
Testo della poesia “Avventure”.
Sulla nera collina c’è l’alba e sui tetti
s’assopiscono i gatti. Un ragazzo è piombato
giù dal tetto stanotte, spezzandosi il dorso.
Vibra un vento tra gli alberi freschi: le nubi
rosse, in alto, son tiepide e viaggiano lente.
Giù nel vicolo spunta un cagnaccio, che fiuta
il ragazzo sui ciottoli, ma un rauco gnaulio
sale su tra i comignoli: qualcuno è scontento.
Nella notte cantavano i grilli, e le stelle
si spegnevano al vento. Al chiarore dell’alba
si son spenti anche gli occhi dei gatti in amore
che il ragazzo spiava. La gatta, che piange,
è perché non ha gatto. Non c’è nulla che valga
- né le vette degli alberi né le nuvole rosse –
piange al cielo scoperto, come fosse ancor notte.
Il ragazzo spiava gli amori dei gatti.
Il cagnaccio che fiuta sto corpo ringhiando,
è arrivato e non era ancor l’alba fuggiva
il chiarore dell’altro versante. Nuotando
dentro il fiume che infradicia come nei prati
la rugiada, l’ha colto la luce. Le cagne
ululavano ancora.
Scorre il fiume tranquillo
e lo schiumano di uccelli. Tra le nuvole rosse
piomban giù dalla gioia di trovarlo deserto.
(1935)
Come si vede il tono della poesia è ameno e si differenzia dalle altre poesie perché non parla di lavoro ma presenta un ragazzo che spia gli amori dei gatti sui tetti e la corsa di un cagnaccio che proviene da un fiume e fiuta l’odore del ragazzo, ringhiando.
Testo della poesia “Ritratto d’autore”.
(a Leone)
La finestra che guarda il selciato sprofonda
sempre vuota. L’azzurro d’estate, sul capo,
pare invece più fermo e vi spunta una nuvola.
Qui non spunta nessuno. E noi siamo seduti per terra.
Il collega – che puzza – seduto con me
sulla pubblica strada, senza muovere il corpo
s’è levato i calzoni. Io mi levo la maglia.
Sulla pietra fa un gelo e il collega lo gode
più di me che lo guardo, ma non passa nessuno.
La finestra di botto contiene una donna
color chiaro. Magari ha sentito quel puzzo
e ci guarda. Il collega è già in piedi che fissa.
Ha una barba, il collega, dalle gambe alla faccia,
che gli scusa i calzoni e germoglia tra i buchi
della maglia. È una barba che puzza da sola.
Il collega è saltato per quella finestra,
dentro il buio, e la donna è scomparsa. Mi scappano gli occhi
alla striscia di cielo bel solido, nudo anche lui.
Io non puzzo perché non ho barba. Mi gela la pietra,
questa mia schiena nuda, che piace alle donne
perché è liscia: che cosa non piace alle donne?
Ma non passano donne. Passa invece la cagna
inseguita da un cane che preso la pioggia
tanto puzza. La nuvola liscia, nel cielo,
guarda immobile: pare un ammasso di foglie.
Il collega ha trovato la cena stavolta.
Trattan bene, le donne, chi è nudo. Compare
finalmente alla svolta un gorbetta che fuma.
Ha le gambe d’anguilla anche lui, testa riccia,
pelle dura: le donne vorranno spogliarlo
un bel giorno e annusare se puzza di buono.
Quando è qui, stendo un piede. Va subito in terra
e gli chiedo una cicca. Fumiamo in silenzio.
(1934)
Questa poesia è davvero divertente, amena e bizzarra. Non parla di lavoro e dà alla sezione un tono piacevole, gradevole ed allegro. È divertente il fatto che l’amico di Pavese ha una barba che puzza e salta dalla finestra dentro la casa di una donna che si era affacciata perché aveva sentito la puzza della barba. Il poeta aspetta l’amico fuori in compagnia di un altro giovane amico che era arrivato e insieme fumano. La poesia, dedicata al suo grande amico Leone Ginzburg, riprende la famosa fotografia che ritrae Pavese con Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frazzinelli, scattata nel 1932.
Modica 24/ 09/ 2018 Prof. Biagio Carrubba
Modica, rivisto e riordinato il 03 giugno 2023

Modica, 10 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba
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