17. Cesare Pavese. LA LUNA E I FALO’. Analisi della forma del romanzo.

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Genere del romanzo.

LA LUNA È I FALÒ è un romanzo di genere “realistico e simbolico”. È un romanzo che riesce a fondere elementi neo realistici con elementi simbolici, secondo i presupposti teorici che Pavese stesso mirò a realizzare nei suo romanzi scritti dal 1930 al 1949. Lo stesso Pavese, ne “Il Mestiere di vivere”, il 26 novembre del 1949, ha classificato l’evoluzione dei suoi romanzi e della sua poetica lasciando un grafico ben chiaro che va da “Lavorare stanca” a “La Luna e i falò”.

Grafico del 26 novembre del 1949 tratto da “Il Mestiere di vivere” (Pagg. 377 – 378).

Ecco la ragione dell’estasi del ricordo: si ritrovano gli istinti del risveglio, di conoscenza del mondo”.

Lavorare Stanca                                 1930   

                                                           1933

                                                           1936    (parola e sensazioni)

                                                           1938

                                                           1940

Carcere                                               1938

Paesi tuoi                                            1939    (naturalismo)

Bella estate                                         1940

                                                           1941

Feria d’agosto                                     1941   

                                                           1942    (poesia in prosa e consapevolezza dei miti)

                                                           1943               

                                                           1944

Dialoghi con Leucò                           1945    (gli estremi: naturalismo e simbolo staccati)

Compagno                                          1946

La casa in collina                               1947-48

Il diavolo sulle colline                       1948    (realtà simbolica)

Tra donne sole                                    1949

La luna e i falò                                   1949

Questo grafico e questa evoluzione non fanno altro che confermare e realizzare una precedente affermazione teorica di Pavese sempre sulla natura simbolica del romanzo. Infatti il 14 dicembre del 1939 scrive: “Ci vuole la ricchezza d’espressione del realismo e la profondità dei sensi del simbolismo”; “Tutta l’arte è un problema di equilibrio tra due opposti”. (Dal Mestiere di vivere pag. 166). Seguendo questa indicazione di Pavese stesso, La Luna e i falò, è il romanzo che riesce a fondere insieme situazioni di neorealismo ed elementi di simbolismo. Tutti i critici sono d’accordo nel sostenere che questo romanzo è il capolavoro di Pavese perché riesce a fondere insieme, in un armonico equilibrio, elementi di neorealismo con elementi di simbolismo.

Il lessico del romanzo.

Il lessico del romanzo ha sicuramente una cadenza lirica su un contesto realistico. Molti critici affermano che una parte della bellezza del romanzo è data dall’equilibrio tra parte lirica e parte realistica della lexis. Molte pagine del romanzo sono scritte con una intensità lirica quasi poetica e altre, invece, con una capacità descrittiva e realistica molto intensa, senza che vi sia una sproporzione tra le due forme di lexis. Proprio in questo equilibrio ed armonia tra liricità e prosaicità sta una parte della bellezza del libro, come dimostra magnificamente Gian Luigi Beccaria nell’introduzione al romanzo: “Un’attualità di linguaggio negata e rinforzata ad un tempo dal rigidamente monotonale del poetico: il ritmo poetico nella prosa”. (pag. XXVIII)

Il tono emotivo del romanzo.

Il tono emotivo del romanzo è abbastanza monotono perché il monologo interiore del protagonista si svolge con la stessa cadenza nel presentare il presente e il passato, il passato e il presente e i vari personaggi che incontra. Se c’è una pecca nel romanzo è proprio questa monotonia nel raccontare che dà al lettore l’impressione di un ritmo e un tono sempre uguale, come una noiosa cantilena che si ripete, uguale per tutti i capitoli, ad eccezione dell’ultimo. Pavese stesso cercò di superare questa monotonia di tono alla fine, quando descrisse la morte di Santa cercando di elevare il tono emotivo del romanzo inventandosi una suspense finale con la descrizione precisa e realistica della morte della giovane donna ad opera dei partigiani. Questa scena finale cerca di alzare il tono emotivo del romanzo dandogli un tono più brillante ed energico e scuote il lettore dalla monotonia dei capitoli precedenti. Ma la descrizione dell’uccisione finale riesce solo in parte a fare dimenticare la monotonia del tono emotivo di tutto il romanzo. L’ultima immagine del romanzo è: “Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo finché bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”. (pag. 173) Con questa ultima azione drammatica Pavese ha cercato di collocare l’ultima tessera per cercare di riempire il puzzle scritto in precedenza, chiudendo il romanzo e cercando di dare un tono emotivo più forte rispetto alla monotonia precedente.

Il lessico del romanzo.

Il lessico del romanzo è forbito e lirico e tende alla lingua nazionale anche se Pavese fa continuamente ricorso alla parlata piemontese e usa anche molti termini delle langhe. Un altro aspetto del lessico del romanzo è certamente l’uso di molti anacoluti e di forme regionali di linguaggio. Pavese, in sostanza, come dimostra Gian Luigi Beccaria, nella sua introduzione, ha realizzato compiutamente una lingua nazionale su basi regionali.

La lexis del romanzo.

