3. “LA MADRE” DI CESARE PAVESE, DA DIALOGHI CON LEUCÒ.

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“La Madre” è il dialogo numero 7, in ordine numerico, di Dialoghi con Leucò, ma è il terzo dell’opera in ordine cronologico. Il dialogo fu scritto da Pavese tra il 26 e il 28 dicembre 1945. Nella breve introduzione (notizia) al dialogo, Pavese esprime il suo giudizio sul mito di Meleagro ed Atalanta e fa anche una breve sintesi del mito di Meleagro e di sua madre Altea. In questo dialogo Pavese ridà la vita a Meleagro, morto giovanissimo per il suo destino che aveva voluto la sua morte prematura, e rinnova il mito di Meleagro e della gioventù perduta in giovane età. Alla nascita di Meleagro la Moira aveva predetto che il giovane sarebbe morto quando si sarebbe bruciato il tizzone del focolare. Altea tolse subito il tizzone dal fuoco, e lo nascose in un cofanetto che conosceva solo lei, ma quando Meleagro uccise i suoi zii, fratelli della madre, Altea per l’ira ributtò il tizzone nel fuoco e quindi Meleagro mori immediatamente. Pavese fa intendere che neanche l’incontro e il breve amore tra Meleagro e Atalanta riuscì a cambiare il tragico destino del giovane che morì giovanissimo. Il dialogo sviluppa il tragico tema del destino della morte prematura del giovane Meleagro che muore quando la madre ributta il tizzone nel focolare. Pavese stesso esplicita chiaramente, nei suoi appunti, il tema del dialogo. Infatti scrive: “tragedia di uomini schiacciati dal destino”. In questo caso è Meleagro che viene schiacciato dal suo terribile destino che lo porta alla morte in giovane età. Il dialogo si svolge tra il Dio Ermete Psicopompo e l’anima di Meleagro, subito dopo la sua morte. Ermete chiede a Meleagro se lui conoscesse il suo destino legato al tizzone e Meleagro risponde di esserne stato a conoscenza e per questo motivo sempre guardava gli occhi e i comportamenti della madre che, da un momento all’altro, avrebbe potuto buttare il tizzone sul fuoco. Poi Meleagro racconta di avere incontrato gli occhi di Atalanta che erano anch’essi vivi e sfavillanti ma anch’essi capaci di compiere un’azione feroce. Durante la caccia al cinghiale di Calidone, Meleagro ed Atalanta riuscirono ad abbattere il cinghiale e alla morte di esso, il giovane donò la pelle ad Atalanta. Questo gesto da innamorato verso l’amata, causò la ribellione dei fratelli di Altea che Meleagro uccise. Dopo questo gesto Altea, addolorata per la morte dei fratelli, decise di uccidere il figlio buttando il tizzone sul fuoco. Meleagro racconta di come nacque, durante la caccia, il suo innamoramento per Atalanta che corrispondeva il suo amore. Ma tutto ciò fu inutile perché, dopo il tragico incidente, Meleagro morì. Il dialogo si conclude in maniera diversa rispetto al mito originario perché secondo Pavese Altea e Atalanta rimangono in vita e convivono insieme nella stessa casa dopo la morte di Meleagro. Nel mito originario invece Altea si impicca presa dal rimorso dell’avere ucciso il figlio. I personaggi principali del dialogo sono Ermete e Meleagro che dibattono sul destino tragico della morte giovanile. Meleagro rimpiange il fatto di essere morto nel vivo della sua giovinezza ed Ermete lo consola dicendogli che anche se lui è morto la vita degli uomini sulla terra procede lo stesso e nulla è cambiato. Tutto procede come prima. Infatti sia Atalanta che Altea continuano a vivere la loro vita, nella stessa casa, secondo il detto “chi muore giace e chi vive si dà pace”. Mentre Pavese crede che nessuno possa sottrarsi al destino ineluttabile (“E nessuno può sfuggire al destino che l’ha segnato dalla nascita col fuoco”), io, Biagio Carrubba, penso che non sia il destino a segnare la vita di ogni uomo ma sono gli uomini stessi, con le loro azioni, a crearsi il destino per sé e per gli altri. Il messaggio del mito si ricollega al classico contrasto tra ragione e passione e noto che la passione domina la giovinezza e i sentimenti mentre la ragione prevale nella maturità e nella vecchiaia. Nella giovinezza l’uomo è più attaccato ed aggrappato alla vita, al futuro e all’amore e non pensa certo alla possibilità di morire giovane. L’amore è il sentimento principe perché congiunge l’uomo e la donna in un unico essere capace di generare figli. È un assurdo, una cosa impensabile che un giovane si suicidi in piena giovinezza perché sa che perderebbe il meglio della vita. Infatti nella giovinezza è impensabile un suicidio mentre nella vecchiaia questo è più possibile e comprensibile. I giovani che si uccidono per amore sono casi rarissimi mentre i vecchi solitari sono di più e molte volte capita che si suicidino con coraggio e risolutezza perché la ragione vince sull’amore dato che ormai davanti a sé il vecchio non vede altro che solitudine, malattie, tristezza e dolore. Il mito di Meleagro ed Atalanta rappresenta e sintetizza proprio l’acme dell’amore e della passione tra i due giovani. Meleagro ama Atalanta e la ragazza corrisponde il sentimento di Meleagro e sceglie come premio del loro amore la pelle del cinghiale, il trofeo più ambito in quella difficile battuta di caccia. Atalanta dice a Meleagro a conferma del valore del loro amore e della gioia di avere ucciso il cinghiale: “la pelle del cinghiale sarà sul nostro letto di nozze”. Ma nel mito questo amore viene stroncato dal fato contrario a Meleagro che muore nel pieno della sua gioventù. Meleagro, giustamente e naturalmente, se ne rammarica con Ermete perché ha perso l’amore e la vita tanto sognata. Infatti morire nel pieno della giovinezza è il destino più tragico e terribile che possa capitare ad un giovane. Io, Biagio Carrubba, condivido che morire in giovane età sia terribile e doloroso sia per la vittima che per i familiari. Tutto questo dolore era già stato descritto, prima ancora di Leopardi, dal grande poeta greco Baccalide il quale riscrivendo il mito di Meleagro riesce ad esprimere il dolore del giovane con questi bellissimi versi:

per un attimo ancora mi fu dolce la vita:

poi sentì venir meno le forze,

ahimè! Io piansi il mio estremo respiro, infelice,

lasciando giovinezza fiorente…

(da Baccalide, “Epinici” 5 vv. 59 – 62)

Nel dialogo “La madre” Pavese rivitalizza e fa resuscitare il genere del mito greco dando passioni e sentimenti ai vari personaggi, in questo caso ad Atalanta e a Meleagro. Il linguaggio del dialogo è quello usuale di Pavese, alto, solenne, serio ed ordinato che procura un po’ di lentezza nella lettura ma comunque affascinante ed intrigante perché ricco di figure retoriche che cercano di emulare il linguaggio retorico aulico della letteratura classica italiana. Ma il linguaggio riesce perfettamente a rappresentare i sentimenti dei protagonisti, da Meleagro, ad Atalanta ad Altea. Pavese riesce molto bene a descrivere il comportamento di Meleagro che guarda attentamente gli occhi di Altea che rappresentano l’irritabilità, la fragilità, l’ambiguità e la cattiveria dell’umanità anche se sono gli occhi di una madre che guardano il figlio. Infatti gli occhi di Altea sono allo stesso tempo gli occhi, teneri, dolci e rassicuranti della madre salvatrice per il figlio appena nato ma sono anche gli occhi, crudi, sbarrati e crudeli della madre irata che causa la morte del figlio buttando il tizzone sul fuoco. Questa ambiguità di sentimenti, sia maschili che femminili, è la caratteristica fondamentale dell’indole umana perché ogni uomo e ogni donna è al contempo buono e cattivo, generoso e furioso, santo ed omicida e dipende dall’educazione e dai suoi ideali se esso fa prevalere il suo lato negativo, l’egoismo, o quello positivo, l’altruismo, o un misto fra i due sentimenti. In questo caso Altea prima è generosa ma poi, provata e stremata dal dolore della morte dei fratelli, diventa anche lei iraconda ed istintiva nei confronti del figlio causandone la morte. La lexis del dialogo è, come stile di Pavese, un po’ noiosa anche se poi alla fine ne esce una lettura gradevole e sofferta del mito e della prosa di Pavese. La bellezza del dialogo sta sia nel mito originario di Meleagro e di Atalanta ma anche nella volontà di Pavese di riportare in vita il mito dei due giovani. Pavese è d’accordo con l’idea che nessun uomo riesca a sottrarsi al proprio destino e tanto meno ci può riuscire un giovane anche se nel pieno della sua età. La bellezza del mito coincide con la tragicità della morte prematura e con il destino immutabile. Anche questa tragicità e questa drammaticità del destino è espressa molto bene da Baccalide, nello stesso epinicio, quando, qualche verso dopo, descrive il destino ineluttabile degli uomini. In questi versi parla Eracle che dice:

Per le creature mortali non essere

è la cosa migliore, né mai vedere

la luce del sole, ma a nulla vale

continuare il lamento; meglio

dire ciò che si possa poi compiere.

(da Baccalide, “Epinici” 5 vv. 68 – 72)

Modica, 18 settembre 2018                                     Prof. Biagio Carrubba.

Modica, rivisto e riordinato il 30 maggio 2023.

Modica, 10 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba

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