8. Cesare Pavese. Due poesie struggenti di “LAVORARE STANCA”.

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La sesta sezione di Lavorare Stanca, Paternità, chiude l’opera poetica di Cesare Pavese con l’aggiunta, nella seconda edizione del 1943, di alcune poesie scritte a Brancaleone Calabro tra il 1935 e il 1936, non presenti nella prima edizione del gennaio 1936. Cesare Pavese, dunque, quando pubblicò la seconda edizione dell’opera nel 1943, pose a conclusione le poesie scritte nel forzato soggiorno in Calabria perché reputava l’esperienza del confino viva, fondamentale e ancora attuale per lui, malgrado fossero passati sette anni. Il tema generale delle sezioni è infatti la lontananza da Torino, dal Piemonte e dalle Langhe. Il poeta a distanza di sette anni viveva ancora in modo intenso e pungente l’esperienza del confino e pose a chiusura di tutta l’opera due poesie struggenti: “Paternità” e “LO STEDDAZZU”. Entrambe le poesie esprimono e sintetizzano l’angoscia e il dolore che il poeta provava e sentiva dal primo giorno in cui arrivò a Brancaleone Calabro, nell’agosto del 1935, fino alla sua ripartenza avvenuta nel marzo del 1936. Dalle lettere del confino, Cesare Pavese, non faceva altro che lamentarsi della sua vita di esiliato e non vedeva l’ora di ritornare a Torino. La piccola stanza che Pavese abitava a Brancaleone Calabro si affacciava su un cortiletto, al di là del quale passava la ferrovia e al di là della quale c’era il mare. Ogni transito e sbuffo del treno suscitava in lui un moto di nostalgia per Torino. Le due poesie che chiudono l’opera suggellano tutta la sofferenza fisica e psichica di Pavese per la sua permanenza in Calabria. Le due poesie furono scritte l’una di seguito all’altra: Paternità nel dicembre del 1935 e LO STEDDAZZU nel gennaio del 1936. Le due poesie spiegano e racchiudono l’angoscia del poeta e la sua rassegnazione verso un momento della sua vita sentito come ingiusto e che il poeta non tollerava. Quando la sofferenza raggiunse il suo grado massimo, Cesare Pavese, a malincuore, decise di chiedere a Mussolini la grazia. Così il 20 febbraio del 1936 si decise a scrivere al Duce per chiedere la grazia che gli arrivò, per sua fortuna, qualche giorno dopo. Il 15 marzo del 1936 è l’ultimo giorno di confino per Pavese come scrisse nel famoso libro “Il mestiere di vivere”. Sconfortato e toccato duramente dall’esilio, il 19 marzo il poeta rientrò, finalmente e felicemente, a Torino.

Testo della poesia “Paternità”.

Uomo solo dinanzi all’inutile mare,

attendendo la sera, attendendo il mattino.

I bambini vi giocano, ma quest’uomo vorrebbe

lui averlo un bambino e guardarlo giocare.

Grandi nuvole fanno un palazzo sull’acqua

che ogni giorno rovina e risorge, e colora

i bambini nel viso. Ci sarà sempre il mare.

Il mattino ferisce. Su quest’umida spiaggia

striscia il sole, aggrappato alle reti e alle pietre.

Esce l’uomo nel torbido sole e cammina

lungo il mare. Non guarda le madide schiume

che trascorrono a riva e non hanno più pace.

A quest’ora i bambini sonnecchiano ancora

nel tepore del letto. A quest’ora sonnecchia

dentro il letto una donna, che farebbe l’amore

se non fosse lei sola. Lento, l’uomo si spoglia

nudo come la donna lontana, e discende nel mare.

Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta

il gran vuoto ch’è sotto le stelle. I bambini

nelle case arrossate van cadendo dal sonno

e qualcuno piangendo. L’uomo, stanco di attesa,

leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla.

Ci son donne a quest’ora che spogliano un bimbo

e lo fanno dormire. C’è qualcuna in un letto

abbracciata ad un uomo. Dalla nera finestra

entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta

se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare.