La lexis del romanzo è formata da un linguaggio lirico e forbito e da molte figure retoriche. Nella prima parte del romanzo prevale soprattutto il discorso diretto libero, mentre nella seconda parte il discorso indiretto libero. Infatti nella prima parte che è più lirica c’è un maggiore distacco tra chi racconta e i personaggi raccontati, mentre nella seconda parte dove prevale la descrizione mimetica prevale il discorso indiretto libero.

La bellezza del romanzo.

Io, Biagio Carrubba, credo che la bellezza del romanzo stia nella capacità di Pavese di avere saputo creare una galleria di personaggi, appartenenti a diverse classi sociali, che hanno in comune un unico obiettivo che è quello di raggiungere la propria felicità. Trovare la giusta strada per raggiungere la propria felicità è l’obiettivo che ha ognuno di noi nella vita e non solo nel romanzo. Lo scopo sotteso ed implicito del romanzo è quello di fare emergere attraverso gli occhi e la cultura del protagonista come ogni uomo e ogni donna, cerchi dentro di sé e fuori di sé una strategia per arrivare a soddisfare i propri bisogni interni, mettere a fuoco la propria esperienza e realizzare i propri sentimenti, cioè in una parola la felicità. Anguilla esplicita apertamente questo obiettivo quando dice: “Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono essere ricchi, innamorati, far fortuna” (Capitolo XXIX – Pag. 154). Io, Biagio Carrubba, credo che effettivamente tutti vogliamo essere ricchi, innamorati e far fortuna anche se poi nella vita soltanto in pochi ci riescono o alcuni riescono soltanto in una delle cose e non nelle altre. Questa filosofia Pavese l’aveva già espressa molto tempo prima in una lettera del novembre del 1935 ad Adolfo Ruata, in cui scrive: “La caratteristica del Padre Eterno è evidentemente la mancanza di tatto, per cui, esagerando poi dalla parte opposta, riporta vanto di essere l’altra armonia che concilia i contrari. Prendi un esempio: ci sono delle persone a cui tutto va male, di quelli che, “se vendessero cappelli, la gente nascerebbe senza testa”. Ebbene, il Padre Eterno mette al mondo delle altre persone cui tutto va bene, e dopo averle fatte belle e sapienti, le fa ancora vincere alla lotteria. E giustizia è fatta. Ha perfino inventato il Diavolo; per poter addossare a lui le trovate troppo enormi.” (da Vita attraverso le lettere – Einaudi tascabili – pag. 130 – 131). Le parole della lettera hanno un tono ironico e sarcastico che non si ritrovano nel messaggio della bellezza del romanzo. Nel romanzo le figlie di Sor Matteo cercano la strada della felicità nell’amore e nell’essere accettate in un ambiente sociale superiore, ma purtroppo tutte e tre non riescono a realizzare la loro felicità perché tutte e tre muoiono a causa di un destino amaro e crudele. Anche le donne di Valino, Rosina e la madre, muoiono a causa del suo raptus di follia. Hanno un destino migliore soltanto Nuto, Anguilla che ritorna in America e Cinto che riesce a trovare una casa dove vivere e qualcuno che gli insegni un mestiere. Alla fine, il romanzo commuove (movere) proprio perché le tre figlie di Sor Matteo trovano la morte anziché la felicità. Ma questa è l’unica emozione che si trova in tutto il libro e soltanto alla fine. Alla fine del romanzo però non c’è nessun dialogo tra la luna e i falò: la luna rimane simbolo del mistero dell’universo; il rogo di Santa rimane il mistero degli uomini che con la guerra si uccidono tra di loro. Anche i falò rimangono un mistero perché non si sa se favoriscano o no l’agricoltura o se siano soltanto dei fuochi della tradizione popolare contadina. Quindi per Pavese tutto rimane un mistero. Cesare Pavese aveva espresso la concezione del cosmo e degli uomini come mistero in una bellissima poesia giovanile, “Infinito stellato” che snoda e dispiega il mistero dell’universo.

                        Testo della poesia Infinito Stellato

                        Infinito stellato, tu, la notte alla mente

                        che ti sta ansiosa dici che sei il mistero;

                        il giorno effimero ti nasconde allo sguardo,

                        il giorno che è nulla nell’immenso tuo,

                        il giorno che è tutta la vita dell’uomo.

                        Infinito oscuro, stellato,

                        solo al tuo silenzio comprende l’uomo

                        che tra un’eternità tu gli sarai ancora un mistero,

                        sempre un mistero.

                        (marzo 1924, da Pavese Le poesie Einaudi pag. 150)

Io, Biagio Carrubba, prevedo che un giorno non molto lontano la scienza scoprirà le verità fondamentali sulla vita e sul cosmo per cui il mistero sarà svelato e sapremo da dove veniamo, chi siamo e dove andremo. Ma rimane comunque il fascino, l’importanza e il romanticismo dei falò che costituiscono sempre un momento di aggregazione e di accoglienza per molti giovani come si vede ancora oggi nei falò estivi sulle spiagge, dove molti giovani si raccolgono intorno per trascorrere la serata così come capitava al giovane Anguilla. Ecco come Pavese descrive il rapporto di trasporto di Anguilla, nella sua gioventù, con i falò: “Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo, di quelli d’estate, e gli guastava la festa”. (Capitolo XIX, pagg. 100 – 101).

Modica, rivisto e riordinato il 06 giugno 2023                                 Prof. Biagio Carrubba

Modica, 12 giugno 2023 Prof. Biagio Carrubba

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