20. Gli ultimi anni, difficili e sofferti, di Cesare Pavese.

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I

Introduzione

Quale è il compito del poeta? In primis il compito del poeta è quello di cercare e ricercare la bellezza delle parole perché nelle parole non c’è soltanto significato e sema ma ci sono anche sentimento ed emozione, la verità della vita e c’è anche il kalos dell’esistenza e dell’amore. Questo è quello che ha fatto Cesare Pavese nella sua breve esistenza nella sua opera letteraria e poetica.

Biagio Carrubba.

II

Io, Biagio Carrubba, credo che Pavese visse tutta la sua vita intensamente ed emotivamente, dalla sua infanzia fino alla sua morte. Il suo grande amico Davide Lajolo, di questa vita tragica, vissuta in modo sofferto, ne dà una ampia, elevata e bellissima testimonianza nella biografia del poeta “Il Vizio Assurdo” – Storia di Cesare Pavese -. D. Lajolo riporta un discorso che Pavese gli fece parlando della sua vita: “Tu parli di biografia mia. Anche tu coglieresti soltanto la parte migliore, quella che c’è nei miei libri, ma io ho altro qui dentro. C’è in me almeno tanto egoismo quanta generosità, e c’è sempre esitazione tra fedeltà e tradimento. Forse soltanto il mago di Vesime potrebbe scoprirmi tutto. Nessuno sa; io non mi confesso né ai preti, né agli amici, anzi, appena m’accorgo che un amico mi sta entrando dentro, lo abbandono. Ed abbandono le donne, quelle che tu chiami materne, appena mi illudo che mi vogliono bene. Sono sempre alla disperata ricerca di quella che non me ne ha voluto e non me ne vorrà. La sofferenza mi spaventa, ma è lo stesso spavento della madre che deve partorire. Non sono per questo un uomo complesso, come ha scritto chi ha parlato dei miei libri. È complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, dà l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli. Io sono fatto di tante parti, che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico. È proprio l’aggettivo che odio di più nella vita e nei libri, ma il mio odio non basta ad espellerlo. La mia sarebbe una biografia da scrivere col bisturi, crudele, ed anche tu saresti costretto al rifiuto”. (da Il Vizio Assurdo, storia di Cesare Pavese, Pagg. 15 – 16, Daniela Piazza Editore). PAVESE visse gli ultimi anni della sua vita scrivendo e coltivando generi diversi ma a lui più cari e sentiti: la poesia, la mitologia greca, romanzi, articoli politici, saggi teorici sulla poesia, un diario personale, fino alla stesura dell’ultima sua silloge più breve “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ispirata dalla sua passione amorosa verso l’attrice americana Constance Downling. L’ultima sentita e bellissima silloge “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” si presenta come la più compatta ed ordinata opera poetica dell’ultimo anno di vita di Pavese. Quindi negli ultimi cinque anni della sua vita, c’è il Pavese romanziere, c’è il Pavese poeta, c’è il Pavese mitologo, c’è il Pavese saggista e c’è il Pavese politico. Io, Biagio Carrubba, credo che in tutti questi articoli, poesie e romanzi ci sia il migliore Pavese; l’ultimo Pavese dalla vita intensa, travagliata, sfortunata ma originale, creativa, poetica, potente e coraggiosa fino al giorno del suo suicidio che rimane ancora oggi il gesto più inspiegabile, misterioso ma che rende il poeta e lo scrittore ancora più grande ed immortale rispetto alla vita di ogni uomo comune.