(ottobre 1935)

Come si vede il tono della poesia è, da un lato intimistico e melanconico perché descrive la sofferenza del poeta, e dall’altro lato è realistico perché Pavese descrive il luogo e l’ambiente del confino come attestano i versi finali dove descrive la stanzetta dove abitava dalla quale vedeva la ferrovia e il mare. La poesia inizia dicendo che il poeta è solo dinanzi all’inutile mare e guarda i bambini giocare sulla spiaggia. Anche lui vorrebbe avere un bambino e da questo desiderio forse nasce il titolo della poesia e dell’intera sezione. Il poeta scende in spiaggia di mattina ed immagina i bambini che ancora sonnecchiano nel tepore del letto e una donna che, se non fosse sola, farebbe l’amore. Di sera, invece, i bambini vanno a dormire coccolati dalle mamme e il poeta guarda il cielo stellato. Le mamme addormentano i figli e qualche altra donna è abbracciata ad un uomo. Il poeta da dentro la stanza ascolta lo sbuffo rauco del treno ed è l’unico a prestargli attenzione perché per lui il treno costituisce il mezzo del ritorno a Torino. Mentre per gli abitanti di Brancaleone Calabro il mare è importante per la pesca e quindi per il lavoro per Pavese invece è tedioso ed inutile.

II

Introduzione

Anche questa poesia descrive la vita interiore del poeta e il luogo del suo confino. Il poeta si alza quando il sole sorge sul mare ancora buio. La sua pipa è spenta tra le sue labbra ed il poeta accende un falò sulla spiaggia. Una stella brilla nel cielo mattutino e, alla luce del giorno, scompare dietro le montagne, tra la neve. Il poeta si chiede se il sole sorgerà dal mare e se vale la pena di vivere un’altra giornata dato che quel giorno sarà uguale e vuoto a quello precedente perché non accadrà nulla di nuovo. Il poeta vorrebbe soltanto dormire e ritrovare una pace interiore che non gli avrebbe fatto pensare al confino. Quando Venere scompare dal cielo il poeta prepara la pipa, l’accende e sarà pronto ad iniziare una nuova giornata, malgrado la consuetudine, l’angoscia e lo struggimento delle giornate tutte uguali. Le due poesie sono gemelle sia nella forma che nel contenuto. Infatti le due poesie hanno quasi lo stesso numero di versi e sono ripartite entrambe in tre strofe. Lo Steddazzu continua a descrivere l’angoscia e lo struggimento di Paternità. Ne Lo Steddazzu il poeta scruta il cielo non con l’occhio amichevole con il quale immaginava le mamme e i bambini nelle poesie precedente, ma con l’animo rammaricato ed amaro per il nuovo giorno che andava ad iniziare, giorno percepito come inutile come quelli già trascorsi. Per questo motivo Pavese definisce l’ultima stella che vede, Venere, con il dispregiativo di Steddazzu che è un termine tipico del dialetto calabrese. Quindi in questa poesia Pavese abbandona l’aulica lingua nazionale per abbassarsi all’uso del dialetto per indicare come il suo animo da puro ed attivo come si sentiva a Torino diventa inutile e passivo nella sua vita di confino.

Testo della poesia “Lo Steddazzu”.

L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio

e le stelle vacillano. Un tepore di fiato

sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,

e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla

può accadere. Perfino la pipa tra i denti

pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.

L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami

e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare

tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara

che l’inutilità. Pende stanca nel cielo

una stella verdognola, sorpresa dall’alba.

Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco

a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;

vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne

dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora

è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare

e la lunga giornata cominci? Domani

tornerà l’alba tiepida con la diafana luce

e sarà come ieri e mai nulla accadrà.

L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.

Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,

l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

(9 – 12 gennaio 1936)

Le due poesie, che chiudono l’opera, sono importanti per almeno due motivi perché conferiscono un tono melanconico e di sofferenza all’intera opera e perché, con queste due poesie, Pavese fa prevalere il tono realistico e annuncia, preannuncia ed apre la strada al neorealismo del dopoguerra italiano.

Modica, 24/ 09/ 2018                                    Il Professore Biagio Carrubba.

Modica, rivisto e riordinato il 03 giugno 2023

Modica, 10 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba

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