III

Cesare Pavese, come moltissimi intellettuali del dopoguerra, si fece molte illusioni sulla rinascita e sulla ricostruzione spirituale, culturale ed economica dell’Italia uscita distrutta e stremata dal secondo conflitto mondiale. Credette nell’ottimismo che il PCI di allora fosse in grado di guidare la ricostruzione dell’Italia e credette anche che il PCI potesse capeggiare la rivoluzione comunista in Italia. Questo ottimismo e questa fiducia nel futuro e nella ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra, che ebbe allora largo seguito in tutta Italia, suscitava l’entusiasmo tra i molti letterati di sinistra una parte dei quali avevano partecipato alla resistenza. Gli intellettuali di sinistra avevano visto il notevole contributo alla vittoria finale della guerra dato dai partigiani comunisti. Ma ovviamente Cesare Pavese, come tanti altri comunisti italiani di allora, esagerava sulla bontà della ricostruzione italiana e sottovalutava i contrasti e i conflitti tra PCI e DC e tra società reale e società politica. Infatti gli italiani erano, e sono, sostanzialmente un popolo di cattolici, di conservatori, di moderati, di pavidi, di piccoli grandi borghesi e cristiani che erano, e sono, culturalmente tendenzialmente di centro destra ed attaccati alle grandi personalità dittatoriali. Dopo avere subito venti anni di fascismo, l’Italia rimaneva sostanzialmente un paese agricolo assoggettato alla Chiesa che era stata una forza culturale, istituzionale e politica alleata al fascismo. Pavese aderì al PCI anche per motivi suoi personali quali la sua mancata partecipazione alla lotta partigiana. Inoltre Pavese precedentemente aveva riferito al giovane Paietta una frase grave che però rimase inadempiuta. La frase che Pavese riferì al giovane Paietta era stata: “Ricordati Gaspare che oggi non si può più essere buoni italiani, se non si ammazza un tedesco” (da Il vizio assurdo – storia di Cesare Pavese – di Davide Lajolo – Daniela Piazza Editore – Pag. 213). Un altro motivo che portò Pavese ad aderire al PCI fu la speranza di credere nei valori del comunismo. Tutti questi fatti furono quelli che fecero prendere a Pavese la decisione di iscriversi al PCI e di scrivere e di partecipare con articoli al giornale L’Unità di Torino. Il dopoguerra fu per Pavese, come per molti italiani, il crogiolo e il terreno di ideali comunisti che poi la storia italiana frustrò con il predominio della DC e della borghesia industriale e l’abbassamento del ruolo del PCI in Italia. Tra il 1947 e il 1949 Pavese si trovò coinvolto, contro la sua volontà, in una polemica con Togliatti e capì che gli ideali del comunismo e del Pci si allontanavano dalla sua vita e dalla società italiana. Inoltre Pavese si trovò coinvolto in un’altra polemica sterile con altri esponenti letterari a seguito di un suo articolo sul mito. Infine si rese conto che il suo grave handicap nascosto lo faceva soffrire interiormente e silenziosamente. Tutti questi motivi, come attestano molti critici, lo portarono alla decisione del suicidio finale che è spiegato molto bene da Davide Lajolo con queste bellissime parole: “E all’indomani partì per Roma. Fu l’ultimo viaggio. Tornò dopo due giorni a Torino. La notizia sperata non era venuta. Fu il colpo di grazia finale che bastò a ricordargli il suo fallimento definitivo. Non ho sposato te gli aveva detto la donna dalla voce rauca tanti anni prima perché sai fare poesie ma non sei buono per una donna. Da allora s’era aperto quel precipizio nel quale ora sprofondava. Si convinse che tutto era inutile, che non aveva nulla da scrivere, che non era adatto alla politica, che non valeva né per le donne né per gli amici né per sé stesso. (da Il vizio assurdo – storia di Cesare Pavese – di Davide Lajolo – Daniela Piazza Editore – Pag. 264). Io, Biagio Carrubba, condivido l’analisi profonda, attenta e conoscitiva di Lajolo e penso anche io che tutti questi motivi furono determinanti per la sua tragica decisione del suicidio finale.

Modica, 04/ 10/ 2018                                    Prof. Biagio Carrubba.

Modica, rivisto e riordinato l’08 giugno 2023

Modica, 12 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba

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